domenica 28 febbraio 2016

AL PRIMO SGUARDO

Al Primo  Sguardo

Opere inedite dalla collezione
Della Fondazione Cassa di
Risparmio di Padova e Rovigo


Le Collezioni d’arte della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, ricche di più di mille pezzi, vengono per la prima volta svelate al pubblico a Rovigo fino il 5 giugno 2016.

Per ospitare le circa duecento opere che rappresentano il fior fiore della imponente raccolta di pittura e scultura sono state scelte due diverse sedi, tra loro vicinissime: Palazzo Roverella e Palazzo Roncale.
La prima è la sede della Pinacoteca dei Concordi e di tutte le grandi esposizioni
d’arte rodigine; il secondo, Palazzo Roncale, sorge dirimpetto al Roverella ed è un imponente palazzo nobiliare rinascimentale, patrimonio della Fondazione, che ha provveduto al suo completo restauro. Questa mostra offre quindi anche l’occasione per ammirare gli interni restaurati di questa nobile dimora.

La scelta della Fondazione è stata di privilegiare, per questa doppia mostra rodigina affidata alla curatela di Giandomenico Romanelli e di Alessia Vedova, l’ampio corpus di opere riguardanti i due più recenti secoli l’Ottocento e il Novecento. Per motivi storici e di appartenenza non c’è dubbio che l’interesse maggiore si è concentrato sulla presentazione di un nucleo ancora inedito della Collezione della Fondazione Cassa di Risparmio.
Si tratta dei dipinti riuniti nella collezione di Pietro Centanini, che recentemente l’ha voluta donare alla Fondazione affinchè possa mantenersi integra e soprattutto possa essere goduta dalla collettività.

Com’è testimoniato dall’esposizione, Pietro Centanini indirizzava le sue scelte sugli artisti veneti ma anche, in omaggio alla moglie di origine partenopea, alla scuola napoletana. In collezione si trovano infatti opere di grandissimo interesse di Palizzi, De Nittis, Lega, Ghiglia, Boldini, Fattori, Soffici, Rosai, de Pisis, de Chirico, insieme a Zandomenighi, Milesi, Luigi Nono, Licata, Brass, Barbisan ma anche Utrillio e Chagall.

La famiglia invece collezionava i vedutisti e i pittori di interni, compresi alcuni magnifici Guardi.

Se la Collezione Centanini è una novità per tutti, il nucleo maggiore della Fondazione Cariparo stupisce per ricchezza e varietà di contenuto.
In esso sono testimoniati ben 5 secoli di storia dell’arte veneta e italiana.
Si passa più puntualmente a Oreste da Molin, Giuseppe Manzoni e a Mario Cavaglieri, gloria rodigina. Il Futurismo è ben rappresentato da Tulio Crali, mentre il secondo dopoguerra è presente con una sequenza notevolissima di opere, a ricordare l’importanza del gruppo N e dell’optical, con Biasi, Landi, Chiggio, Massironi e infine tre opere di Castellani.

L’omaggio a Mario Cavaglieri (1887-1969) al Roverella presenta un consistente gruppo di opere.

Nel primo decennio del Novecento Cavaglieri si impone nella ritrattistica al femminile, integrata all’interno di scenari di volta in volta mutevoli per ambientazioni e circostanze come in  “La Cucitrice” e “Venditrice di arance”.
“Donne in verde” (1912) colpisce per l’esuberante vitalità cromatica dell’abito della figura femminile.
La soluzione pittorica è paragonabile a certe soluzioni fauve con cui l’artista entra in contatto l’anno precedente durante un viaggio a Parigi, dove guarda e apprezza il linguaggio postimpressionista, i caldi interni di Vuillard e Bonard. Ma di quanto vede si servirà solo per accrescere uno stile personale, distante dagli orientamenti delle avanguardie contemporanee.
In questo periodo Cavaglieri conosce Giulia Catellini de Grossi che diviene sua compagna, musa ispiratrice, soggetto di numerosi disegni e dipinti ad olio, ritratta sia in spazi esterni che in studio (“Giulietta in visita”). La sposerà a Piacenza nel 1921.

Il 1925 è un anno di censura nella vita dell’artista, che decide di spostarsi in Francia. In quello che assomiglia molto ad un esilio volontario, mutano anche il suo repertorio e il registro della sua pittura, dedicata sempre più frequentemente agli spazi aperti, privilegiando il paesaggio campestre e di vita agreste.

In un quotidiano contatto con l’armonia della campagna, Cavaglieri produce una serie di opere nelle quali restituisce una natura nitida e vibrante, colta in ogni ora del giorno e lungo il corso di tutte le stagioni. “Hiver de Gascogne”, “La nevicata”, “Novembre in Guascogna”, “Paesaggio bucolico di Gers”, sono brani di una pittura en plein air  realizzata con tecnica alleggerita e una tavolozza più chiara, che ricorda quella della sua prima fase intimista.

Il Futurismo entra nella Collezione Cariparo con la figura di Tullio Crali (1910-2000) e, di conseguenza, nella mostra al Roverella.

Sebbene Tullio Crali abbia aderito al Futurismo nel 1929, quindi vent’anni dopo la pubblicazione del Manifesto di Marinetti sul quotidiano francese Le Figaro, rimarrà sempre fedele al movimento d’avanguardia, instaurando con il fondatore anche un rapporto di solida amicizia ed ammirazione fin dal loro primo incontro, a Trieste, nel 1931. Un evidente elogio all’autore del Manifesto futurista è “Marinetti che declama”. Altrettanto eloquente è “A pieno regime”, che oltre ad alludere alla funzione propagandistica verso cui si era andata orientando in quegli anni l’Aereopittura futurista, recupera dalla tradizione dello stesso movimento il motivo della simultaneità.
Negli anni Cinquanta la visione creativa di Crali si arricchisce di un’originale sensibilità.

Trasferitosi a Parigi, trascorre più periodi lungo le scogliere delle coste bretoni, dove scopre numerosi graffiti preistorici.
Quando lascia la Francia lo fa con pochi bagagli e una quantità indefinita di silici e graniti. Li userà per dar vita ai suoi universi astratti Sassintesi e Unisassi.

Anche i movimenti del secondo dopoguerra trovano importante eco nella Collezione Carparo e, perciò, nella mostra, con un protagonista di notevole rilievo, Concetto Pozzati.

Partito con una fase informale vicino alle esperienze materico-gestuali di Gorky, assorbito anche l’amore per la grafica pubblicitaria del padre Mario, noto cartellonista e pittore metafisico, e dello zio Severo, cartellonista nella Parigi degli anni Trenta, Concetto Pozzati (1935) indirizza la propria ricerca verso una nuova figurazione elaborando immagini nitide e geometricamente strutturate.
Sono collage di luoghi e oggetti della civiltà contemporanea, legati al nascere immaginario collettivo e derivanti dai mass media. Assemblage in cui si costruisce il rapporto di coesione tra immagine ed oggetto, spesso ripetuto o falsato, tipico dei linguaggi pop degli anni Sessanta.

Come insegna Andy Warhol, maestro della Pop Art, l’oggetto comune va reiterato o moltiplicato. Pozzati, però si limita alla sterile ripetizione modulare. Anzi, estrapola l’anima dell’oggetto ricalcandone e riproducendone la sagoma, e solo successivamente lo ripete sequenzialmente.

La collezione della Fondazione Cassa di Risparmio possiede uno dei più importanti nuclei italiani di opere degli artisti che, nel 1959, si riconoscevano nel Manifesto del
Gruppo N, formatosi a Padova.
In quel documento si legge: “La dicitura enne distingue un gruppo di disegnatori sperimentali uniti dall’esigenza di ricercare collettivamente”.
Creare un’arte impersonale, che al singolo antepone il collettivo, non è il loro unico intento programmatico.

Le teorie perseguite da Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi ( i cinque fondatori rimasti dei nove originali) sono molteplici: l’avvicinamento a norme visuali e percettive influenzate dai fenomeni studiati dalla psicologia della Gestal; l’idea di una ricerca artistica che elimina la distanza tra opera ed il suo spettatore (si tratta di esperimenti percettivi irrealizzabili senza l’intervento attivo del fruitore); la libera producibilità del lavoro stesso; la volontà di creare un’arte impersonale, che al singolo antepone il collettivo.

Nei primi anni Sessanta nascono le opere collettive della serie “Dinamiche visuali”, chiamate “Torsioni”, nelle quali i cinque componenti si servono di materiali nuovi per creare movimenti cinetici e di luce.

Le loro sperimentazioni si esemplificano anche con la fondazione del movimento Arte Programmata di Bruno Munari, Enzo Mari e il Gruppo T, accanto ai quali espongono in occasione dell’omonima mostra organizzata a Milano nel 1962 presentata da Umberto Eco.

Maria Paola Forlani


sabato 27 febbraio 2016

La santità non si eredita. Io e il mio rapporto con i genitori, il Denaro, Dio. Recensione di Gian Luigi Zucchini

Conobbi Teresa Amendolagine in India, nel corso di un viaggio alle fonti della cultura buddista.

Svolgeva, in quel periodo, attività giornalistica, uno dei tanti lavori attuati nella vita un po’ tumultuosa e un po’ libertaria di questa scrittrice romana. Ora Teresa pubblica il suo quarto romanzo, che più propriamente lei definisce ‘romanzo autobiografico’. Praticamente il racconto della sua vita, con la riflessione particolare su alcuni degli aspetti che ne hanno caratterizzato lo svolgimento. E questo motivo giustifica anche il titolo, che altrimenti non si capirebbe, e che in effetti non si capisce se non leggendo il libro, e cioè: “La santità non si eredita”.
Il sottotitolo cerca di spiegarne sinteticamente l’ermetismo, ma – se da un lato definisce il percorso – dall’altro farebbe apparire il romanzo come un testo che si muove alla ricerca spasmodica di Dio, un libro cioè in  perenne scontro tra lo spirito e la materialità del denaro, tra anima e corpo, tra bene e male.
Però questa prima impressione - che del resto potrebbe essere del tutto personale - non è affatto ciò che il libro descrive. In esso, scritto con un linguaggio semplice e scorrevolissimo, Teresa racconta sì la sua vita, o almeno i fatti salienti di essa, ma ciò che emerge sono soprattutto due elementi, o addirittura uno solo, nei suoi diversi aspetti a volte anche drammatici e laceranti: da un lato la presenza di due genitori molto religiosi, addirittura inseriti già in un processo di canonizzazione che dovrebbe portarli, nell'obiettivo finale, alla venerazione e poi alla gloria degli altari; dall’altro, l’autonomia della scrittrice fin dall’infanzia, la sua libertà di essere e di vivere seguendo strade non imposte, ma scelte, o anche subite ma senza imposizioni esterne. Questa autonomia si manifesta ovviamente come un perenne scontro con il tipo di vita desiderato e seguito dai genitori e dalla famiglia che, nell’ambito di una visione cattolica della vita, promuovevano e vivevano anche una serie di comportamenti che per la scrittrice si presentavano come vincoli entro cui imprigionare bisogni, desideri, interessi; e soprattutto la libertà di essere se stessa, e di costruire da sé la propria esistenza, anche a volte sbagliando, ma pur sempre seguendo senza costrizioni ciò che la ragione e l’istintiva forza creativa le suggeriva. Così sposa in giovane età un giornalista, se ne separa poi per evidenti egoismi di lui, rimanendo così senza sussidi economici. Eppure, non rinuncia ad un’etica di correttezza con se stessa come persona libera, che non intende subire affronti o patteggiamenti per un futuro più certo ma sicuramente di squallida mediocrità. Così farà lo stesso più avanti, quando lascerà un regista che amava il quale, pur apprezzandola e forse ancora amandola, la tradiva tuttavia con una persona più giovane, ma soprattutto carezzevolmente servile, capace di blandirne l’ambizione con un esaltazione eccessiva della sua produzione cinematografica, pur significativa e soprattutto intelligentemente sperimentale. E così in tante altre situazioni della vita, Teresa affronta le diverse situazioni senza mai venir meno a se stessa, alla sua libertà di donna e di intellettuale. I tempi in cui si trova a vivere la propria giovinezza e prima maturità sono anch’essi tumultuosi e inquieti: si succedono le contestazioni giovanili del ’68, emergono movimenti libertari per  i diritti civili e l’uguaglianza sessuale, si lotta contro l’emarginazione della donna, del ‘diverso’ in ogni senso (dall’handicappato, al negro, all’ebreo, all’omosessuale), nasce e poi quasi subito muore il movimento dei 'figli dei fiori’, ma successivamente si consolidano altri filoni di comportamento, come i Verdi e le Femministe, tra le quali non poteva non trovarsi anche Teresa, che poi troverà per un periodo uno spazio più  disteso e produttivo nei movimenti culturali delle donne, soprattutto delle casalinghe, che tra le donne erano, e ancora in gran parte sono, quelle meno considerate e più sottovalutate. Insomma, una vita, tra famiglia, figli, ricerca di lavori diversi, sempre difficili e purtroppo di breve durata, e quindi il bisogno di denaro, necessario e desiderato, non per il lusso o il superfluo, ma per la sopravvivenza. Poi, in tutto questo, la forza creativa, l’impegno volitivo di crescere per sé, per i figli e per gli altri a cui spesso si dedica con attività culturali, e la presenza – che Teresa afferma non voluta e non cercata – di Dio, che però sembra agire anche contro la volontà di lei, per presentarle prima ostacoli e poi soluzioni per uscirne. Un Dio di Provvidenza, che trapela anche, con qualche tremito di emozione, nelle ultime pagine, come avviene nei ‘Promessi sposi’. Una provvidenza che “la c’è, la c’è” come dice Agnese accudendo i nipotini, dopo tutti i drammi e gli sconvolgimenti succedutisi in quei drammatici tempi, tra guerre, tradimenti, perfidie e perdoni.
Un libro, questo, da leggersi dunque con discrezione e partecipazione, perché si tratta di un romanzo vissuto, dove il realismo è, dal punto di vista letterario, costruito secondo uno stile che potremmo definire ‘minimalista’, e dal punto di vista umano enunciato secondo una serenità sorretta dalla ragione, dall’affetto per la vita, i figli, la famiglia stessa; soprattutto dalla decisa e sempre positiva volontà di superare gli accadimenti e rinnovare ogni giorno se stessi e il futuro. Come dice Dante: “Incipit Vita Nova”. Sempre, anche nell’ultimo giorno. 


                                                                                                  Gian Luigi Zucchini


Teresa Amendolagine, La santità non si eredita. Io e il mio rapporto con i genitori, il Denaro, Dio, Gangemi Editore, Roma, 2015, pp. 205, s.i.p.    

venerdì 26 febbraio 2016

Gian Luigi Zucchini ricorda Umberto Eco

UMBERTO ECO, I FUMETTI E LA REGINA LOANA

                                                                                                  
La scomparsa di Umberto Eco ha movimentato i computer di tutto il mondo. Pertanto tra rievocazioni e ricordi di tanti personaggi, anche importanti e famosi, questo mio breve scritto non vuol essere altro che una riflessione come memoria per un docente con cui, insieme ad altri, sono stato in diverse sedute di laurea; e di cui ho anche ascoltato varie sue lezioni, che erano spesso una divertente passeggiata nei diversi meandri della cultura, oppure un gioco di incroci dove memoria, intelligenza, acume critico e levità di linguaggio concorrevano a tener vivo l’interesse anche degli studenti meno attenti. E così mi capitava, quando avevo un po’ di tempo, di entrare di soppiatto nell’aula dove lui faceva lezione e di sedermi in fondo, ad ascoltare, soprattutto quando sapevo che avrebbe trattato certi argomenti, come per esempio il fumetto, o la letteratura rosa, o il romanzo d’appendice: tutta merce di scarto, se non addirittura di rifiuto; i cascami della cosiddetta cultura popolare, per di più banale, quindi da non prendersi neppure in considerazione. Invece Eco li aveva trattati con un garbo ed una finezza critica tale che, da cosucce da niente sono divenuti ambiti di studio e di ricerca per molti, e anche per me, che – debbo confessarlo -  in un primo momento mi sentivo abbastanza turbato per quelle scorribande così fuori dalle consuetudini accademiche. Accadeva infatti, a persone più o meno della nostra età, di ricordare le cautele che genitori, insegnanti, pii catechisti e candidi curati raccomandavano circa queste pubblicazioni, spesso anche condannandole perché largamente ‘diseducative’, mentre ora se ne discute addirittura nelle aule universitarie, e si fanno tesi di laurea su Topolino o Tin Tin o il duo Cino e Franco..

Tuttavia, ed anche per non attardarmi su argomenti ormai dilaganti sui media, scarto subito citazioni relative al  ‘Nome della Rosa’, la vastità di pensiero del professore e le sue acutissime introspezioni nella filosofia medioevale e nella semiologia, e mi rannicchio in qualche angolino un po’ oscuro, in compagnia di alcune letture che, non molto citate nelle celebrazioni e nei corsivi di rito, hanno offerto a me occasione di riflessioni disordinatamente leggere, eppure culturalmente vaste e forse anche profonde. Furono intanto alcuni saggi sulla cosiddetta ‘letteratura per signorine’, altrimenti detta ‘rosa, ed in particolare un’analisi sulla produzione di Carolina Invernizio, Matilde Serao e Liala, in un libretto edito dalla Nuova Italia nel 1979 con ampia introduzione di Eco, che lo stesso aveva allegramente intitolata “Tra donne intorno al cor mi son venute…”. Poi soprattutto il ‘romanzo illustrato’ “La misteriosa fiamma della regina Loana”. Qui si incrociano evocazioni musicali, con le canzonette del Trio Lescano o del Quartetto Cetra, le tronfie immagini del fascismo, con manifesti, inni, rimette esaltate e idiozie pedagogiche, in cui, per far apprendere ai piccini di prima elementare le più ostiche regole ortografiche, si usava esemplificare con ‘gagliardetti’, ‘camicie nere’, ‘mitraglia’, ‘duce’, ecc. Ma c’erano anche i fogli di soldatini che evocavano Les Images d’Epinal, e i fumetti con l’elegantissimo Fantomas, poi le varie avventure di Topolino, tra Legione Straniera e polizia americana. Su tutto questo presente nel libro, ed in particolare sui fumetti, Eco scrive interessanti riflessioni, come per esempio questa: “Mi sarò forse avvicinato a Picasso sullo stimolo di Dick Tracy?” E, interrogandomi a mia volta, mi chiedo: le stampe popolari d’Epinal, o certe caricature di Jacovitti, non mi avranno forse un tempo avvicinato meglio a Honoré Daumier  o alle sapide  deformazioni espressionistiche di Otto Dix ?.

Ecco, chi l’avrebbe mai immaginato un tempo, quando le maestre requisivano questi documenti costruiti per le fantasie infantili, e li buttavano nel fuoco? Non c’era già lì, in quell’incomprensione verso il libero respiro della cultura della storia, un’inconsapevole valorizzazione dei roghi hitleriani, un valutare l’arte secondo modelli già prefigurati, eliminando quella troppo divergente, già vergognosamente definita ‘arte degenerata?”.
“Era sui fumetti che probabilmente mi costruivo faticosamente una coscienza della storia”, scrive ancora Eco. Ed è probabile che la misteriosa fiamma della Regina Loana avesse già in quei momenti cominciato a bruciare nell’ancora infantile fucina dello scrittore, per diventare addirittura un grande rogo, che ha ravvivato tra il millennio scorso e quello appena iniziato il focherello della nostra ormai agonizzante fantasia con i due potenti combustibili della cultura e della ragione.

                                                                                                                             Gian Luigi Zucchini

mercoledì 24 febbraio 2016

I VIVARINI

I VIVARINI

Lo splendore della pittura
Tra Gotico e Rinascimento


Si è aperta a Palazzo Sarcinelli di Conegliano, fino al 5 giugno 2016 la prima mostra mai realizzata sui Vivarini, la famiglia di artisti muranesi in primo piano nel magico panorama dell’arte veneziana del Quattrocento, che giunse a contendere il primato alla celebre bottega dei Bellini.

L’evento promosso dal Comune di Conegliano e da Civita Tre Venezie è a cura di Giandomenico Romanelli (catalogo Marsilio) con il titolo I Vivarini lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento.

I tre artisti Vivarini, (Antonio, il fratello Bartolomeo e il figlio di Antonio, Alvise) furono tra i principali e più originali interpreti della pittura veneziana nella stagione di passaggio tra la cultura figurativa gotica e l’affermazione del Rinascimento.
La loro attività copre un arco cronologico di circa sei decenni (tra il 1440 e il 1503) e ha lasciato un imponente numero di opere nei territori della Repubblica di Venezia (dalla capitale al confine occidentale verso il Ducato di Milano, con particolare densità a Bergamo) come sulle coste adriatiche, sia in Istria e nella Dalmazia che nelle Marche, in Abruzzo, in Puglia e nelle province del regno di Napoli.

La bottega artistica dei Vivarini ha sviluppato una sua poetica e un suo peculiare linguaggio: a fianco e talvolta in competizione con l’altra celebre famiglia di pittori veneziani, quella dei Bellini, essa si è confrontata e ha recepito l’esperienza dei grandi innovatori dell’arte del primo Rinascimento: Paolo Uccello, Donatello, Masolino da Panicale, Filippo Lippi, Andrea del Castagno; quindi Andrea Mantegna e Antonello da Messina, poi Perugino e altri ancora. Tracce di questi contatti e di questi confronti si possono riconoscere nella pittura dei Vivarini, che si è venuta aggiornando e arricchendo in maniera assai evidente nel corso dei decenni senza perdere in originalità e novità.

L’intenzione dei curatori della mostra, la prima mai dedicata ai Vivarini, è quella di illustrare l’importante percorso da loro compiuto.
Di sfatare alcuni ingiustificati pregiudizi, come quello per cui i Vivarini sarebbero gli interpreti di un’avventura culturale destinata a soccombere rispetto alla linea vincente (quella, per altro straordinaria, Bellini-Giorgione-Tiziano) o a rappresentare una corrente artistica marginale e provinciale (le opere in mostra dell’ultimo Alvise e l’intero coneglianese e trevigiano con la ricchezza e la qualità della pittura dei “seguaci” dei Vivarini smentiscono decisamente tale ragionamento). Infine è l’occasione per indagare e conoscere la composizione della committenza della Chiesa del secondo Quattrocento e, soprattutto, con il mondo delle osservanze, ossia delle correnti riformate negli ordini religiosi.

I pittori Vivarini furono tre, come ben noto: Antonio, il più anziano, nato prima del 1420; suo fratello Bartolomeo, di una decina d’anni più giovane e Alvise, figlio di Antonio, nato in una data tra il 1442 e 1433. Originari di Murano in una famiglia proveniente da Padova trasferitasi in laguna a lavorare il vetro, continuarono a praticare questa materia e, anzi, la più celebre delle grandi vetrate veneziane, quella della basilica dei Santi Giovanni e Paolo, vide la partecipazione creativa di Bartolomeo e, forse, Alvise.

Le opere di esordio di Antonio, nella prima sala della mostra, quali il Polittico di Parenzo, firmato e datato 1440, al quale si può affiancare per affinità stilistiche la raffinatissima Madonna col Bambino Gallerie dell’Accademia di Venezia, sono caratterizzate da una soffice plasticità nella resa delle figure che vengono però ancora impaginate contro un fondo oro uniforme che annulla lo spazio e le immagini in un’atmosfera sospesa e irreale.

La forma classica dell’ancona gotica prevede una complessa cornice intagliata e dorata articolata verticalmente su uno o più livelli e orizzontalmente su una serie di edicole o scomparti, ciascuno occupato da una e più figure; gli scomparti centrali erano solitamente destinati alla Vergine con il Bambino oppure al santo titolare dell’altare. In alto, nel fastigio, compariva il più delle volte il Cristo in passione.
Nell’Uomo dei dolori della Pinacoteca Nazionale di Bologna, probabile scomparto di un polittico smembrato, Antonio mette a punto un’originale raffigurazione con il Cristo che appare quasi vivente, pervaso da una forza dinamica e arditamente inserito nel paesaggio.

Dal principio degli anni quaranta l’attività di Antonio si intreccia con quella del pittore Giovanni d’Alemagna che ne sposa la sorella. Questo sodalizio ed operosità in comune è presentata nella seconda sala pel percorso espositivo.
Le opere firmate da entrambi sono sontuose e complesse ancone per chiese veneziane richieste da una committenza strettamente religiosa. Tra i capolavori di questa spettacolare produzione vi è la Madonna in trono con il Bambino, parte di un trittico smembrato proveniente quasi sicuramente dalla veneziana chiesa di San Moisè. Lo scomparto centrale con la Vergine e il Bambino è uno splendido esempio di virtuosismo formale e tecnico specie nella resa prospettica del trono gotico, riccamente intagliato e traforato.

Nel 1446 Antonio risulta residente a Venezia, nella parrocchia di santa Maria Formosa, ma l’anno seguente la bottega viene trasferita a Padova, città nella quale lavora per ben dieci anni Donatello e dove sta crescendo potentemente la personalità di Andrea Mantegna. Qui la sfida più impegnativa che Antonio e il cognato Giovanni affrontano fu la decorazione della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani, da condursi lavorando a fianco di due giovani artisti emergenti: Andrea Mantegna e Nicolò Pizzolo. La documentazione fotografica anteriore al bombardamento del 1944 su Padova mostra lo sforzo di Antonio e Giovanni di adeguarsi a un nuovo e moderno gusto, ricco di interessi antiquari.


Nella terza sala spicca la figura di Bartolomeo Vivarini, fratello minore di Antonio che segue probabilmente il fratello a Padova e, dopo la brusca interruzione dell’esperienza Ovetari, la morte di Giovanni di Alemagna avvenuta nel giugno 1450, si trova a collaborare strettamente con lui.
Gli anni cinquanta risultano infatti intensi e ricchi di commissioni, non solo in terra veneta ma anche in quella sorta del “golfo di Venezia” che si espandeva lungo le coste adriatiche. Ѐ molto difficile in tali lavori distinguere le due diverse mani, ma nel polittico per la chiesa di San Francesco a Padova del 1451, disperso in varie collezioni, di cui in mostra appaiono gli scomparti con i santi Antonio da Padova e Ludovico da Tolosa ma soprattutto nel Polittico di Rutigliano (Puglia) e nel Polittico di Arbe dalla chiesa di San Bernardino nel monastero di sant’Eufemia di Arbe (Rab.Croazia) il linguaggio di Bartolomeo risulta ancora coincidente con quello della bottega, mentre lo stile di Antonio sembra mutare verso modi nuovi.

La quarta e la quinta sala sono dedicate a Bartolomeo Vivarini che dopo la morte del fratello Antonio, a partire dagli anni sessanta, appare muoversi verso un suo personale e originale itinerario. Negli anni ottanta Bartolomeo seguita a dipingere secondo la formula che gli ha garantito il grande successo: non sa, o non vuole aggiornare il proprio linguaggio. Lavora per la terra veneziana o per le località lungo le coste adriatiche, ma dalla seconda metà del decennio, si affaccia anche il mercato bergamasco eseguendo numerosi polittici a fondo oro.


Nelle tre ultime sale abbiamo il percorso del nipote Alvise Vivarini.
Inizialmente vicino ai modi dello zio Bartolomeo (e di Andrea Mantegna), egli se ne distacca progressivamente, attratto dal magistero di Antonello da Messina e di Giovanni Bellini. Nella sua fase finale la sua pittura si caratterizza in un impegno di ricerca sperimentale inedita.


Tra le sue opere più rivoluzionarie è il Cristo risorto della chiesa di San Giovanni Battista in Bragora (Venezia), databile al 1497-1498, riconducibile a nessun modello della coeva pittura veneziana. La figura atletica di Cristo risulta animata da un moto di torsione che scardina ogni precedente modalità di inserimento del corpo nello spazio, portando dentro la storia la dimensione dell’evento soprannaturale.


Maria Paola Forlani