venerdì 27 febbraio 2015

Intervista a Lucio Dalla di Franco Patruno

Nel terzo anniversari della morte di Lucio Dalla riportiamo la bella intervista di don Franco Patruno, dall’Osservatore Romano del 30, ottobre 2002.
Da quell’incotro tra i due nacque una grande amicizia.



"SENTO IL BISOGNO DELLA SUA PRESENZA…L'INCONTRO CON LUI E' UN'ESPERIENZA DI PERDONO"


Non appaia strano che una conversazione con Lucio Dalla inizi con un libro; ma si tratta di "Bella lavita", un felice succedersi di storie scritte dallo stesso cantante e musicista nella forma della fabula, assai prossime ad alcuni temi delle sue canzoni. Lo studio è molto bello, ampio, cadenzato da opere d'arte contemporanea e da uno splendido ovale con una Madonna col Bambino cinquecentesca collocata dietro la scrivania. Lucio è spontaneo, pronto a colloquiare e ad inserirsi al mio incipit su un possibile antico amore verso la letteratura: "Ho avuto due momenti ben distinti, perché da ragazzo non c'erano altri stimoli e ho letto tantissimo, quasi a far tesoro anche per il futuro, tra il piacere e la metodologia. Poi dall'avvento della televisione e dalla passione per il cinema, i libri si riducevano a cinque o sei all'anno. Ma non trovavo contraddizioni, perché avvertivo che il racconto visivo era una nuova forma di cultura e d'apprendimento. Negli ultimi anni, invece, è rispuntata la "passionaccia" per la pagina scritta con forte accentuazione, anche se, però, ho riletto tutti i libri della gioventù scoprendoli in modo nuovo, con nuovi occhi. E' stato come un gioco di verifica sulle pagine che avevano veramente segnato la mia vita". Mentre Lucio parla, ho la sensazione che ci si conosca da tempo immemorabile, quasi un'intuizione di comunanza di sentimenti. Continua: "Quando poi un editore mi ha proposto di scrivere e di pubblicare dei racconti quasi in sequenza, cioè non un libro solo ma diversi e legati tra di loro, veniva incontro ad una mia esigenza. Non sento, infatti, una mia canzone come isolata, ma, ripeto, quasi un momento nel continuo della sequenza. Questo l'avverto soprattutto in questi ultimi anni. Quando in passato scrivevo una canzone, questa era emblematica di uno stato d'animo e chi l'ascoltava ne faceva quasi un pezzo unico e simbolico del momento storico che si stava vivendo." Dalla ha un colpo di fantasia quando mi dice che "oggi la canzone da sola è come una pecora in un night club" esprimendo molto bene l'urgenza di collegamenti non puramente formali, una sorta di congiunzione tra un tassello ed una altro di un mosaico in divenire. Mentre parla, prende in mano un oggetto prezioso, quasi una clessidra storica che è geometricamente deposta sulla scrivania, e mi dimostra la polifunzionalità dell'oggetto, ora decorativo e persuasivo nel contesto dell'arredamento. "Non riesco più a pensare - continua - ad una cosa unica. Pensa ad un concerto che è preceduto da un Cd o che sarà trasmesso per televisione: tutto è collegato, unito o, come mi suggerisci tu, un tassello di un mosaico più ampio. Anzi, penso che sempre più la vita stessa sia mosaicale perché le realtà non sono univoche: dove sembra definitivamente chiudersi una vicenda, questa ne germina un altra." Mentre Lucio parla, mi chiedo, e chiedo a lui, se i passaggi da un momento all'altro, cioè dalla canzone alla performace in tv, dalla scrittura e da questa ad un concerto, non crei il disagio della dispersione. "No, non credo - mi risponde subito -, o, meglio, così non è per me. Avverto interni passaggi e connessioni tra i linguaggi, per cui quando sperimento musicalmente dopo aver scritto un racconto, penso ad un unico evento che si esprime in modi diversi ed arricchisce il  mosaico". E' molto bello che Dalla personalizzi sempre :"Credo che l'uomo, nei suoi momenti più interessanti, soprattutto quelli che nascono dal disagio, senta il bisogno di andare oltre. Non è una mia constatazione che la gioia spesso segua il disagio." Mi collego a quanto dice proponendo un termine grave e fortemente connotato esistenzialmente, cioè l'angoscia. Lucio, pur continuando a muoversi per dar forza alle parole, si concentra più intensamente e sposta la conversazione da possibili esiti astratti alle sue opere. "Avrai notato -.riprende ritmando le parole come in un blues - che i miei personaggi non sono mai dei vincenti. Infatti non si tratta solo di precari, ma di persone coscienti della loro precarietà. Debolezza è tutt'altro che stupidità: la grandezza dell'uomo sta nella sua debolezza. Quando uno avverte il limite e non si autogratifica mitizzandosi, è veramente grande. Non si tratta di falsa umiltà, che è ipocrisia, ma, ripeto, coscienza di una precarietà pellegrinante." Mi accorgo che, senza la minima forzatura, il dialogo s'è fatto religioso, anzi decisamente cristiano. "Io credo in Dio e avverto che vuole divinizzarci. Non fraintendere: mi ama e mi rende partecipe della sua vita. Questo è stupendo, unico, inimmaginabile." Mentre parla, ma non per distrazione, guardo il quadro con la Madonna e il Bimbo che, lontano da un intento puramente ornamentale, Lucio ha inserito nella parete a conclusione di un percorso. Infatti, l'ampia stanza potrebbe essere dispersiva, ma il punto focale non è al centro dello spazio, ma ellitticamente dietro la scrivania, a favorire il senso d'intimità e di rapporti personali. "Chiedo a Dio, e lo prego con grande piacere, che mi guidi nei momenti più bui, anche quando, in teoria, dovrebbe abbandonarmi. Mi fido di Lui perché non è solo intelligenza che calcola, amore senza limiti. Allora è come essere raccolti." L'intervista diventa un confronto tra amici. Gli chiedo: "Quando e come preghi?" Più che una risposta è un collegarsi: "E' una richiesta d'intervento continuo che inizia con la presa di coscienza di un elemento talmente visibile da essere imbarazzante: è l'amore, il sapersi amati da Dio in maniera misteriosa, imperscrutabile. La constatazione nasce dal piccolo, dalla cronaca della nostra vita." Ora Dalla sembra entrare in uno dei suoi motivi musicali, con le piccole storie che diventano grandi forse a loro insaputa. "Quando, ad esempio, torno a casa alla sera, aprendo una finestra vedo il cielo. Ci sono tante finestre, tutte in contatto col mondo. Non sono un teologo, ma penso, infantilmente, a Dio che mi posiziona, mi vede nella mia attuale collocazione. E' come un guardiano, nel senso di una sensazione della sua presenza creatrice ed amorosa." Sorridendo, come farebbero i teologi che scrivono canzoni, parla poi della Trinità riportandomi al triangolo dei vecchi catechismi: "Il vertice è Gesù, nel senso del Verbo che si fa carne, la persona visibile che svela quello che mai si sarebbe potuto vedere e toccare." Mentre parla, penso ad un triangolo capovolto, per non scomodare il mio vecchio "De Trinitatae" che, con i suoi schemi logici, manderebbe in crisi la proiezione ortogonale che sta delineando. Anzi, ricordo la prima Lettera di Giovanni. Lucio, infatti, continua dicendo che "Gesù è il testimone che deve essere visto. E' chiaro che pregandolo mi unisco al Padre e allo Spirito Santo. Di notte, nei momenti veramente liberi dopo giornate di lavoro, vivo momenti di stupore o, usando un parolone, mistici eppure familiari. Gli dico, ad esempio, 'dimmi tu cosa devo fare'. Sento il bisogno di quel silenzio notturno per avvertire la Sua presenza; sento, cioè, che è grande, che mi guida, consiglia, indica la strada. È un'esperienza di perdono: non un alibi, perché mi mette di fronte a lui ma anche a me stesso. Un perdono che mi dona dignità. Questa è la mia preghiera, se vuoi non ufficiale, ma sentita: non riuscirei a farne senza. Il perdono, d'altronde, lo avverto per me e per gli altri." Dalla per un attimo china la testa verso il basso e, sorridendo quasi a chiedere scusa per lo svelamento dell'intimità, riprende a parlare dei suoi personaggi. Non tardo ad accorgermi che c'è perfetta continuità con ciò che prima ha manifestato con disarmante semplicità.  "I miei personaggi, quindi, sono dei fragili e a volte perdenti. Potrei definirli precari. Non appartengono solo ai poveri o agli emarginati, ma possono anche essere dei ricchi che sono colpiti da vuoto esistenziale, che  vengono come afferrati dalla domanda sul senso della loro vita." Mi collego con una richiesta che potrebbe apparire curiosa e, se non fosse il caso di Lucio Dalla, anche fraintesa come offensiva: "Non ti senti a volte come un istrione, nel senso dei cantori medievali che facevano ridere e piangere le folle?". Mi strappa letteralmente la parola: "Giusto! Istrione! L'istrione, perdonami il termine, è un parafulmine. Fa piangere e ridere." E' felice di questo paragone, non dimenticando che, tra le diverse accezioni del sostantivo  non prevale il significato spregiativo dell'esibizionista o di colui che cerca solo facili effetti, ma, soprattutto nella letteratura e nel cinema, quello antico risalente alla commedia romana, cioè del personaggio che dall'ironia e dall'esuberanza mimetica sa trarre indicazioni per la vita, spesso smitizzando ogni autocelebrazione mitizzante.  "Ma lo sai - continua - che far piangere e ridere è fare appello all'anima?" Rimango stupito del volo d'ala trascendente e sorrido di gusto mentre Dalla personalizza dicendo che "Credo sia questa la vocazione che Dio mi ha donato: piangere e ridere non è un fatto decorativo, esterno. Non mi ha detto di essere un telegiornale dell'esistenza. Pensa ai telegiornali: appiattiscono le informazioni una accanto all'altra, da quelle gravi alle futili. Tutto è compresso. Non c'è tempo per ridere o piangere, perché tutto, ripeto, è compresso e reciprocamente smorzato. Dove attingiamo il riso e il pianto se non dalla coscienza? L'importante e che  riso e pianto ci trasformino, ci rendano più umani, più veri." Mi inserisco chiedendogli il rapporto con le storie delle sue canzoni. "Le storie che scrivo e canto sono riso e pianto della vita. Ti racconto un episodio recente: presento il mio 'Bella lavita' in un'importante libreria del centro storico. La gente è attenta e, alla fine, li ho ringraziati perché non erano intelligenti. Gusta, don Franco, il paradosso: non erano intelligenti, nel senso intellettualoide del termine, perché erano come me, cioè gente normale che mi ascoltava, si rallegrava o commuoveva a seconda dei casi. Credimi, è un compito. Dio mi ha fatto grande uno e sessanta, mi ha dato questo temperamento, questa voce, mi ha suggerito di scrivere queste cose e, estremizzando ma non troppo, mi ha voluto come radio trasmittente." Capisco quello che Dalla mi vuol dire: non pretende d'essere un teologo quando parla di radio trasmittente, cioè strumento inerte. E' ben consapevole d'esser libero e creativo; ma libertà e creatività li avverte come doni o talenti che deve mettere in gioco, non nasconderli o sotterrarli. "Questa sollecitazione credo di averla da sempre. Ad esempio, io non mi annoio, anzi credo di non essermi mai annoiato. Non credo ai momenti totalmente vuoti: ho sempre qualche cosa da pensare o da dire. Anche la familiarità con la quale la gente mi ferma per strada o mi chiede l'autografo mi aiuta a stabilire rapporti non vani. Allora mi piace giocare al gioco serio delle domande e mi piace instaurare veloci dialoghi. E' sempre vita e non noia del patire gli altri. Mi capita anche, sia nei momenti di queste relazioni che in quelli del silenzio, che potrebbero coincidere con la noia, che  divento invece più ricettivo: mi entrano, cioè, delle cose che sono quasi tangibili." Lucio ha vivo il senso della persona e mentre si accalora per narrare il tessuto dei rapporti, mi accorgo che per lui ogni incontro non è mai un caso. Infatti continua dicendo che "Per il Signore non ci sono estranei: ogni essere ha una consistenza e non c'è nessun poveraccio a cui Dio non pensi". Gli ricordo l'affermazione del Matto a Gelsomina ne "La strada" di Fellini, che rende consapevole che pure lei, con quella testa di carciofo, è un vero e proprio mondo; come quel sassolino, apparentemente inutile, ma che se non ci fosse non avrebbe senso l'universo. Ora sposto leggermente il dialogo: "Ti pesa, Lucio, il successo?" "No, mi son sempre saputo difendere. So crearmi un ritmo e delle pause di silenzio. Qualcuno pensa che il successo crei solitudini. Può essere vero, ma io non lo sento in questo modo. Mi basta scendere giù in strada e non sono più solo. Poi dedico molto tempo alla elaborazione della mie canzoni. E anche qui, malgrado possa venire a me un'idea o un'intuzione, subito mi confronto con i miei collaboratori, anzi amo molto l'esperienza comunitaria." "Hanno affermato che tu hai quello che viene chiamato l'orecchio assoluto, quindi sentirai più acutamente le stonature, le disfunzioni le disarmonie…" Quasi continua la mia osservazione: "Mi fanno piacere, anzi, mi rendono allegro, perché rientrano in quella ricchezza delle differenze nella quale anche una stonatura viene riscattata dal ritmo". Divento, invero, insistente: "Ma, durante un concerto, se senti una sbavatura ti alteri o riesci - dico parole grosse - a vivere la carità?" "Ti assicuro che non mi sono mai acceso oltre misura. Ma questo rientra in quello che ti dicevo all'inizio della nostra conversazione: lo stupore. Sempre mi stupisco della novità, delle sorprese. Non c'è niente di fisso e penso che Dio stesso non è un monolite, ma è l'unità perfetta e la perfetta diversità. Come il perdono: è la realtà più creativa che ci sia. Il perdono stupisce sempre perché è una novità assoluta."
Ed è anche per me una novità assoluta questa amicizia con Lucio Dalla, cantore dello stupore e del silenzio dei piccoli.


30/1-10-2002             
                    Franco Patruno

domenica 22 febbraio 2015

Il Bel Paese

Il Bel Paese
L’Italia dal Risorgimento alla Grande Guerra
Dai Macchiaioli ai Futuristi


Fra il 1848, l’anno delle rivoluzioni europee e della prima sfortunata guerra d’indipendenza e il 1870, data della conquista di Roma, si compie, attraverso tre guerre e l’avventurosa <<impresa dei Mille>>, l’aspirazione dei patrioti italiani all’unità nazionale e il disegno dei Savoia della conquista del regno d’Italia.
Gli eventi risorgimentali, dalle prime insurrezioni popolari alle campagne belliche, l’esaltazione patriottica, le repressioni, le condanne, gli esili, la vittoria finale, hanno profondamente inciso sugli artisti italiani, molti dei quali, romanticamente, hanno preso parte attiva a questi fatti, qualcuno restando ferito o mutilato, qualcuno morendo in seguito ai combattimenti, tutti comunque sentendo l’importanza del momento storico vissuto.

Tuttavia, malgrado la sincerità dei sentimenti, raramente la pittura italiana di questo momento raggiunse livelli elevati e, in confronto all’importanza di quella francese, appare più modesta, sia come qualità, sia come risonanza europea e peso storico.
D’altra parte, mentre in Francia Parigi è il centro verso il quale vengono attratti artisti di ogni regione, che lì si incontrano, si scambiano idee, si maturano l’uno a contatto con l’altro (anche se successivamente disperdendosi), l’Italia, divisa in tanti ambienti politici (le capitali degli antichi stati)  e culturali, stenta a trovare un linguaggio pittorico che vada al di là dei limiti angusti della provincia: solo Firenze, per alcuni anni, sembra trovare il suo tradizionale ruolo di protagonista dell’arte italiana, senza tuttavia riuscire a diventare centro propulsore per il futuro.

Ciò nondimeno esistono, anche in Italia, pittori di notevole valore e movimenti rinnovatori, che si possono riassumere schematicamente, come in Francia, in due correnti principali: l’una intimista, l’altra realista, entrambe in opposizione alla retorica teatrale del quadro storico medievale.

Quando si dice realismo, tuttavia, non si deve intendere la polemica sociale di un Courbet o di un Daumiier (anche se essa affiora spesso in qualcuno dei maggiori pittori, come Fattori e Signorini), quanto, piuttosto, l’accostamento alla natura oppure agli umili e alle loro povere cose, o, comunque, alla vita quotidiana.

Il Museo d’Arte della Città di Ravenna presenta fino al 14 giugno 2015, la mostra
Il Bel Paese. L’Italia dal Risorgimento alla Grande Guerra, dai Macchiaioli ai Futuristi, a cura di Claudio Spadoni (catalogo SAGEP), come recita il titolo dell’esposizione, intende restituire, infatti, attraverso diverse sezioni tematiche, la rappresentazione del ‘paesaggio’ italiano inteso in tutti i suoi aspetti, offrendo anche un palinsesto della società e della cultura dalle premesse dell’Unità alla partecipazione al primo conflitto mondiale, di cui cade il centenario quest’anno.
Il tessuto straordinario della realtà geografica e storica italiana, fatto di intrecci e sedimentazioni di testimonianze culturali, rimane sostanzialmente inalterato fino all’industrializzazione e a i suoi nuovi processi produttivi.

La mostra offre dunque una sequenza di documenti pittorici delle straordinarie bellezze paesaggistiche italiane, e insieme spaccati di vita quotidiana come specchio di diverse condizioni sociali, in tempo di grandi trasformazioni – politiche, economiche, culturali – rappresentate dai maggiori artisti italiani,  ma anche nella prospettiva eccentrica degli artisti stranieri calati nel nostro Paese per ammirare e dipingere le bellezze. Una storia, anche, di interpretazioni diverse, in taluni casi a carattere ancora marcatamente regionalistico, in altri, di trasformazioni linguistiche di respiro europeo per un arco di tempo che va dalla pittura Macchiaiola all’insorgere
dell’avanguardia futurista.

La mostra apre con un’ampia sezione introduttiva con la presenza di alcuni dei più noti dipinti di Induno, Fattori, Lega, Guaccimanni, dedicati all’epopea risorgimentale.
Si succedono poi diversi altri capitoli di questo viaggio nel tempo lungo la nostra penisola, ma anche in sequenza di modelli espressivi, con dipinti dei maggiori artisti del tempo, come Caffi, Fontanesi, Induno, Lega, Bianchi, Palazzi, Previati, Segantini, Costa,: vette alpine, vedute lacustri, i più ammirati paesaggi marini, e scorci tra i più pittoreschi della città mete celebri del Grand Tour, come Venezia, Firenze, Roma, Napoli, nelle diverse declinazioni degli interpreti di punta del secondo Ottocento italiano, nonché di diversi artisti stranieri.

Il Bel Paese è poi raccontato, oltre che per l’intrinseco fascino degli scorci naturali, nella straordinaria, inconfondibile compenetrazione di natura e sedimento culturale, memorie storiche, anche attraverso immagini suggestive di tradizioni e costumi, grazie ad opere di figure come Signorini, Lega, Michetti, Morbelli, con rappresentazioni della vita quotidiana di una società ancora rurale ma che lentamente si avvia ad una modernizzazione, con artisti quali Fattori, Cammarano, Cannicci, Boccioni, per citare solo pochi nomi.

A dar lustro ai molteplici aspetti del nostro Paese non manca la caratterizzazione di personaggi di diversa condizione sociale offerta da Lega, Cremona, Boldini, De Nittis. Quasi un album di famiglia di oltre un secolo fa, a memoria di ‘come eravamo’. In questo anche la ricca sezione dedicata alla fotografia, praticamente agli esordi alla sua Progressiva affermazione, ha una parte molto importante, con alcuni dei suoi storici pionieri.

La parte conclusiva con opere realizzate tra il primo e il secondo decennio del ’900, che documentano le premesse divisioniste chiaramente innestate in un clima europeo, e l’avvento del Futurismo, l’avanguardia guidata da Filippo Tommaso Marinetti, con artisti quali Balla, Carrà, Boccioni, Russolo decisi a spazzare via ogni residuo della cultura e della sensibilità ottocentesche, prima della Grande Guerra, vero spartiacque tra i due secoli, segni profondamente anche la continuità e le avveniristiche utopie del movimento.


Maria Paola Forlani

venerdì 20 febbraio 2015

Lettera a don Franco Patruno

Gentilissima Paola,Siamo Massimo Dalla Torre e Clara Coppini, amici di Don Franco, dispiaciuti di quanto visto ieri a Casa Cini. Ti indirizziamo questa nostra lettera rivolta a Don Patruno, perchè pensiamo che tu sia la persona più vicina a lui.
Un abbraccio affettuosoMassimo e Clara

Carissimo Don Patruno,

scriviamo direttamente a te che sei nei cieli, sperando che nessuno ti abbia avvertito che ieri, sabato 21 febbraio, veniva inaugurata "Casa Cini" e, conseguentemente, non ti sia venuta la curiosità di volgere gli occhi verso quella che è stata la Tua Casa Cini per non soffrire quanto, e molto di più, di quello che abbiamo sofferto noi, testimoni inconsapevoli dello scempio attuato lì, in quel luogo straordinario da te "creato".
Si, inconsapevoli, perché dopo due anni che sei andato lassù, anche se sei rimasto vivo nei nostri cuori, volevamo tornare dentro Casa Cini per sentirti più vicino, presente, muovendosi in quegli ambienti e respirandone le atmosfere di allora. Ricordiamo la tua porta sempre aperta, la tua immediata accoglienza, la tua disponibilità e curiosità verso tutti, ma proprio tutti, non solo verso uomini di cultura, artisti, o altri personaggi importanti. E quelle stanze, magari con qualche segno del tempo - un pavimento in legno che scricchiola, qualche finestra con lo spiffero, le pareti da ritinteggiare - piene di oggetti, libri, quadri; di amici; di vita.
Ieri siamo entrati nell'edificio da un portone laterale all'ingresso principale, subito fermati ed invitati ad aspettare il nostro turno per una breve visita agli ambienti restaurati. Sul banco della reception notiamo un cartoncino piegato con scritto che le offerte per Casa Cini devono essere di 5,00 euro minimo.
Poi arriva un signore alto e di una certa età che solo oggi, dal giornale domenicale, apprendiamo essere tal Bruno Dell'Anna. Assieme ad altre tre persone (il gruppo non può essere maggiore di cinque per via della capienza dell'ascensore) in tutta fretta - ci sono altri che aspettano il turno successivo - ci conduce per gli ambienti rinnovati. Ogni tanto ricorda il tuo nome, additando per esempio la targa in tuo ricordo e qualche tuo disegno posti in un ambiente del piano terreno, ora aula attrezzata  per videoconferenze. Oppure quando ci porta nel tuo appartamento, nella tua camera da letto, precisando che sarà posto in locazione, assieme ad altri spazi di quel piano, perché il restauro è costato molto, anche per via delle "belle arti" che hanno preteso di mantenere alcuni caratteri dell'edificio, e perché la struttura costa. Seguendo i discorsi prettamente utilitaristici ed economici di quel tipo fastidiosissimo ed i suoi passi veloci, perdiamo l'orientamento, non riconosciamo più dove siamo. Magicamente ci ritroviamo nell'aula magna, quella in cui tu ci hai accolto con i nostri piccoli e semplici disegni del Cammino di Santiago. Prima, da qualche parte, ancora un pannello con i tuoi disegni ed il tuo nome di nuovo pronunciato dal quel tipo, ma si capisce benissimo che ti usa solo per fare apparire quegli ambienti senza più anima in continuità con il passato (forse non ti ha neppure mai conosciuto e comunque di te non gliene frega un cazzo). Ci viene indicato lo scalone per uscire, la visita è terminata.
Ora che ci siamo orientati, guardiamo da lontano la porta del tuo studio, chiusa. Con l'animo gonfio chiediamo che ne è stato di quel luogo straordinario, di tutte le cose contenute, dei libri della biblioteca, ricevendo risposte evasive. Una signora bionda del gruppo di visita si gira verso di noi dicendo "che tristezza".
Scendiamo la scala ed ecco allestito nell'atrio il buffet. No, non c'è niente da festeggiare, non vogliamo toccare niente, non vogliamo avere niente a che fare con questa gente. Appoggiati al muro, ci guardiamo attorno. Nessuno dei tuoi amici è presente, meno male; loro forse sapevano di come è stata trasformata la Tua Casa Cini e per rispetto e affetto verso di te si sono tenuti lontano da questa farsa; ci sentiamo a disagio, quello che vediamo ci ricorda alcuni quadri di Otto Dix, ed il suo modo grottesco di rappresentare un mondo popolato da individui cinici.
Ci dispiace Don Franco, perdonaci per la nostra impotenza ed incapacità ad opporre resistenza a questa gente e perdonali per la loro abissale, ma pericolosa, arroganza ed ignoranza.

Un abbraccio, tuoi  Clara e Massimo.






giovedì 19 febbraio 2015

Medardo Rosso

Medardo Rosso.
La luce e la materia


La Galleria d’arte Moderna di Milano, in collaborazione con il Museo Rosso di Barzio, dedica a Medardo Rosso (1858-1928) una mostra monografica costituita da una selezione significativa della sua produzione scultorea e fotografica, a cura di Paola Zatti, dal titolo Medardo Rosso. La luce e la materia.

Quando, agli inizi degli anni ottanta, il torinese Medardo Rosso plasma a Milano le sue prime sculture, abbastanza chiaramente s’avverte che il giovanissimo artista ha già ripudiato per istinto, prima ancora che per convinzione critica maturata attraverso approfondimenti culturali, il titanismo che continuava a suggestionare i facitori di monumenti. Quelle sculture denotano invece un legame col naturalismo lombardo, in particolare col Grandi, e riecheggiano persino, alla lontana, delle prime esperienze del Gemito. Il Rosso non soggiace supino ai modelli e insegue una propria idea della scultura che rifiuta ogni schema aprioristico per lasciare libero corso all’ispirazione.
La materia, per Rosso, se governata intimamente dal sentimento che l’opera ha promosso e definisce, deve ignorare se stessa ed essere ignorata, costituirsi cioè esclusivamente quale strumento. Su questa via, prima di partire per Parigi, aveva portato avanti le proprie esperienze, sia con Impressione d’autubus che con

La portinaia che sono le più sicure premesse al corso successivo del suo linguaggio, il quale matura a Parigi con sconcertante rapidità, non tanto per supposte desunzioni
dall’Impressionismo quanto perché confortato dal clima stesso di quella cultura, certamente più aperto e lievitante di quello milanese. Fatto è che, da quel momento,
Rosso continuerà ad agire sul filo di una coerenza ad un tempo linguistica e morale, mantenendo fermo quale obiettivo una scultura dalle forme aperte, determinate dalla luce e dall’intensità del sentimento che si tramuta in espressione. Per lo scultore, superato il momento della “macchietta”, del tipo, del ritratto, egli elimina ogni
convenzione formale di scuola, trova nella cera la materia adatta a modellare senza peso, e crea la scultura dei propri sogni, la scultura dell’attimo luminoso che si fissa nell’immagine concreta di un volto. Ma sarebbe vano ridurre quel volto alle proporzioni di un modello qualsiasi, perché non si tratta di un “frammento”, e tanto meno di un ‘documento’, essendo ben evidente il distacco dalla verità psicologica.
Con Rosso, dunque, la scultura si interiorizza sino a disgelare una verità segreta.
È un passo decisivo verso una moderna concezione dell’arte. L’opera di Rosso,
infatti, chiude definitivamente il tempo della statuaria, a uso dei sentimentalismi civili, e inaugura il tempo in cui l’opera d’arte è intesa come prodotto dello spirito.
Se altri, in Italia, avevano sostenuto tutto questo pur fra tante contraddizioni, soltanto Rosso seppe rendere legittimo quel prodotto al più alto livello di linguaggio.

Non per nulla di lui si deve parlare come di un autentico novatore. Come tale egli sfidò la diffidenza di un ambiente decrepito e l’aperta ostilità dei suoi critici, e dovette sopportare anche non poche umiliazioni, come ad esempio il rifiuto delle sue sculture all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Ma come tale egli si impose però alla cultura e alla sensibilità moderne: i futuristi, per primi, ne confermarono l’importanza. L’esposizione Medardo Rosso. La luce e la materia, ha un percorso tematico che prende avvio con quattro delle più significative opere degli esordi di Rosso, tutte realizzate a Milano e presentate in diverse versioni: il Birichino,

prima opera comparsa nelle sale di Brera nel 1882, il Sagrestano, soggetto comico e quasi spietato del 1883, la Ruffiana, dello stesso anno, rappresentazione caricaturale, nel solco della tradizione verista e Portinaria, 1890-1905, del Museo di belle Arti di Budapest.

La seconda sezione vuole restituire, in molti casi attraverso differenti versioni messe a confronto, due temi fondamentali, la sperimentazione materia (l’utilizzo personalissimo e inconfrontabile di gesso, bronzo e cera) e il processo creativo dell’artista che procede per sottrazione fino al raggiungimento di esiti di sorprendente modernità. Due aspetti illustrati attraverso le straordinarie e inquietanti Rieuse, Henry Rouart, venerato
collezionista e ospite di Rosso nel primo periodo di permanenza a Parigi, presentato nelle tre versioni in cera, gesso e bronzo; due soggetti del 1894, L’uomo che legge e
Bookmaker, quest’ultimo del periodo di più stretta vicinanza con Degas; la Bambina ridente, opera in cui traspare un legame forte con la tradizione rinascimentale, Aetas Aurea e Bambino ebreo.

La straordinaria Madame X, accostabile, per concezione rivoluzionaria e distanza siderale dalla scultura tradizionale, alle opere di Costantino Brancusi. Solo che il rumeno credeva che il gesto del vero scultore fosse quello di raggiungere l’assoluta purezza della forma universale tagliando, scolpendo materie dure, ostili. Rosso era un modellatore, e con quale delicatezza offuscò ogni dettaglio di quel volto come
spolpandolo, cancellandone i particolari, creando una perfetta forma ovoidale, temporanea condensazione dell’aria, transitoria solidificazione di un sentimento, forse di un ricordo, visibile ora, per un attimo, a un passo dal nulla. Al centro della terza sezione della mostra con Madame X in perfetto dialogo appare, con due versioni a confronto in bronzo e cera, l’Enfant Malate, documento della fase sperimentale più coraggiosa di Rosso.

Il percorso dedicato alle sculture di Rosso si conclude nella sala finale della mostra con due soggetti Ecce puer  (tra gli ultimi concepiti da Rosso, risalente al 1906),
Madame Noblet, soggetto declinato in quattro sole varianti in un lungo arco di tempo (dal 1897 agli anni Venti), e di cui la GAM possiede la versione in bronzo.

Una sezione di opere fotografiche (stampe a contatto da lastre originali e stampe originali) documentano un aspetto fondamentale della vicenda artistica di Rosso. Come avviene per alcuni grandi pittori e scultori tra Otto e Novecento, esporre le fotografie realizzate da Rosso accanto alle sue opere scultoree non ha solo un valore
documentario. A partire soprattutto dalla fine dell’Ottocento, la fotografia assume per Rosso il senso di una ricerca autonoma e compiuta, parte integrante e insostituibile di un incessante lavoro di ripresa di poche, essenziali immagini, che ha, non a caso,
un equivalente in quella continua rielaborazione delle sculture da lui ideate entro i primi anni del Novecento, che caratterizza gli ultimi decenni della sua carriera.

La fotografia, della quale Rosso aveva una notevole conoscenza tecnica, era per l’artista occasione di un lavoro sulla materia e sulla luce, ormai svincolata dal confronto col vero: Rosso fotografa le sue sculture e i suoi disegni, per intervenire poi con viraggi, ingrandimenti, foto di foto, scontornature, collage, tracce di materia pittorica, tagli e abrasioni, fino ad accettare l’intervento del caso e dell’errore. Esposte nelle sue mostre accanto alle sculture e pubblicate, spesso sotto il controllo dell’autore, in libri e riviste, le fotografie così ottenute devono essere considerate a tutti gli effetti vere e proprie opere di Rosso, e consegnano alla storia un artista che ha saputo vedere al di là del suo tempo.



Maria Paola Forlani

mercoledì 18 febbraio 2015

Da Cimabue a Morandi

Da Cimabue a Morandi
Felsina Pittrice


Genus Bononiae. Musei nella Città, ha ideato una grande mostra per valorizzare i tesori, troppo spesso poco conosciuti, della città e del suo territorio, a Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni, fino al 17 maggio 2015.
A ottanta anni dalla celebre prolusione di Roberto Longhi sulla grande tradizione artistica di Bologna, fino ad allora subordinata dalla critica a Firenze e a Venezia, la mostra Da Cimabue a Morandi. Felsina pittrice”, curata da Vittorio Sgarbi, intende riproporre i principi e il metodo dell’illustre studioso e ripercorrere, attraverso il filo conduttore delle opere e degli artisti bolognesi, la storia dell’arte e della pittura italiana tra fine del Duecento e l’inizio del Novecento.

La mostra si svolge nelle sale dove i tre giovani cugini Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, nel 1584, ricevettero dal conte Filippo Fava l’incarico di realizzare la decorazione ad affresco della sala principale del nuovo palazzo di famiglia.

Nella magistrale lezione del 1934, Longhi approfondì il nodo fondamentale della loro riforma naturalistica, rifondando di fatto, con le sue argomentate riflessioni, anche gli studi sull’altra metà del Seicento pittorico italiano, quello non caravaggesco.
Qui, insomma, io avverto che è il segreto dei Carracci: in questa epoca, in questo romanzo storico, immaginato sulla grande pittura precedente, la quale viene riassunta non già come obbligazione metodica, ma come costume insostituibile, quasi come soggetto di grado più profondo per la propria pittura nuova e diversa; di affettuoso timbro lombardo. Ecco l’errore di voler sceverare e spuntare, ecletticamente, i frammenti di Tiziano, di Raffaello, di Correggio, di Michelangelo e dell’antico nelle opere dei Carracci; mentre è l’antica, ormai olimpica, cultura pittorica italiana, che, fusa e impastata come costume civile, latino ed italico,
transita, rivive, si atteggia nella tenera illusiva moderna epidemide dei Carracci”.
La mostra è dunque dedicata all’illustre studioso, come il suo stesso titolo evidenzia,
citando quell’antologia in cui Gianfranco Contini scelse e ordinò alcuni saggi che Roberto Longhi aveva dedicato alla pittura italiana, da Cimabue a Giorgio Morandi. Il titolo rende omaggio al contempo a Carlo Cesare Malvasia e alla sua Felsina pittrice, la fonte più autorevole per la storia della pittura bolognese dal medioevo
all’età barocca, uscita nel 1678.

Nelle sale affrescate dai Carracci e dalla loro scuola è possibile seguire lo svolgimento della storia dell’arte a Bologna attraverso una ricca selezione di oltre centosessanta opere, tra dipinti e sculture, provenienti da chiese, musei comunali, istituzioni e importanti collezioni private. Per la prima volta vengono esposti insieme capolavori quali la Madonna in trono con il Bambino e i due angeli di Cimabue, conservata nella chiesa di Santa Maria dei Servi, la celebre Estasi di santa Cecilia,

dipinta da Raffaello per la cappella funeraria di Elena Buglioli Dall’Olio nella chiesa di San Giovanni dal Monte (oggi nella Pinacoteca Nazionale), e la tavola di San Rocco e il donatore del Parmigianino, custodita nella basilica di San Petronio.
Nel percorso iniziale la grande tavola dipinta da Cenni di Pepe detto Cimabue, raffigura il gruppo della Madonna col Bambino seduti su un trono ligneo con schienale a lira d’ispirazione bizantina, dotato di suppedaneo, e due angeli ai lati dietro lo schienale. La Vergine è rappresentata di tre quarti, come nel tipo bizantino dell’Odigitria. In maniera altrettanto tradizionale il Bambino ha in mano un rotolo spiegato e la Vergine tiene con la destra il piede del Figlio. Appare invece come un motivo senza precedenti nella pittura italiana il Bambino in piedi sul ginocchio della Madre che fa un passo aggrappandosi con la mano destra alla spalla di lei.

Sempre nel percorso iniziale segue l’affresco staccato di Vitale di Aimo degli Equi detto Vitale da Bologna che rappresenta la Madonna del ricamo (1330-1340), l’opera presenta un’iconografia, rara in Occidente, quella della Madonna operosa.

 La Vergine è raffigurata seduta su un cuscino rosso d’ispirazione imperiale bizantina, mentre sta ricamando una veste, su cui è seduto il Bambino, che sembra richiamare l’attenzione della madre rivolgendole lo sguardo e posandole la mano destra sulla spalla, per indicarle con la mano sinistra un devoto, che doveva essere dipinto nella parte inferiore dell’immagine, purtroppo perduta.
Assai curiosa per l’intreccio compositivo, la tavola ad olio, che rappresenta Matrimonio mistico di santa Caterina con i santi Giuseppe, Elisabetta e Giovannino (1540) di Amico Aspertini.

“Capriccioso e pazzo cervello”, “fuor di squadra” (Vasari), “umor bisbetico”, “stravagante”, “bizzarro” (Malvasia). Nelle definizioni dei più celebri scrittori d’arte, la posizione di Aspertini nel panorama bolognese tra Quattro e Cinquecento si delinea in modo chiaro. A lui spetta il ruolo di antagonista polemico, di oppositore ostinato e isolato al proto-classicismo predicato da Francesco Francia, che aveva fatto presa nell’ambito cittadino. Nell’oratorio di Santa Cecilia (1506) Francia, Lorenzo Costa e gli altri anonimi pittori tendono a convergere su una posizione comune, della quale Amico si discosta nettamente esibendo i suoi riferimenti culturali: le grottesche, l’archeologia, le incisioni di Albrecht Dűrer. La tavola esposta in mostra riassume perfettamente quanto detto finora, a cominciare dall’insofferenza per la classicità.
I volti dei personaggi, tipici dell’artista, sono animati da un fremito di vitalità che Aspertini non soffocherà mai sotto la coltre di una grazia ideale. Il parapetto senza prospettiva, il turbinio delle mani intorno all’anello, lo sfondo disseminato di edifici dalle proporzioni variabili: tutto cospira contro l’equilibrio del Rinascimento maturo.
Il percorso conclusivo della mostra con Giorgio Morandi, inizia con una sconosciuta
“Nevicata” nella quale si agitano pensieri e turbamenti e una vita spirituale che accompagnerà ogni suo gesto pittorico, alla ricerca di un’anima nascosta delle cose.
Densa e cupa appare la Natura morta del 1920, archetipo di “Valori Plastici”; rembrandtiana, per drammaticità dello stesso anno è la Natura morta che segue; per poi schiarirsi in forma cristallina e pierfrancescana nella grande Natura Morta del 1924 e di nuovo scomporsi nelle nature morte, desolate e polverose, degli anni Quranta e Cinquanta, fino al limite dell’astrazione. L’aveva capito, con sorprendente anticipo, esemplare modello di critica militante, nei confronti di un pittore a lui assolutamente contemporaneo, Roberto Longhi “ e finisco col non trovare del tutto casuale che, ancora oggi, uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi, pur navigando tra le secche più perigliose della pittura moderna, abbia, però, saputo sempre orientare il suo viaggio con una leggerezza meditata, con un’affettuosa studiosità, da parer quelle di un nuovo “incamminato”.


Maria Paola Forlani