sabato 29 novembre 2014

Il Conto del Funerale

Il “conto” del Funerale


Non era ancora morto don Franco, la sua sofferenza era indicibile.
Seppi che a Casa Cini era successo qualcosa di atroce, qualcosa che era al di sopra delle parole, dei pianti, delle grida…La profanazione di quel luogo, di tutte le cose di don Franco esprimeva solo “oltraggio”, mancanza di rispetto,  verso un essere umano, mancanza di “carità”, indifferenza verso la “morte vicina” di un fratello. L’oltraggio della morte è stato, in quel caso, un insulto raccapricciante, meticoloso, indifferente di ignobili “assassini”. Quella casa che è stata luogo di gioia e accoglienza è ora solo “dolore” e desolazione. Tutto era stato pianificato, non hanno neppure atteso che don Franco fosse spirato, il “male” come prassi, come banalità che ha caratterizzato la distruzione di un luogo e l’annientamento di esseri umani . Come torturatori hanno straziato i parenti di don Franco, con l’opera ricattatoria, psicologica diligente di macellai senza scrupoli, con il grido di “amore” cancellato, solo per ottenere quel luogo e adibirlo ai loro sporchi commerci e “loschi” affari. Un vescovo che obbedisce ad altrettanti animali, lui stesso diventa <<animale ripugnante>>. Ormai Casa Cini, un tempo luogo di cultura e solidarietà, ora “mattatoio” <<Casa della morte>> in un caleidoscopio di apparenze ingannevoli di menzogne. In questo frangente il pensiero di Dio potrebbe costituire una fonte di consolazione e di speranza, ma al contrario “tutto questo clero corrotto” ci porta al suo “silenzio” ed a un senso di solitudine e di abbandono. In ogni caso questa mancanza di “pietas” pone la questione così profondamente e dolorosamente radicata che il bisogno di giustizia si fa impellente.
L’innocenza violata di don Franco, l’offesa irreparabile del suo mondo, delle sue cose personali, dei suoi amici, dei suoi collaboratori, dei suoi parenti…Il silenzio delle vittime condannate dall’arroganza e dalla menzogna, ormai non si trasformerà più in parola…Ma quel silenzio un giorno diventerà un grido che pretende giustizia.

<<Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!>>
(C. n.. 4, 10). Il brigatista rosso che spara alla nuca è un folle o un animale. L’attentatore fascista che mette una bomba su un treno è un folle e un criminale.
 I jihadisti che hanno abbattuto le “Due Torri” sono folli e criminali. L’assassino norvegese Anders Behring Breivk ha sterminato decine di persone. Questa curia corrotta, i collegamenti con  mediatori pervertiti e società di tipo mafioso, un vescovo indifferente alla cultura, allo stesso modo “metaforicamente”, hanno sterminato parte della nostra storia, della nostra cultura. Il caso di Casa Cini è stato un vero e proprio “stupro”.

Il volto di Dio e il volto dell’uomo sono diversi da quando l’uomo Gesù di Nazaret si è presentato ed è stato riconosciuto come il Cristo e Signore, crocifisso e umiliato dai potenti, risuscitato ed esaltato da Dio. La libertà d’amore, come massima realizzazione dell’essere umano, è una possibilità e un compito rivelato e donato a tutti e ad ognuno dal giorno in cui il profeta della Galilea e il crocifisso del Golgota si è rivelato come Figlio di Dio e il fratello di ogni uomo.
Il “prossimo” è un termine dinamico e che si approssima sempre. Ti approssimi sempre a colui che si allontana. Ti avvicina a qualcuno che è un trauma per te, come nella parabola del Samaritano. Aristotile diceva “Io posso essere vicino soltanto a chi condivide i miei valori”. Aveva torto perché tu devi avvicinarti all’altro perché così ti rafforzi. Aristotile aveva torto, mentre la “Parabola” del Samaritano ha ragione. Ti avvicini a quel cadavere massacrato che è un trauma per te, ti vorresti allontanare ed invece ti fai “altro”. Il termine del “prossimo” del vangelo è completamente eversivo E’ una follia, come diceva san Paolo, rispetto alla sapienza classica. Aristotile dice “non potrò mai essere amico di uno schiavo. Tanto meno un uomo potrà essere amico di Dio. E che Dio possa essere amico dell’uomo”. Nel Vangelo è esattamente all’opposto. Dio è “Amore” ed è tuo amico. Che cosa è il “Bene”? Il bene è saper donare, perché Dio è buono, perché produce, perché si apre all’altro. Il “male” è esattamente l’opposto di questo, è non voler creare è non voler essere solo “io”.

Il male è l’inospitalità. Il male è il chiudersi nella propria individualità, chiudersi nella propria “idiozia”, come dicevano i Greci. Chiudersi nella propria individualità, senza creare, perché chi crea “dona”. Il creativo produce perché deve. Questo è il creativo, questo è il bene. Il male è esattamente l’opposto. L’Amore non è niente di sentimentale, ma è quello di aprirsi all’altro, di conoscerlo, facendoti forte se vuoi capirlo. Questa è la grandezza del comandamento cristiano. Quindi soffri, quindi ami e soffri. E’ qualcosa di paradossale, è molto più logico il pensiero di Aristotile: “perché dovrei essere amico di uno schiavo”, perché Dio dovrebbe essere amico mio”. Questa è una “sofia”, una saggezza normale. Ma contro “contra” questa logica, nella nostra civiltà è sempre risuonato un amore paradossale. Il massimo dono che Dio ci ha dato è la “libertà”. Anche di togliersi la vita, “sine glossa”.

Per don Franco, uomo di Dio, tutto questo faceva parte del suo “essere”, la sua  forza era quella dell’amore che preferisce assumere la sofferenza piuttosto che procurarla, e per questo che i signori della curia glielo hanno fatta pagare….
Curiali aridi amministratori di una vita indegna di ogni popolo civile, dove sarete nel momento in cui, dopo la vostra arida vita, dovrete rispondere a Dio delle vostre scelte disumane e cercare il volto di un amico sincero? Sarete soli questa sarà la vostra condanna che vi sarete procurati da voi stessi nell’ebbrezza della vostra avidità di denaro. La più miserevole di tutte le morti: la condanna della solitudine eterna.

Maria Paola Forlani




mercoledì 26 novembre 2014

Moda, Arte, storia e società nei ritratti femminili di Piero del Pollaiolo

Moda, arte, storia e società nei ritratti femminili di Piero del Pollaiolo


Le donne protagoniste di ritratti come quelli presenti nella mostra “Antonio e Piero del Pollaiolo “Nell’argento e nell’oro”, in pittura e nel bronzo…”, sono isolate, raffigurate di profilo; i loro occhi non incrociano lo sguardo del potenziale spettatore mostrando così modestia e pudicizia, le principali virtù ricercate dagli uomini in occasione del matrimonio. Gli artisti rappresentano la parte superiore del loro corpo, mettendo a fuoco le zone riservate allo sfoggio di gioie, vesti tessuti che, a un’attenta osservazione, risultano i veri protagonisti di queste opere.
Particolarmente comuni in area fiorentina, ritratti di questo tipo, che si ricollegano alla tradizione della monetazione e medaglistica imperiale antica, avevano verosimilmente lo scopo di ricordare un matrimonio. Essi sono la sintesi visiva di un ambiente e le figure femminili ivi ritratte un mezzo per conoscere la società urbana tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età moderna. Le donne ritratte non hanno infatti perso ai nostri occhi di contemporanei la funzione di medium originata alcuni secoli fa dall’esigenza di
comunicare la posizione di prestigio delle famiglie da cui provenivano.
Le giovani fanciulle raffigurate sono ritratte nel loro profilo sinistro, mostrano la parte superiore del corpo senza offrire informazioni relative alle casate di provenienza, in genere veicolate attraverso simboli araldici dall’unica manica visibile. Le donne sono bionde, con l’incarnato candido appena ravvivato dal trucco alle guance e alla bocca ottenuto tramite le pezzette “de Levante”, hanno capelli raccolti alla nuca e la fronte rasata, indossano vesti eleganti confezionate con tessuti preziosi, mostrano gioielli sulla testa e sul petto. Esse documentano lo stile italiano della moda che si definisce e diffonde nelle principali città dell’Italia centro-settentrionale tra Quattrocento e Cinquecento, epoca in cui sarà imitato anche all’estero. La moda italiana si caratterizza per un’elegante sobrietà che mitiga le esagerazioni dello stile tardo-gotico di provenienza francese, da cui prende ispirazione, concentrando lo sfoggio della ricchezza su tessuti e gioielli. Nel XV secolo i capi di abbigliamento dei guardaroba femminili e maschili presentano una diversificazione stagionale alla quale corrispondevano precise tipologie di abiti costituiti da una veste e da una sopravveste: cotta e giornea per l’estate, coppa e gamurra per l’inverno. Su questi abiti le leggi suntuarie intervenivano periodicamente per dosare scollature del petto, lunghezza degli strascichi, ampiezza delle maniche, qualità e quantità di gioielli e tessuti impiegati.
Il ritratto conservato a Berlino mostra una giovane donna con indosso una coppa
accollata nella parte anteriore e scollata posteriormente come prevedeva una moda già in uso nella prima metà del secolo. La coppa o pellanda, derivante dalla houppelande francese, era un maestoso indumento frequentemente provvisto di strascico da sovrapporre a un altro più aderente detto gamurra o camorra, qui non visibile. L’esemplare raffigurato dal Pollaiolo mostra la novità dell’assenza di pieghe al busto e alle maniche che, nei decenni precedenti, avevano reso le vesti ampie.
La donna del ritratto conservato a Milano indossa una gamurra aderente al busto per accogliere un’eventuale sopravveste. Nella seconda metà del Quattrocento la gamurra comincia a essere indossata senza coppa, pertanto confezionata con tessuti costosi e raffinati come quelli raffigurati nelle opere del Pollaiolo. Nel Quattrocento al posto dei bottoni, ampiamente documentati nel secolo precedente, si prediligono stringhe passanti in magliette , ovvero anellini di metallo.
Alla scollatura delle vesti si intravede la camicia sottostante, elemento della biancheria e simbolo di onore e responsabilità.
Le donne dei ritratti a Firenze e New York indossano la stessa parure, composta da una giornea di velluto morello, un colore marrone tendente al violaceo, si sovrappone ad una cotta del corpetto blu visibile nella parte posteriore dell’abito e caratterizzata da maniche color giallo oro. Nella tavola americana la porzione minore di abito mostra il corpetto della cotta di tessuto simile a quello della giornea, da cui si differenzia per il motivo broccato in oro su sfondo rosso impiegato per le maniche.
Nella tavola di Firenze la giornea mostra nella parte anteriore una linea ampia e fluida alla scollatura a “V” posta sul petto, mentre nella tavola di New York si nota una maggiore aderenza sul seno e una scollatura arrotondata e più accollata.
L’accurata e precisa descrizione dei tessuti e dei rispettivi motivi decorativi, che caratterizza in genere gli artisti toscani del Rinascimento e, con particolare evidenza, colui che ha dipinto le tavole in mostra, avvalora l’ipotesi che a Firenze ci fosse una reale collaborazione tra artisti e imprenditori tessili anche nella realizzazione dei disegni per le stoffe.
I ritratti che offrono la descrizione di gioielli per la testa, il collo e il petto sono le tavole di Milano, Firenze e New York, poiché nella tavola di Berlino l’artista punta l’ostentazione del lusso sugli splendidi tessuti con cui è confezionata la maestosa sopravveste. In quest’ultimo ritratto, infatti, la donna appare senza gioielli di cui è priva anche l’acconciatura, formata da una sobria pettinatura trattenuta da bende in velo di cotone e una berretta di seta che raccoglie la massa di capelli sulla nuca.
Non si sa esattamente quali fossero le occasioni per le quali era richiesto questo tipo di opera, probabilmente, le nozze, come si è provato a dimostrare. Le donne erano soggetti passivi ma comunque parte del gioco, scelte dagli uomini come strumento
di esibizione di prestigio e onore famigliare. Attraverso questi ritratti, più durevoli di una veste o di un gioiello, possiamo immaginare venisse loro anche riconosciuto il ruolo di reggere le sorti delle famiglie, degli stati e del genere umano contribuendo a renderlo immortale.


Maria Paola Forlani
 

domenica 23 novembre 2014

Memling Rinascimento fiammingo

Maria Paola Forlani

Memling

Rinascimento fiammingo

Gli studiosi hanno valutato che il 20% delle commissioni note di Hans Memling
proveniva da una clientela italiana e che, tra gli anni Settanta e gli inizi del decennio successivo del Quattrocento, egli fosse il pittore fiammingo più ricercato in Italia, soprattutto a Firenze. A Bruges poi risiedeva la colonia italiana più numerosa, compresi funzionari del Banco dei Medici, appartenenti alle famiglie Tani, Portinari e Baroncelli. L’imponente trittico del Giudizio Universale, richiestogli proprio dal banchiere Angelo Tani e oggi conservato al Museo Nazionale di  Danzica, non ha potuto, purtroppo, raggiungere l’Italia perché considerato troppo delicato,  per la prima mostra monografica sull’artista in Italia, allestita fino al 18 gennaio 2015 alle Scuderie del Quirinale, a cura  di Till-Holger Borchert, responsabile del Memling Museum di Bruges. La mostra riunisce una quarantina di opere di Memling: soggetti religiosi, dittici e trittici ricomposti per la prima volta, come il Trittico Pagagnotti (Uffizi, Firenze; National Gallery Londra); il Trittico di Jan Crebbe (Museo Civico, Vicenza; Groeningemuseum, Bruges, Morgan Library, New York), il Trittico della famiglia Moreel (Groeningemuseum, Bruges) e una rilevante sequenza di ritratti provenienti da raccolte italiane ed estere. È inclusa, inoltre, una ventina di confronti pittorici di mano, tra gli altri, di Beato Angelico, Ghirlandaio, Hugo van der Goes, Maestro della leggenda di sant’Orsola e Bernardino Luini, nella maggior parte dei casi di musei italiani. La figura di Memling (1440-94) e le sua storia risultano tuttora dense e lacunose. Con maggior cautela è forse allora più opportuno sostenere che, sia il luogo di apprendistato del Maestro fiammingo, ci rimangono ancora sconosciuti. L’unica cosa indiscutibile è che per arrivare nelle Fiandre il pittore doveva passare per Colonia. E le tracce di questo incontro con la città tedesca si vedono oltre che nell’evidente impressione che esercitò su di lui il trittico a sportelli del Giudizio universale di Lochner, anche nelle belle vedute architettoniche raffigurate con cura di dettagli nel Reliquiario di Sant’Orsola.
Nel gennaio 1466, probabilmente a seguito della morte di Van der Weyden avvenuta l’anno precedente, Hans si trasferisce a Bruges. Ottenuta la cittadinanza, il pittore decide di restarvi per tutta la vita. A Memling si attribuisce il merito di avere introdotto nella ritrattistica il paesaggio come sfondo, forse proprio per soddisfare i gusti della ricca borghesia italiana. Nel ricomposto Trittico Jan Crebbe, piccolo altare portatile che prende il nome dal committente, spicca La Crocifissione (Museo Civico di  Vicenza). Memling affronta in più occasioni il tema della crocifissione di Cristo anche se il suo temperamento, sentimentale e venato da una sottile elegia, è lontano dalla drammaticità di Van der Weyden.
Nella rappresentazione il Cristo crocefisso è attorniato dalla Vergine, da san Giovanni Evangelista dalla Maddalena e dall’abate donatore presentato da Giovanni Battista e da un altro abate. La maggiore drammaticità, rispetto ad altre dello stesso autore, è dovuta certamente al gruppo di Cristo, scheletrico, l’espressione dolente, con la Maddalena che si stringe alla croce, ma soprattutto alla figura della Madre avvolta nel blu del manto, chiusa nel suo dolore. E certo, le due figure di Maria e di Giovanni sono tra le più espressive, nel rapporto degli atteggiamenti, dei toni di colore, blu e rosso, dei mantelli, nelle espressioni dei volti. Sullo sfondo, a sinistra, una città turrita conclude la prospettiva di un paesaggio che sprofonda attraverso una serie di quinte alberate rocciose. Dunque dall’Italia, proprio nel periodo di massimo splendore e maturazione raggiunti dall’arte rinascimentale, continua a manifestarsi nei suoi confronti, soprattutto tra chi è momentaneamente nei Paesi Bassi, un grande interesse. Appartiene a quel periodo il quadro di Torino posseduto dai Medici, e attribuito a Memling in modo esplicito dal Vasari nelle “Vite”. “È di sua mano la tavola di Careggi villa fuori di Fiorenza della illustrissima casa de Medici”. I due committenti, Tommaso Portinari, agente bancario dei Medici a Bruges, e la moglie Maria Maddalena Baroncelli, vi sono rappresentati entrambi in ginocchio. Sempre Tommaso e Maria Maddalena Portinari sono dipinti in atteggiamento di preghiera, in due ritratti realizzati poco dopo il loro matrimonio (1470) e facenti parte di un trittico di cui si è perso lo sportello centrale.
Inoltre il trittico con il Giudizio universale eseguito attorno al 1473 e catturato in mare dal Corsaro Paul Benecke che lo donò al Duomo di Danzica, dove è tutt’ora,
era in realtà destinato alla cappella fiorentina di Angelo Tani, anch’egli impiegato alla Banca Medici di Bruges. E un altro ritratto, un uomo con medaglia, oggi appartenente al Museo di Belle Arti di Anversa, sembra essergli stato commissionato dal medaglista italiano Giovanni di Candia, al servizio della corte di Borgogna alla fine degli anni Settanta.
 Uno dei generi per il quale Hans Memling mantiene, durante tutta la sua carriera, una spiccata predilezione è il ritratto. Con una costante però: la destinazione deve risultare necessariamente sacra.
La religiosità è difatti uno dei principali “leit motiv” dell’opera di Hans Memling.
Lo spiega molto bene Max J. Friedländer, quando parla del suo modo di dipingere Maria: “ Quando pensiamo al maestro di Bruges, si presentano alla nostra mente innanzitutto delle Madonne: Madonne a mezza figura, sullo sportello di un dittico o in mezzo a un’accolta di figure intere – angeli, santi e donatori – tra le quali troneggia. Fin dai primi tempi Memling aveva trovato lo schema di composizione definitivo a cui avrebbe apportato in seguito solo piccole variazioni. Maria è eretta, il viso frontale o leggermente piegato, le palpebre abbassate, presente per il solo fatto che è presente, oggetto di devozione pudica e timida. Non la madre felice e premurosa, e neppure la regina celeste: ma sempre invece la vergine, cosciente in parte della sua consapevolezza. Memling non ritrasse mai  Maria mentre allatta il bambino. Nessun segno d’affetto turba i tratti regolari del viso un po’ stanco. (“Hans Memling”, 1949).
Al contrario di Rogier van der Weiden che esprimeva forti intensità drammatiche, in Memling non esiste impatto emotivo, bensì una dolce e suadente ripetitività di schemi e immagini cadenzate attraverso una calma atmosfera in cui la luce è diffusa senza alcuna tensione; attraverso il quieto ritmo di moduli figurativi essenzialmente mistici, astratti e isolati dal paesaggio o da qualsiasi opportuna ambientazione laica del quadro.


Maria Paola Forlani








sabato 22 novembre 2014

Luci sul '900 Il centenario della Galleria d'arte Moderna di Palazzo Pitti 1914 - 2014

Luci sul ‘900

Il centenario della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti 1914 – 2014

Mentre Ferrara ha preferito non arricchire le proprie collezioni museali con opere del’ 900, e disperdere la straordinaria collezione d’Arte contemporaneae di Casa Cini


A cento anni dalla sua fondazione la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti espone e racconta le sue collezioni del ‘900: “secolo di fervore innovativo di strappi culturali (e non solo), di tragedie e di ricostruzioni, un secolo che nelle arti ha indirizzato una contemporaneità del XXI secolo, profondamente modellata da quelle esperienze ereditate” (Crisina Acidini).
Per celebrare il centenario della sua fondazione la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti ha voluto dedicare una mostra alle collezioni novecentesche possedute dal museo.
Infatti, nonostante la Galleria d’arte moderna sia nota soprattutto per essere il museo che vanta la più vasta e importante, storicamente e qualitativamente, collezione di dipinti macchiaioli al mondo, è sconosciuta a quasi tutti l’interessante raccolta di opere novecentesche fino ad oggi relegata nei depositi.
L’esposizione, a cura di Simonella Condermi e Ettore Spalletti, (Catalogo Sillabe), tende ad attrarre l’attenzione su questo museo nel museo, fino ad ora sommerso per insufficienza di spazi espositivi: “Sono come le luci di un faro che (…) si accendono
e spengono sulle collezioni di questo museo: una sorta di percorso a corrente alterna che consente di poter far vedere le più significative selezioni di tutto
il patrimonio (…)” (Simonetta Condemi).
Viene così raccontata attraverso questa mostra, grazie al suo taglio storicistico, i tempi e i modi che caratterizzarono le acquisizioni delle opere in Galleria così da evidenziare, attraverso le scelte operate nel corso dei decenni del secolo scorso, i fermenti culturali della Firenze di quel tempo. L’evento è più di una mostra, è la prova per un percorso museale di capolavori per lo più inediti del secolo scorso, che dovrebbero finalmente trovare, a conclusione dell’esposizione, una collocazione stabile nelle ultime sale di facciata della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti. Come del resto è accaduto per le collezioni novecentesche del Comune di Firenze che con il nuovo Museo Novecento hanno trovato recentemente i loro spazi espositivi nel complesso delle Leopoldine.
Fu l’importante Legato al museo voluto nel 1896 dal critico Diego Martelli, sodale del movimento macchiaiolo, ad evidenziare la necessità che anche Firenze, come già Roma e Venezia, vi fosse una Galleria che presentasse al pubblico le proposte dell’arte moderna. La raccolta di opere di importanti esponenti dell’arte ottocentesca toscana, soprattutto macchiaiola, doveva quindi trovare degna collocazione in un percorso che comprendesse anche le novità correnti contemporanee.
Nel marzo del 1913 nelle sette sale della Galleria dell’Accademia di Firenze, il Direttore generale del Ministero, Arduino Colasanti inaugurava una prima modesta sezione degli spazi museali dedicati all’arte moderna che undici anni dopo, nel giugno 1924, sarebbe approdata a Palazzo Pitti nell’attuale sede. Le diverse provenienze delle opere che allora la componevano, consistenti soprattutto nei premi Accademici e nelle raccolte lorenesi e sabaude, erano già in grado di illustrare criticamente la lunga e complessa storia verso la fondazione museale; si tratti di fasi storiche che precedettero e prepararono la successiva stagione culminata con la Convenzione tra Stato e Comune di Firenze stipulata nel giugno 1914; rimaneva però ancora da individuare uno spazio espositivo adeguato ad una collezione in continua crescita.
Le donazioni di opere accolte, oltre agli acquisti allora effettuati finalizzati fin dall’inizio a comporre il percorso del futuro museo, permettono di comprendere i criteri di scelta che vennero adottati da quella Commissione, tuttora vigente, che era stata istituita e giuridicamente prevista dalla Convenzione con l’incarico di accrescere, secondo precise indicazioni critiche, il patrimonio del museo.
Nella selezione delle opere esposte sono state scelte quelle dei principali interpreti della cultura figurativa italiana del ‘900: Felice Casorati, Felice Carena, Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis, Gino Severini, Giuseppe Capogrossi, Guido Peyron, Ottone Rosai, che si alternano a quelle, prevalenti per qualità, degli esponenti del gruppo del “Novecento toscano” di Baccio Maria Bacci, Giovanni Colacicchi e degli altri sodali, vicini al clima della rivista Solaria ed al ritrovo canonico della cultura fiorentina, il caffè delle “Giubbe Rosse”, che resero la città negli anni venti un fertile centro di incontro dei migliori artisti ed intellettuali italiani.
In mostra le opere acquisite alle varie edizioni delle Biennali veneziane tra il 1925 ed il 1945, alla Quadriennale Romana del 1935, e quelle, molto più numerose, comprate in sede locale presso la società di Belle Arti di Firenze, ma soprattutto alle Sindacali Toscane, dedicate alla cultura figurativa regionale.
Oltre a questi ingressi non meno rilevanti erano quelli che giungevano grazie ai doni, testimonianza, con la loro crescente frequenza, di un rapporto sempre più stretto tra la Galleria d’arte moderna e la città.
Gli anni del dopoguerra furono caratterizzati da una stasi nell’attività di acquisizione di opere da parte della collezione del Novecento grazie all’ingresso delle opere premiate alle varie edizioni del “Premio del Fiorino”, che lo statuto della stessa manifestazione destinava al museo.
Queste opere, del resto, sono l’unica testimonianza efficace della cultura figurativa italiana di quegli anni e rappresentano un significativo incremento di dipinti dovuti alla mano di Felice Casorati, Filippo De Pisis, Primo Conti, Fausto Pirandello, Vinicio Berti, Fernando Farulli, Sergio Statizzi, Corrado Cagli.
Il percorso della mostra termina con la presentazione delle ultime acquisizioni volute dalla Commissione operate negli ultimi trenta anni della sua attività, dal 1985 ad oggi: tra queste Confidenze di Armando Spadini, La Mascherata di Mario Cavaglieri, già in collezione Longhi, e una bellissima Veduta di Grizzana di Giorgio Moranti, dedicata all’amico Ragghianti.

Firenze con il nuovo Museo del ‘900 nel complesso delle Leopoldine e la raccolta di Arte Moderna di Palazzo Pitti ha compiuto un’operazione di notevole prestigio e di “memoria” per la città, dando grande attenzione ad un secolo colmo di fervore innovativo e di ricerca.
Per chi scrive si pone una riflessione sul territorio estense, patria di Filippo De Pisis e di molti grandi artisti del novecento e del contemporaneo presenti nelle collezioni fiorentine.
La città di Ferrara ha abbandonato, da molto tempo, ogni tipo di attenzione all’arte del ‘900 e alla crescita delle raccolte museali, resta la memoria, ormai lontana, delle “Raccolte di opere d’arte” passate al Centro Attività Visive di Palazzo dei Diamanti e Palazzo Massari (per la Video Arte) degli artisti espositori, curate da Franco Farina (fondatore delle Gallerie civiche di Arte Moderna di Palazzo dei Diamanti) e della straordinaria collezione di “Arte Contemporanea” di Casa Cini, raccolta con sapienza da don Franco Patruno con  la consulenza di Claudio Spadoni, di Renato Barilli e dello stesso Franco Farina, ormai, dispersa inesorabilmente.


Maria Paola Forlani







Il Viaggio oltre la vita

Il viaggio oltre la vita.

Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale.

Fra le popolazioni preromane emerge, per quantità di reperti artististici, quella etrusca. Già gli antichi se ne chiedevano l’origine. Eròdoto (V secolo a.C.) riportava la tradizione, raccolta da storici precedenti, che gli etruschi, guidati da Tirreno, sarebbero trasmigrati in Italia dall’Asia Minore. Un altro storico, Dionigi di Alicarnasso (I secolo a.C.), invece, ne sosteneva l’autoctonia e, quindi, l’origine locale. Queste tesi antiche sono state variamente discusse, accettate o confutate.
Ad esse se ne è poi aggiunta un’altra, secondo la quale gli etruschi sarebbero scesi in Italia dal Nord, passando attraverso le Alpi.
Sono tesi, tutte che hanno un loro fondamento. Ma nessuna è completamente convincente. La discussione è, forse, oziosa, almeno allo stato attuale delle conoscenze. Il problema si pone infatti per qualsiasi civiltà antica, né è possibile risolvero, perché le origini di ogni popolo storico affondano le loro radici in un età, quella preistorica, che, perché tale, è priva di documentazione.
Al problema delle origini si aggiunge quello della lingua. Non è del tutto vero, come spesso si dice, che noi la ignoriamo totalmente. Ne conosciamo l’alfabeto e molte parole; ma non possediamo testi sufficientemente lunghi ed importanti da darci un’ampia informazione storica.
Gli Etruschi, qualunque sia la loro origine, erano stanziati nella regione che da essi prese il nome di Etruria, compresa fra l’Arno a nord e il corso del Tevere a oriente e a sud, in quella zona che oggi è formata dalla Toscana (il cui nome deriva da Tuscia, come i latini chiamavano l’Etruria), dall’Umbria occidentale e dal Lazio settentrionale fino alle soglie di Roma. Nel momento della loro massima potenza (VII_VI secolo a.C.), estesero il loro dominio a sud, oltre il Tevere, fino in Campania e a nord, al di là dell’Appennino, dove sono etrusche le città di Misa (Marzabotto), Fèlsina (Bologna), Spina e Adria. Più tardi, perduta l’influenza su Roma con la cacciata dell’ultimo re, l’etrusco Tarquinio il Superbo (fine del VI secolo a.C.), sconfitti dai greci nella battaglia navale di Cuma (474-473 a. C.), invasa dai Celti la valle padana, gli etruschi vedono ridotta la loro prevalenza in Italia; finchè caduta Veio nel 396 a.C., sconfitti dai romani un secolo dopo nella battaglia del Sentino (295 a. C.), anche essi entrano gradualmente nell’orbita della nuova grande civiltà di Roma in continua espansione, unificandosi e confondendosi con le altre genti italiche.
Politicamente, anche all’epoca della loro massima potenza, gli etruschi non costituiscono uno stato unitario. Anzi ognuna delle loro città forma un piccolo stato autonomo (simile alla polis greca), tutt’al più federato con le altre, come nella dodecàpoli  (<<lega delle dodici città>>). I centri abitati – come quelli micenei – sorgono per lo più, in cima a colli e sono protetti da mura. Basta ricordare alcuni esempi ancora esistenti: Fiesole, Cortona, Chiusi, Perugina, Volterra e così via. L’impianto urbanistico di queste città è condizionato dagli scoscendimenti naturali. Ma non privo di una regola ordinatrice, che più chiaramente è possibile conoscere in una città come Marzabotto, sorta in pianura sulle rive del Reno, in Emilia.
Nata da un’idea di Genus Bononiae Musei nella Città, Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Museo Nazionale di Villa Giulia, implementata fortemente da Cineca con un progetto scientifico e tecnologico senza precedenti, ha inaugurato fino al 22 febbraio a Palazzo Pepoli Museo della storia di Bologna la mostra Il viaggio oltre la vita. Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale.
Realizzata in collaborazione con l’Università di Bologna, la Soprintendenza per Beni archeologici dell’Emilia Romagna e dell’Etruria Meridionale, la grande mostra dedicata alla civiltà Etrusca focalizza l’attenzione su un aspetto tanto affascinante quanto complesso: il ricco immaginario di questo antico popolo nei confronti dell’aldilà. Un tema senza tempo affrontato da molteplici punti di vista: accanto ad una rigorosa parte storico-scientifica che permette di ammirare una serie di incredibili reperti, alcuni dei quali visibili per la prima volta al di fuori di Villa Giulia, vi è una sezione basata sulle più evolute tecnologie in ambito di realtà virtuale e dei più avanzati aspetti della multimedialità che riescono a creare ambienti immersivi e situazioni interattive, coniugando scienza, arte ed effetti spettacolari in un perfetto equilibrio espressivo.
Il Museo di Villa Giulia di Roma, con questa mostra, si apre alle nuove tecnologie, accogliendo all’interno del suo percorso – primo Museo Nazionale d’Italia – un nuovo film d’animazione 3D con la partecipazione di Sabrina Ferilli. Accanto al cartoon, che racconta la storia dell’etrusca Veio, figura nella parte romana della mostra una riproduzione in ologramma della celebre Situla della Certosa e l’esposizione di una stele felsinea di particolare pregio.
Il tema centrale della mostra “Il viaggio oltre la vita”, costituisce l’aspetto più affascinante della civiltà etrusca, affrontato in mostra con l’obiettivo di svelare, attraverso immagini e oggetti, le concezioni sull’Aldilà.
La mostra presenta capolavori del Museo di Villa Giulia alcuni dei quali esposti per la prima volta fuori Roma: ceramiche figurate, sculture in pietra e l’emozionante trasposizione di una Tomba dipinta di Tarquinia (La Tomba della Nave),
le cui pareti affrescate sono state “strappate” dalla camera originale e rimontate in pannelli in maniera tale da ricostruire interamente l’ambiente tombale all’interno del Museo della Storia di Bologna. Si possono inoltre ammirare raffinati vasi attici da tombe etrusche tra cui il celebre Cratere di Euphronios, trafugato e poi restituito all’Italia dagli Stati Uniti, e due Sculture in pietra da Vulci e da Cerveteri.
Il Sarcofago degli sposi è il monumento-simbolo della civiltà etrusca, diventa per la prima volta oggetto di una spettacolare ricostruzione virtuale nella sala della Cultura del Museo della Storia di Bologna, realizzata con le più avanzate tecnologie disponibili.

Maria Paola Forlani












LE DAME dei Pollaiolo

Le dame dei Pollaiolo



Una bottega del Rinascimento

Al Museo Poldi Pezzoli di Milano, viene presentata una preziosa esposizione a cura di Aldo Galli, Andrea di Lorenzo e Annalisa Zanni, (Catalogo Skira)fino al 16 febbraio 2015, che ha l’obiettivo di riunire una selezione di opere di grande qualità provenienti dalle botteghe di due dei più famosi artisti del XV secolo – Antonio e Piero del Pollaiolo – e che vuole essere l’occasione per far conoscere al pubblico il grande talento e i molteplici interessi che hanno animato l’attività dei fratelli.
Antonio (Firenze 1431/1432) – Roma 1498) e Piero di Jacopo Benci (1441/1442 – ante 1496), detti del Pollaiolo a causa dell’attività svolta dal padre, venditore di polli nel mercato vecchio di Firenze, furono tra i maggiori protagonisti del Rinascimento fiorentino del XV secolo.
Antonio del Pollaiolo, il maggiore d’età, fu innanzitutto orafo, ma la sua versalità tecnica e la sua capacità nel disegno gli permisero di realizzare anche incisioni, oltre ai dipinti e sculture. La sua è la storia del successo di un uomo che nato in una famiglia umile, divenne uno dei maestri più celebri e contesi del suo tempo. Piero fu invece esclusivamente pittore: realizzò numerosi dipinti per committenze pubbliche e private, forse avvalendosi dei disegni di Antonio. Insieme a loro collaborava un terzo fratello, Silvestro, scomparso prematuramente.
La mostra Le dame del Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento, che intende ripercorrere la storia della fortuna artistica dei fratelli fiorentini, ha avuto come naturale punto di partenza il simbolo del Museo Poldi Pezzoli: il Ritratto di giovane donna di Piero del Pollaiolo, eletto ad effige della casa museo dai milanesi stessi e considerato uno dei maggiori capolavori della ritrattistica della seconda metà del ‘400. Accanto alla dama cittadina vengono riuniti per la prima volta nella loro storia gli altri tre ritratti attribuiti nel tempo ai fratelli Pollaiolo, grazie a importanti prestiti da istituzioni nazionali e internazionali: la Gemäldegalerie di Berlino, il
Metropolitan Museum of Art de New York e la Galleria degli Uffizi di Firenze.
I dipinti delle quattro dame, probabilmente appartenenti al genere del “ritratto nuziale”, sono un mezzo per conoscere la società di fine Medioevo e sono segno tangibile della bravura dell’artista: la sua abilità si misura, infatti, anche nella capacità di saper restituire la bellezza e la preziosità degli oggetti raffigurati.
Questi ultimi non erano mai di pura invenzione, ma venivano appositamente realizzati da artigiani e poi riprodotti nei dipinti. I ritratti delle quattro dame raffigurano quindi un campionario delle capacità tecniche e del gusto raffinato custodito nelle botteghe del Rinascimento, non da ultimo quelle dei fratelli Pollaiolo.
Oltre ai ritratti delle quattro dame, vengono esposti anche splendidi dipinti di medio e piccolo formato capaci di evidenziare le differenze tra cultura pittorica di Antonio, caratterizzata da un disegno vigoroso e carico di energia e quella di Piero più preziosa e materia, attenta alle sfumature e alle trasparenze.
A testimonianza dell’ampiezza e della complessità degli interessi e del talento di Antonio, l’esposizione raccoglie inoltre molteplici capolavori provenienti dalla sua bottega e risultano di diversi campi di applicazione: disegni, sculture in bronzo e terracotta e altre opere preziose, come scudi da parata e crocifissi in argento e sughero. Punti di partenza per lui sono Donatello e Andrea del Castagno: la luce e la linea. Il problema del movimento è centrale nelle arti figurative. Fino all’invenzione del cinematografo la storia rappresentata, in pittura o in scultura, è immobile.
Nell’immobilità dei personaggi l’autore deve esprimere il significato di ciò che narra e quindi un’azione. Piero della Francesca si serve di questa immobilità costituzionale
per esporre l’idea che è in ogni oggetto: la sua eternità. Andrea del Castagno, attraverso la linea, allude al movimento successivo. Il Pollaiolo, partendo dalla linea castagnesca, esprime la continuità del moto nello spazio, esprime la fluidità della vita.
È un’attività eroica, quella dell’uomo che conquista il proprio spazio, è l’attività combattiva di chi sa che niente gli è donato dall’alto, che tutto è ricerca continua, drammatica. Nel David, la figura arretra e si imposta obliquamente. L’assito ligneo alle sue spalle, invece che parallelo al piano di <<intersecazione>> della piramide visiva, si muove seguendo la posizione dell’eroe. Ne esce una figura non monumentale, come quelle di Andrea del Castagno, ma ansiosa, pur nella sua fierezza, inquieta, ricercatrice.
  
Sappiamo che non esistono più le tre grandi tavole rappresentanti le
Fatiche d’Ercole, dipinte da Antonio per i Medici e collocate nella <<sala grande>> del loro palazzo.  Restano invece due tavolette che probabilmente, derivano da quelle maggiori: una con Ercole e l’Idra, l’altra con Ercole e Antèo.
Il predominio della linea, come mezzo espressivo, lo si può meglio vedere nei disegni e nelle incisioni, dove tutto viene costruito senza l’ausilio del colore per esempio, nella nota Battaglia di nudi, i dieci uomini, armati della sola spada, che si affrontano con elegante ritmo ballettistico, sono realizzati con la sola linea, senza chiaroscuro.
Ma anche lo stupendo Ritratto di gentildonna (icona del Poldi Pezzoli), opera, di Piero del Pollaiolo è basato, quasi esclusivamente, sulla linea. Il profili campisce su un fondo privo di elementi panoramici o architettonici, così che la nostra attenzione si polarizza su di esso e sul contorno. Che è netto, vivo, espressivo definisce con esattezza il limite del volto, pur alludendo anche alla prosecuzione di esso: il volume <<gira>> non soltanto verso lo spettatore, ma anche dall’altro lato (quello che non vediamo e che ci viene suggerito). Così il lieve chiaroscuro, appena accennato, accarezzando le delicate fattezze del viso, modella l’incarnato e indica il morbido gonfiarsi dei capelli. E, a rendere l’elegante tornitura dell’esile collo, basta il giro della collana di perle, come basta il velo trasparente a rendere la forma dell’orecchio che ricopre. Il gioco lineare si accentua nell’arabesco del nastro e del filo di perle che si intrecciano ai capelli; si nota la delicatezza e la grazia con cui è disegnato l’attacco di questi alla fronte e alle tempie ed è accarezzata la rasatura sfumata della nuca.


Maria Paola Forlani



GIAPPONE Dai Samurai a Mazinga

Giappone
Dai Samurai a Mazinga


A Treviso nella sede della Casa Dei Carraresi si è aperta la mostra “Giappone. Dai Samurai a Mazinga”, fino al 22 febbraio a cura di Adriano Madaro e Francesco Morena.
Dal 1868, il Giappone sviluppò una cultura del tutto originale, dovuta alle contaminazioni con l’esterno che seppero fondersi con lo spirito più misterioso di questo popolo, in un connubio di rara eleganza e straordinaria raffinatezza. In questo armonico contrasto – quasi un paradosso – risiede l’aspetto più interessante della cultura giapponese, creata da un popolo che diede i natali ai più feroci guerrieri –
 i Samurai - , e alle più delicate e raffinate figure femminili – le Geishe -; che seppe aspirare alla perfezione nel compiere ritualmente un unico gesto immutabile di secolo in secolo – la Cultura del Tè -, e perfezionato la propria tecnologia elevandosi ad esempio insuperato per tutto il mondo – i Robot -.

Sezione dedicata ai Samurai

 Il  Samurai  figura del guerriero detto anche buschi – ha avuto nella storia del Giappone il ruolo di protagonista assoluto.
Tra l’equipaggiamento dei samurai la spada era l’oggetto più importante nel quale si incarnava la sacralità di questa figura ormai mitologica. La spada giapponese è l’arma perfetta letale eppure bellissima, forgiata nell’acciaio più puro da Maestri venerati quali demiurghi della guerra. In mostra sono esposte una ventina di armature complete, corredate da elmi; due spade accompagnate da else di altre spade appartenute a famosi guerrieri e suddivise in clan, e alcune maschere da
combattimento.

Sezione dedicata al Teatro

Il Nð è la più sofisticata forma di teatro giapponese. Fortemente imbevuto dei principi del Buddismo Zen, fu messo a punto tra il XIV e il XV secolo rielaborando tipologie di teatro più antiche e beneficiando della protezione dello shðngun e dell’aristocrazia militare. I drammi – messi in scena da soli attori maschi che impersonano anche i ruoli femminili – hanno come trame storie di divinità, di battaglie, di spiriti vendicativi; il palcoscenico è sobrio, e la recitazione è una miscela di danza e canto con ritmi cadenzati e movimenti lenti e iconici. I costumi sono lussuosi e raffinatissimi. Il più importante strumento a disposizione dell’attore di teatro Nð, quasi oggetto di  venerazione, è la maschera (men). Ne esistono numerose tipologie, tante quanti i ruoli che formano il repertorio tradizionale. Realizzate da intagliatori specializzati, hanno la capacità di assorbire e di riflettere le variazioni della luce, catalizzando emozioni per divenire specchio di sentimenti e passioni, divine e terrene. In mostra sono esposte dieci preziose maschere tutte appartenenti al Teatro Nð.

Sezione dedicata a la “Via della scrittura””

In tutta l’Asia estremo-orientale, in Cina come in Corea e Giappone, scrivere non è solamente un mezzo per comunicare ma è un processo artistico, proprio come la pittura e la musica. Il sistema di scrittura giapponese combina caratteri cinesi con un alfabeto che si tramanda sia stato inventato da Kðbð Dashi (774-835), il monaco che diffuse nell’arcipelago i precetti del Buddismo esoterico. Il gesto del pennello che imbevuto di inchiostro precedentemente sciolto con acqua sulla pietra imprime il tratto sulla carta, non è che finale di un processo mentale complesso, che coinvolge studio, meditazione, preghiera, affinché il risultato sia armonico, ispirato, degno della trascendenza.

Sezione La Cerimonia del Te.

La Cerimonia del tè (Chanoy) è la quintessenza dell’estetica giapponese.
In mostra è ricostruita una antica Sala da Té con i suoi semplici arredi e tutti gli oggetti di rito.

Una sezione è dedicata allo Shunga, le immagini della primavera.
Le shunga (“immagini della Primavera”, intesa come rinascita) non si può descriverle in maniera diversa, sono immagini dall’esplicito contenuto erotico.
Tuttavia prima che erotiche o pornografiche che si voglia, le shunga sono opere notevoli della storia della grafica giapponese. Esse furono realizzate da artisti di prim’ordine dell’Ukiyo-e, le “immagini del Mondo Fluttuante”, da maestri della xilografia, come Hokusai e Utamaro, ai quali il mercato richiedeva, per svago degli
acquirenti, immagini di questo tipo.
In mostra sono esposte 34 shunga.

Ukiyo-e, le immagini del Mondo Fluttuante

L’Ukiyo-e, letteralmente le “immagini del Mondo Fluttuante”, è il genere artistico che meglio ha descritto una parte della società giapponese del periodo Edo (1603-1868). Le sue immagini raccontano la vita degli abitanti delle più importanti e popolose città di quei tempi, soprattutto Edo (l’attuale Tokyo), Kyoto e Osaka.
In mostra sono presentate opere di Hokusai, Utamaro, Eisen e di altri artisti tra il XVIII ed il XIX secolo.

Sezione Inrð  (scatoline), netsuke (fermagli), ojime (anellini): vezzi per uomini elegantoni

In questa sezione si possono ammirare tre Kimono (uno femminile, uno maschile e uno del teatro Nð), tre obi oltre a raffinati oggetti da toeletta, assieme ad una dozzina di bellissime lacche (scatole, portavivande, servizi da scrittura) e due preziosi strumenti musicali, i famosi samisen e Koto, fondamentali per la musica giapponese. Non vi sono gioielli, perché le donne giapponesi, comprese quelle nobili e quelli appartenenti alla famiglia imperiale non indossavano alcun gioiello, ma ponevano particolare cura solo alla capigliatura.

Sezione : “dei piaceri effimeri nel Giappone del periodo Edo”.

Nel periodo Edo ( o Takugawa, dal nome della famiglia cui appartennero gli shðgun -  comandanti dell’esercito, dittatori militari,
che governavano il paese in quel lasso di tempo) . Il Giappone scelse autonomamente di isolarsi dal resto del mondo: a tutti i giapponesi era fatto divieto di abbandonare l’arcipelago così come per gli stranieri era proibito l’ingresso; solo a
Nagasaki era concesso che risiedessero una comunità cinese e gli olandesi delle compagnie delle Indie Orientali. (VOC)
Il fenomeno sociale più importante di quell’epoca è stato sicuramente l’inedito sviluppo della città di Edo l’attuale Tokyo.
Con il declino economico dei militari, sorsero molte attività artigianali e mercantili che formarono una nuova borghesia, ricca e prosperosa. Le città pullulavano di attività ricreative per i nuovi facoltosi: teatri, arene di sumð e, soprattutto, le cosiddette Case Verdi, per attività licenziose. Il quartiere che le raccoglieva si chiamava Yoshiwara.

Dopo secoli di isolamento il Giappone conquista l’Occidente con la raffinatezza dei suoi gusti e la precisione tecnologica. Dagli antichi samurai ai futuristici super robot: si chiude un antico cerchio per diventare modello di modernità nella produzione di sofisticati giocattoli, molti dei quali visibili in mostra.

I raffinati maestri d’arte nipponica ispirano i grandi maestri della pittura europea, questo tema apre
 “ La sezione del  Giapponismo, il Paese del Sol Levante ispira gli artisti”

Il Giapponismo è un fenomeno artistico che si è sviluppato tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento in Europa e negli Stati Uniti.
Gli artisti si resero subito conto di quanto nuova e diversa fosse l’arte giapponese e ne trassero ispirazione per realizzare opere d’arte di stile e gusto innovativo.
In mostra vi sono due stampe di Hiroshige che furono modello per Van Gogh, il quale le copiò a testimonianza del suo apprezzamento per l’arte giapponese. Accanto a queste opere vi sono anche le riproduzioni degli originali custoditi al Museo Van Gogh di Asterdam.

Maria Paola Forlani