lunedì 28 dicembre 2015

Alfonso Mucha

<<ALFONSO MUCHA


                    e

LE ATMOSFERE ART NOUVEAU>>

La mostra <<Alfonso Mucha e le atmosfere Art Nouveau>> a Milano consente di tuffarsi nel mondo prezioso ed elegante del Liberty, lo stile che a cavallo tra Otto e Novecento caratterizzò il mondo dell’arte, dell’architettura, dell’artigianato e dell’arredo dell’intero contesto europeo.

La modernità irrompe attraverso l’affiche! Una giovane donna dagli occhi di smeraldo, i capelli morbidi ornati da un serpente, quasi una Cleopatra contemporanea, e una bestia selvaggia, un felino dalle fauci spalancate che, pur ammansita dalla bella, ne esplicita il fascino esotico e deduttivo, amplificato dal tondo a mosaico sul fondo. Antico e moderno, bellezza femminile e ferinità esotica, innocenza e peccato, sono i contrapposti che convivono armonicamente nell’invenzione grafica del praghese Alphonse Mucha (1860-1939), operoso nella Parigi fin de siécle e inventore sia dell’immagine aulica e irraggiungibile della diva Sarah Bernardt, sia di un nuovo ideale femminile che diventa tutt’uno con il concetto di modernità. Mucha è l’alfiere di quel ventennio a cavallo tra Ottocento e Novecento, comunemente definito Belle-Epoque, ma che, più correttamente, andrebbe identificato con le atmosfere Art Nouveau,
 di cui il mitico negozio del gioielliere

Georges Fouque, in Rue Royal a Parigi (ora Musée Carnavalet), realizzato su progetto di Mucha nel 1901, è forse uno degli esempi più affascinanti di fusione tra architettura d’interni e arti decorative moderne.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il diffondersi dello stile modernista, i movimenti secessionisti e la ricerca spasmodica di una nuova grammatica stilistica legata al concetto di opera d’arte totale (Gesamtkunstwert), e in parallelo al crescere
esponenziale di una committenza alto e medio borghese dalla chiara consapevolezza del proprio gusto e del proprio status sociale, spalancano le porte ad una ventata violenta e risolutiva di forme, di temi e di linguaggi che rispondendo alle aspettative della contemporaneità, ribaltano completamente valori formali ed estetici.


Veicoli fondamentali di diffusione di questo inedito sistema delle arti sono le riviste d’arte e di letteratura, nuove sia nei contenuti, sia nella grafica, come Le Japon artistique, pubblicato a Parigi, dal 1888, Pan a Berlino, dal 1895, Jugend a Monaco, dal 1896, Ver Sacrum a Vienna, dal 1898, Novissima a Milano, dal 1901 e L’arte decorativa moderna a Torino, dal 1902. Il valore positivo attribuito all’ornamento di ispirazione naturalistica, biomofica, ma anche esotica e aritmicamente lineare e avvolgente, sia in architettura sia nelle espressioni figurative, sia nelle arti decorative, è legittimato dalla convenzione che l’arte contemporanea debba essere caratterizzata da forme libere, capaci di suggerire intensità ed empatia di tipo ritmico-musicale ed evocare atmosfere avvolgenti, fascinose, gioiose, in fondo ottimistiche e positive.

Alphonse Mucha, e con lui tutto il suo mondo, crede fermamente nelle magnifiche sorti e progressive dell’età contemporanea, nella forza dirompente della giovinezza (lo Jugenstil, appunto), nell’ammaliante fascino di un’arte nuova (l’Art Nouveau), nel superamento della nostalgia, e dell’imitazione, del passato in favore di un mondo fluido, ritmico, organico, capace di metamorfizzare la banalità del quotidiano nell’eccezionalità di una bellezza diffusa nella quale l’ornamentazione scaturisce dalla consapevolezza che il mondo moderno, la vita urbana, la società industrializzata, l’utopia dell’arte per tutti, abbiano bisogno di attingere idee e forme dall’indistinto della natura e dal vitalismo biologico, di cui l’eterno femminino è parte fondamentale.


Ora, in Palazzo Reale a Milano (fino al 20 marzo 2016), e di seguito in Palazzo Ducale a Genova (aprile-settembre 2016), a fianco e intorno alle invenzioni grafico-pittoriche di Mucha, arredi, dalle sedie ad interi salottini, maioliche policrome e porcellane, vetri incisi e dipinti, sculture in pasta di vetro, bronzo, gesso, accompagnano con ritmo incalzante il visitatore in un itinerario fatto appunto di atmosfere, di sottili evocazioni, di rimandi continui ai temi prediletti di questo nuovo sistema decorativo: dall’universo floreale all’immagine femminile nelle sue diverse declinazioni, dalla fanciulla in fiore alla femme fatale, dal mondo animale, con pesci, insetti, animali notturni e pavoni, all’Oriente, un mondo remoto nel tempo e nello spazio in grado di suggerire mistero e ambiguità, alle pietre preziose, i cui rutilanti colori sembrano inglobati nelle paste vitree di Almeric Walter, nei vetri incisi da Émile Gallé e dai Fréres Daum, della scuola di Nancy.

Tuttavia, se l’Art Nouveau è la declinazione francese (ma anche belga) del modernismo internazionale, il floreale, o meglio il Liberty, ne è declinazione in Italia, con caratteristiche meno coerenti in senso assoluto, spesso spurie, ma con le dovute eccezioni. Come ha più volte ribadito Rossana Boscaglia (1925 – 2013), alla quale è dedicato il Centro di ricerca per le arti decorative moderne, aperto quest’anno presso l’Università degli studi di Verona con la donazione della sua biblioteca, e che ha collaborato in prima persona alla realizzazione della mostra per la sezione delle arti decorative.

Un evento cruciale per il Liberty è l’esposizione di Torino del 1898, poiché esibisce arredi e oggetti sia di gusto eclettico (la maggioranza assoluta), sia di impostazione modernista, obbligando il pubblico e i produttori a confrontarsi sulle linee dello stile e del gusto futuri: sono presenti, e con successo, gli ebanisti milanesi Carlo Bugatti e il suo già autonomo allievo Eugenio Quarti. Gli arredi di Carlo Bugatti, che avevano riscosso consensi nel 1888 a Milano e a Londra per la particolarità dell’ispirazione orientalista, fanno scuola, oltre a Quarti, a Carlo e Pietro Zen e a Ettore Zaccari.
L’approdo di Quarti ad uno stile autonomo ed inconfondibile sarà consacrato a Parigi nel 1900 con l’esibizione di arredi dalle forme compatte e dai legni di base scurissimi, sui quali si stende un ramage elegantissimo di decorazioni floreali.


Accanto ai ben più noti Bugatti, Quarti e Zen, va segnalato Luigi Fontana, specializzato nella produzione di vetrate e mobili artistici che all’esposizione di Torino del 1902, propone una sala floreale con splendide vetrate del decoratore Fausto Codenotti, esposto, ora, a Milano.




La stagione del Liberty si può dire conclusa con l’esposizione a Milano del 1906, ma la crisi in qualche modo è per certi versi nell’aria già nel corso dell’esposizione torinese, d’altra parte il vento impetuoso dell’avanguardia futurista mette in crisi il gracile mondo floreale, che continua stancamente a produrre oggetti, arredi e decorazioni fino al primo conflitto mondiale. Il ritorno della pace, le cambiate esigenze di gusto, la ricerca di una raffinatezza materica e formale, che elude volontariamente il mito dell’arte per tutti, del bello come utile, spingono verso un nuovo sistema espressivo, l’Art Déco, che tuttavia conserva saldamente nel proprio patrimonio genetico la forza inventiva e il desiderio di metamortizzare il quotidiano che è stata chiave di volta del Modernismo e dell’Art Nouveau.




Maria Paola Forlani 

domenica 13 dicembre 2015

Tra la Vita e la Morte

TRA LA VITA E LA MORTE
Due confraternite bolognesi

Tra Medioevo e Età Moderna


L’Istituzione Bologna Musei, il Museo Civico Medievale, in collaborazione con Genus Bononiae, Musei nella città, Museo della Sanità e dell’Assistenza, l’Istituzione Biblioteche del Comune di Bologna, la Soprintendenza per i Beni Storici Artistici del Polo Mussale dell’Emilia – Romagna, la Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, l’AUSL Bologna e con il patrocinio della Curia arcivescovile di Bologna, dedica per la prima volta una mostra al suggestivo tema delle confraternite bolognesi, con un particolare sguardo rivolto a quelle di Santa Maria della Vita e di Santa Maria della Morte, un tempo ubicate una di fronte all’altra. Infatti, se quella della Vita aveva sede all’interno della Chiesa omonima, in via Clavature, quella della Morte si estendeva tra via Marchesina e il portico che ne conserva il nome, correndo lungo via dell’Archiginnasio e costeggiando il lato di San Petronio.

L’esposizione, curata da Massimo Medica e Mark Gregory D’Apuzzo (catalogo Silvana) ospitata all’interno del Lapidario del Museo Civico Medievale, vede esposte oltre cinquanta opere fra documenti storici, dipinti, miniature, sculture, ceramiche ed oreficerie, provenienti da importanti istituzioni cittadine.

La prima parte della mostra indaga come, prima dell’ingresso dei Disciplinati a Bologna, avvenuto nel 1261, non fossero presenti in città confraternite, intese come sodalizi devozionali a larga base popolare. Solo a seguito del loro arrivo, sia a Bologna che nel contado, sorgeranno dunque delle vere e proprie confraternite spirituali con esclusivi scopi religiosi, dall’orazione, alla penitenza, all’esercizio di opere di misericordia verso i bisognosi.

Sarà Raniero Fasani da Perugina, dopo aver fondato nella città umbra il movimento dei Disciplinati o Flagellanti o Battuti, a dare vita a Bologna, insieme ai propri adepti, alla confraternita dei Battuti Bianchi o frati flagellanti, e ad adoperarsi, insieme ai bolognesi Bonaparte Ghisilieri e Suor Dolce, terziaria francescana, affinché nel 1275 circa venisse aperto un ospedale nel centro della città, che potesse dedicarsi all’accoglienza e all’assistenza degli infermi e dei pellegrini, il tutto con il sostegno anche di una confraternita.

Accanto all’ospedale viene costruita anche una piccola chiesa, dedicata a San Vito: secondo le fonti, in seguito alle molteplici guarigioni e alla perizia dei suoi medici, la chiesa cambierà nome, divenendo chiesa della Vita. Di conseguenza oltre alla chiesa, anche l’ospedale e la confraternita assumeranno il nome di Santa Maria della Vita. Come è noto, col passare del tempo attorno a questo primo nucleo sorge il celebre santuario, un rinomato ospedale e una confraternita.
Nel 1801, a distanza di pochi anni dalle soppressioni napoleoniche, l’ospedale della Vita viene accorpato a quello della Morte, creando così un grande complesso denominato Grande Ospedale della Vita e della Morte.
Attraverso le testimonianze artistiche e documentarie presenti in mostra vengono ricostruite anche le vicende legate alla storia dell’altra confraternità,  quella della Morte, la cui opera di misericordia verrà progressivamente percepita dal governo bolognese come un mezzo attraverso cui esercitare una sorta di controllo sociale sulla città. Le finalità della compagnia erano infatti quelle di assistere i carcerati e i condannati a morte, provvedendo anche alla loro sepoltura, oltrechè prendersi cura degli ammalati acuti.

Dopo la fondazione avvenuta nel 1336, sulla scorta della predicazione che il domenicano Venturino da Bergamo aveva lasciato in città nei due anni che aveva trascorso nei conventi di San Domenico (1332-1334), venne costruito, insieme alla chiesa, l’interno dell’ospizio per i poveri infermi; tale ospizio era strutturato in tre bellissimi ordini, in cui il primo era riservato agli uomini, il secondo alle donne, il terzo per “quel che son feriti”. Scrivono le fonti: “quivi tutti gli infermi sono attesi con meravigliosa caritate, sia della anima come del corpo, e da ottimi cittadini governati”.
Dal 1433 in poi, la Compagnia si dedicò anche al trasporto della Beata Vergine di San Luca dal Colle della Guardia in città: da qui, la comparsa in alcune opere del simbolo della Compagnia, affiancato a quello della Madonna di San Luca, documentato in mostra da quattro candelabri in bronzo argentato.

La mostra è l’occasione per ricostruire l’attività delle due confraternite anche attraverso una ricca selezione di documenti figurativi (dipinti, miniature, sculture, ceramiche, oreficerie), con una particolare attenzione alle numerose miniature contenute entro i volumi degli Statuti di entrambe le Compagnie, a partire dal Duecento, fino a tutto il Seicento, fra queste emergono ad esempio, quella realizzata da uno dei protagonisti della miniatura bolognese del Duecento
, il Maestro della Bibbia latina 18, oppure quella presentata per la prima volta, di collezione privata, risalente al 1393, con gli Statuti di Santa Maria della Morte, che rappresenta uno dei documenti più antichi della confraternità. Tra l’altro, anche la produzione miniatoria del Cinquecento è documentata con un illustrazione del 1555, di recente attribuita a Prospero Fontana, uno dei pittori bolognesi che dominano la scena artistica in Età Moderna.
Dello stesso autore è esposta anche l’importante tavola con la “Deposizione”, in origine collocata nella chiesa della Morte, così come il “Transito della Vergine” di Alessandro Tiarini, entrambe custodite nella Pinacoteca Nazionale di Bologna.


La scultura è rappresentata da alcune opere, fra cui le due raffigurazioni allegoriche della “Chimica” e della “Morte”, in legno dorato, provenienti dall’antica farmacia dell’Ospedale della Morte.
Sempre dell’arredo della farmacia sono esposti alcuni vasi in ceramica con dipinte le insegne delle due confraternite: essi sono parte della ricca e consistente collezione di 159 pezzi, che compongono una delle raccolte più rilevanti in Italia, sia per numero che per qualità. A questi si aggiungono alcuni significativi oggetti di oreficeria, conservati nel Museo della Sanità e dell’Assistenza, tra cui il raffinato servizio liturgico in argento sbalzato e cesellato, realizzato dal noto argentiere bolognese Filippo Carlo Providoni, e il reliquiario in argento del Beato Raniero.


Ma è il Compianto di Nicolò dell’Arca, le cui statue componevano una sorta di ‘macchina’ visiva stabile posta nella chiesa dei Battuti, quindi concepita e realizzata come opera pubblica della confraternita: suo emblema ed efficace strumento visivo e culturale. Il Pianto sul Cristo morto, è un’autentica <<sacra rappresentazione>> in terracotta, che esprime, in un linguaggio popolaresco ed efficace, il dolore irrefrenabile, il grido incontrollato collettivo di fronte al corpo morto del Redentore.


La straordinaria forza realistica dell’opera non in linea con l’ideale rinascimentale di matrice fiorentino, ma modernissima, soprattutto nell’indagine emotiva e psicologica dei personaggi e delle loro interazioni gestuali, proviene certamente da una umanistica riflessione, da una traduzione di spunti impressionistici dal vero, che Nicolò potè derivare dall’osservazione delle antiche pratiche devozionali funerarie ancora in uso in diverse regioni della penisola.

Così che il pathos e la sconvolgente dimensione spirituale del Compianto furono forse ascrivibili alle ragioni stesse della sua nascita, con quel ruolo di sepolcro ben evidenziato dai documenti: una viva e monumentale sorgente di meditazione, preghiere, moniti e invocazioni, un’opera prima di tutto essenziale alla vita religiosa di una confraternita, alla sua chiesa, al suo ospedale e alla città stessa.



Maria Paola Forlani





venerdì 11 dicembre 2015

IL CAINO E ABELE

IL CAINO e ABELE

Studio di un’opera giovanile
di Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino

Al Castello Estense di Ferrara è presente, nella sua magnificenza, nel percorso tra le opere di Boldini e de Pisis, fino al 13 dicembre 2015, in anteprima assoluta, il dipinto inedito Caino e Abele, recentemente attribuito secondo studi condotti da storici dell’arte, tra cui Andrea Emiliani e Claudio Strinati, al periodo giovanile di Giovan Francesco Barberini, detto Il Guercino.


Giovan Francesco Barbieri, detto Il Guercino, nasce  nel 1591 a Cento da una famiglia modesta ma in un territorio posto al centro del triangolo fertile compreso tra Ferrara, Modena e Bologna.
Allievo di Ludovico Carracci, ma sensibile anche alla pittura ferrarese e, soprattutto, a quella veneta, rivela, fin dalle opere giovanili, un’attenzione peculiare agli impasti cromatici, anzi alla <<macchia>>, e agli effetti luministici, come è visibile, per esempio in opere come Paesaggio al chiaro di luna (Stoccolma, Museo Nazionale) o nel Figliol prodigo di Vienna.


Per l’importanza della luce si sono talvolta tentanti degli accostamenti a Caravaggio; ma le somiglianze sono solo apparenti, perché il luminismo caravaggesco blocca l’immagine dandole evidenza drammatica, quello guercinesco invece è mobile e magico.
Nel 1621, salito al pontificato, con nome di Gregorio XV, Alessandro Ludovisi, bolognese, il Guercino, che già operava da alcuni anni a Bologna, viene chiamato dal nuovo papa a Roma per affrescare il
Casino Ludovisi con L’Aurora, Il Giorno e La Notte. È uno dei complessi pittorici più importanti del Guercino, forse il suo capolavoro in senso assoluto.
Il tema dell’Aurora era già stato dipinto, appena pochi anni prima (1612-1614) da Guido Reni nel Casino Respigliosi Pallavicini,
con luminoso, sereno, ellenizzante equilibrio. Il Guercino lo affronta invece con foga. Il carro di Eos passa velocemente al di sopra di architetture viste audacemente in <<sottinsù>>, scattanti verso l’alto, preparazione coerente allo scorcio e al movimento di tutte le figure, realizzate con accostamenti di colori purissimi che toccano il loro punto culminante nella splendida pezzatura del manto dei cavalli spinti al galoppo. In tutto questo c’è un ricordo veronesiano a dimostrazione dell’importanza che ha avuto la conoscenza della pittura veneziana sul pittore. Ma c’è anche un impeto barocco, un calore, che sono esclusivi del Guercino e che ne costituiscono la dote maggiore. Tuttavia l’ambiente romano, invece che stimolarne la fantasia, gradualmente lo frena con la precettistica classicheggiante, dell’Agucchi e del Domenichino, finendo col togliergli proprio quello slancio e riconducendolo, entro l’alveo della tradizione, verso forme compassate,

L’attività giovanile del Guercino resta dunque la più valida, tale, anzi da farlo considerare fra i maggiori artisti del secolo; il pittore non riuscirà più a trovare un’analoga felicità inventiva, neppure lasciando Roma poco dopo (1623) per tornare dapprima nella piccola città natale, poi, alla morte del Reni (1642), a Bologna, assumendo a sua volta il ruolo di indiscusso maestro della scuola locale.
La sua forza inventiva giovanile è rintracciabile anche nel dipinto
Caino e Abele, che raffigura l’uccisione del secondogenito di Adamo ed Eva per mano del suo stesso fratello.
La forza drammatica del corpo seminudo di Abele, riverso diagonalmente a terra, presentato in primo piano attraverso un’ardita soluzione prospettica e con un punto di vista molto ribassato, contrasta con la figura di Caino, che si dà alla fuga nell’oscurità del fondale.
L’opera, risalente al secondo decennio del 1600, mostra evidenti caratteri stilistici della giovinezza del Guercino, con influenze riconoscibili ai grandi veneti – Giorgione, Tiziano, Tintoretto – ma anche alla svolta naturalistica avviata dai Carracci – Ludovico
in primis – fin dagli anni Ottanta del secolo precedente. In particolare è facile osservare la celebre “macchia” guercinesca – che spezza le forme per studiarne gli effetti di luce in rapporto con i mutamenti atmosferici, e l’inconfondibile maniera di rendere l’anatomia degli arti superiori e inferiori sovradimensionati e rigonfi, le cui masse muscolari risultano scolpite da netti contrasti luministici che accentuano l’effetto drammatico della scena.

Il rapporto più diretto e convincente di Guercino con l’arte dei Carracci e da stabilirsi con un’opera giovanile di Annibale
Cristo morto di Stoccarda. Da sempre considerato un omaggio
all’omonimo capolavoro di Andrea Mantenga oggi alla Pinacoteca di Brera, la tela raffigura il corpo senza vita del Cristo appena deposto dalla croce, fortemente compresso e scorciato così da mostrare in primo piano all’osservatore la pianta dei piedi forati dai chiodi, dai quali si risale rapidamente alle gambe distese ed al torso leggermente curvato verso destra. Superando le durezze formali dell’opera quattrocentesca, Annibale enfatizza, secondo la sua vocazione poetica, il naturalismo umanissimo di questo corpo ferito, trasfigurandolo in
un’immagine dal profondo significato sacrificale.
L’Abele ucciso da Caino sembra appartenere alla fase preromana
del Guercino, quando si colloca un dipinto, dello stesso autore, meno conosciuto dal grande pubblico e tutt’oggi raramente citato dagli esperti, nonostante le sue innegabili qualità pittoriche. Si tratta del Martirio di San Sebastiano custodito nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, il quale mostra il tipico naturalismo vibrante e contrastato degli anni giovanili trascorsi nel segno poetico di Ludovico Carracci, accanto ad un nuovo interesse per lo studio dei corpi maschili in pose dal forte scorcio prospettico.


La straordinaria qualità di Caino e Abele, confermata dalle radiografie recentemente eseguite in occasione della sua riscoperta, fu apprezzata anche fuori dai confini italiani, quando l’opera entrò a far parte, nel corso dell’Ottocento, della collezione di Sir, Thomas Willias Holburne e successivamente dell’Holburne Museum di Bath. Curiosamente all’epoca l’opera fu erroneamente attribuita al caposcuola bolognese Guido Reni, probabilmente proprio per gli evidenti caratteri emiliani, oltre naturalmente che per le grandi qualità pittoriche di questo capolavoro.

Maria Paola Forlani