martedì 29 marzo 2016

UMBERTO BOCCIONI

Umberto Boccioni (1882-1916)
Genio e Memoria

Nel primo centenario della morte di Umberto Boccioni (1882-1916),
il Comune di Milano celebra l’artista con una grande mostra a cura di Francesca Rossi con Agostino Contò che ne evidenzia, alla luce anche di documenti inediti, il percorso artistico e la levatura internazionale, presentando circa 280 opere tra disegni, dipinti, sculture, incisioni, fotografie d’epoca, libri, riviste e documenti.

Frutto di un progetto di ricerca curato dal Gabinetto dei Disegni della Soprintendenza del Castello Sforzesco. Umberto Boccioni (1882-1916). Genio e Memoria è una mostra promossa da Castello Sforzesco, Museo del Novecento e Palazzo Reale.

Umberto Boccioni nasce all’insegna del nomadismo; vede la luce – infatti – lui, di famiglia originaria di Romagna – a Reggio Calabria, il 19 ottobre 1882; il padre è un modesto funzionario di prefettura e gira l’Italia in continuazione, tirandosi dietro la famiglia, la moglie Cecilia Forlani e i due figli. Così, nel 1888 troviamo i Boccioni a Padova e nel 1897 a Catania, dove Umberto prende il diploma presso il locale istituto tecnico. Ma comincia a manifestare interessi artistici e il padre lo manda a Roma, presso un parente, iscrivendolo ai corsi di un mediocre pittore di cartelloni pubblicitari. Fortunatamente, il giovane Boccioni, da solo sceglie un maestro ben più credibile, e utile in senso artistico, Giacomo Balla, di undici anni più anziano di lui e immigrato a Roma da Torino fin dal 1895. Presso Balla Boccioni conosce e incontra il suo primo amico d’arte e di pensiero, Gino Severini.

L’incontro con Balla e l’ambiente della pittura romana avviene nel 1901; del 1903 è il primo quadro datato di Boccioni, Campagna romana,
del quale l’influenza del Divisionismo del maestro è piuttosto evidente. Poi, per motivi che non sono mai stati ben chiariti, il sodalizio si incrina, Boccioni lascia Roma e nell’aprile del 1906 va a Parigi, dove si ferma fino all’agosto, e quindi va addirittura in Russia e ci resta fino al mese di novembre. Al ritorno si stabilisce a Padova, con la madre e la sorella (il padre li aveva abbandonati da tempo). Da Padova si iscrive all’Accademia di Bell Arti di Venezia; studia molto, disegna, comincia a incidere, ma non è soddisfatto.

“Cerco, cerco, ma non trovo…” scrive nel diario. Decide di recarsi di nuovo in Russia, ma si ferma a Monaco, dove si sta sviluppando l’importante stagione della Secessione e la cultura è pienamente simbolista.
Alla fine del 1907, decide di andar di nuovo a Milano, questa volta e qui, nella città allora più ricca e agiata d’Italia, Boccioni trova finalmente un punto fermo per l’arte e per la vita.

A Milano il ritmo è dato dall’industria, dai commerci, la città intera è un cantiere e un’officina. Sul piano culturale, accanto agli esangui cantori della borghesia e agli illustratori, operano due personalità di ben altra tempra, il pittore Gaetano Previati e il poeta-romanziere- giornalista Filippo Tommaso Marinetti.  Con la sicurezza del rabdomante Boccioni si avvicina a questi due personaggi: da Previati assimilerà il colorismo audace, estrema declinazione del Divisionismo di Segantini e di Pelizza da Volpedo; da Marinetti – che dirige e redige la rivista Poesia – aggiornerà la sua cultura letteraria, artistica, filosofica.

Nel febbraio del 1910 su Poesia esce il Manifesto dei pittori futuristi, firmato da Balla, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini.
Per meglio chiarire l’aspetto figurativo del Manifesto, nell’aprile dello stesso anno esce il Manifesto tecnico della pittura futurista, firmato da Boccioni, Carrà, Balla, Severini, Russolo, nel quale si precisano forme e contenuti dell’arte del futuro.
In Boccioni i risultati di questa rivoluzione pittorica si colgono a pieno nella
Città che sale, il capolavoro del 1910, vero manifesto delle sue convinzioni.

Il 1911 è intensissimo per Boccioni e per il gruppo futurista, fondamentale di quell’anno è il viaggio a Parigi, su invito di Severini, che spinge il gruppo a vedere dal vero le novità cubiste.

I futuristi vengono invitati a una mostra da tenersi presso la Galleria Bernheim di Parigi; in seguito , per il successo, verrà richiesta in molte altre capitali europee.
In quell’anno cruciale, Boccioni ha il tempo di dipingere alcuni tra i suoi massimi capolavori e di iniziare a scolpire.
L’11 aprile infatti aveva pubblicato il Manifesto tecnico della scultura futurista, veramente rivoluzionario per concezioni e aperture

sul futuro.  Ma il 1914 è l’anno della guerra: l’assassinio dell’arciduca Ferdinando a Sarajevo apre il conflitto, l’Italia per il momento è neutrale ma l’Europa intera è in fiamme. I futuristi sono per l’intervento, in omaggio alle convinzioni tanto rumorosamente proclamate nel Manifesto del 1909 (“guerra sola igene del mondo”). Ma dovranno attendere fino al 24 maggio del 1915 per l’ingresso italiano nel conflitto; nel luglio dello stesso anno Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant’Elia si arruolano nel Battaglione Volontari Ciclisti.


Il soldato Boccioni viene inviato a Verona e nelle brevi licenze riesce a organizzare altre serate futuriste e dipingere. Ma le opere ultime sono diverse da quelle di solo un anno prima e segnano un ritorno all’immagine.
Non avrà il tempo di evolvere questo suo nuovo mondo e ricerca: il 17 agosto del 1916 Boccioni cade da cavallo e muore per ferite riportate.

La mostra si apre e si chiude con l’Autoritratto (1907-1908) di Boccioni che sembra sorvegliare l’intero percorso espositivo che si sviluppa in ordine cronologico e per nuclei tematici.
Esplicite sono le fasi di formazione dell’artista, nei riferimenti al divisionismo, simbolismo e espressionismo, attenzione al Rinascimento e al barocco, tutte radici dell’arte contemporanea. I disegni preparatori e i documenti esposti confermano la grande attenzione del giovane pittore per l’opera di Dürer, Balla, Segantini, Previati e Fornara.

Ai limiti tra realtà e sogno-incubo, Boccioni supera ogni concezione dell’arte come bellezza ed esprime una concezione della vita intesa come ansia, come urto e incubo.
Boccioni porta nel Futurismo una nota che è tutta sua, la nota di una malinconia esistenziale, di una gravità che lo rendono il più dialettico e complesso degli artisti del gruppo. Nel 1908, quando ancora si dibatteva tra suggestioni del divisionismo e le tentazioni del Simbolismo, Boccioni scriveva: “ Sono per tutto ciò che grandioso, sinfonico, sintetico, astratto…Non posso chiudere senza una preghiera all’ignoto…”


Maria Paola Forlani



lunedì 28 marzo 2016

RAFFAELLO E PERUGINO

[Primo dialogo] Raffaello e Perugino
Attorno a due <<Sposalizi della Vergine>>.

La mostra “[Primo dialogo] Raffaello e Perugino attorno a due Sposalizi della Vergine” dà il via ad una nuova epoca per la Pinacoteca di Brera, che sotto la direzione di James Bradburne mette fine alla pratica delle grandi mostre e inaugura una serie di appuntamenti volti alla valorizzazione della collezione permanente.
L’eccezionale prestito a Brera dello Sposalizio della Vergine di Perugino proveniente dal Musée des Beaux-Art di Caen e la sua collocazione accanto allo Sposalizio della Vergine del giovane Raffaello (capo d’opera della pinacoteca milanese) si presentano, per la prima volta nella storia, in un confronto unico, fino al 27
 giugno 2016.

 Il faccia a faccia tra i due capolavori, cui è stata accostata in mostra un terzo Sposalizio della Vergine, quello dipinto da Jean-Baptiste Wicar  del 1825,
da quest’ultima versione nasce l’incipit narrativo di tante storie diverse: quella di un grande maestro (Perugino) e del suo talentuoso allievo (Raffaello), quella di un capolavoro sottratto alla sua patria e della fortuna in terra francese del suo autore, e infine quella del Santo Anello, che secondo la tradizione, l’apostolo Giovanni avrebbe ricevuto dalla Vergine in persona e divenuto sacra reliquia, fu l’oggetto per cui nei secoli si scatenarono agguerrite passioni municipali e nacquero grandi capolavori.
Lo Sposalizio della Vergine di Raffaello è la prima opera datata e firmata, della quale  il pittore, poco più che ventenne, ha pienamente riconosciuto la paternità.
È anche la prima nella quale siano riconoscibili le derivazioni e, al tempo stesso, l’autonomia.
La composizione nasce infatti da un’idea di Perugino: un gruppo di personaggi, divisi in due schiere, davanti a un vasto spiazzo chiuso sul fondo da un tempio a pianta centrale.
Il precedente peruginesco più noto è la Consegna delle chiavi della Cappella Sistina (1482). Ma i rapporti, più che con questo affresco (che Raffaello non poteva avere visto direttamente, non essendo ancora andato a Roma, ma conoscere solo attraverso i disegni del maestro), devono essere stabiliti con lo Sposalizio della Vergine, che Pietro Vannucci detto  il Perugino aveva dipinto poco prima per il capoluogo umbro (opera commissionata dalla confraternita di San Giuseppe per la Cappella del Santo Anello nel Duomo di San Lorenzo a Perugia) e che perciò il giovane allievo e collaboratore doveva avere visto nascere giorno per giorno.
Le somiglianze sono indubbie iniziando dalla forma della tavola, verticale e arcuata. In ambedue i casi il sacerdote, al centro, sostiene i polsi degli sposi mentre Giuseppe infila l’anello nel dito di Maria. Dal lato del primo sono gli uomini (uno dei quali spezza la bacchetta non fiorita), dall’altro le donne (tuttavia le posizioni degli uni e delle altre sono invertite). La piazza è pavimentata a scacchi, in modo da indicare, con esattezza geometrica, la prospettiva, secondo la tradizione fiorentina. Al tempio poligonale si sale mediante una scalinata e si accede da una porta, mentre, al di là, un’altra porta lascia vedere una porzione di cielo e di paesaggio.
In realtà i due quadri sono profondamente diversi.
Raffaello interpreta e trasforma il modello creando un’opera non soltanto originale, ma molto più moderna di quella di Perugino, e, soprattutto, di maggior valore artistico, perché l’opera d’arte nasce non dalla scelta di un certo soggetto, ma dal modo in cui esso è reso a seconda della personalità dell’autore.
L’elemento determinante è il tempio, che Perugino immagina ottagono, con un prònao su quattro lati, e del quale, senza ragione compositiva, taglia la cupola con il limite della tavola, un tempio massiccio, statico, che chiude lo spazio come un fondale scenico.
In Raffaello il tempio ha sedici lati, così da equipararsi quasi a una pianta circolare, ha una peristasi di archi sostenuti da colonne e la cupola, libera, riprende coerentemente la forma della cornice. Ha una certa somiglianza con il Tempietto di San Pietro in Montorio che il Bramante proprio in quegli anni sta elevando a Roma.
Anche senza accettare la tesi del Vasari, secondo il quale esisterebbe una parentela (che non risulta da nessun documento) vi sono certo rapporti di amicizia fra il giovane Raffaello e l’anziano Bramante, ambedue urbinati, per cui, attraverso i disegni di Perugino della Consegna delle chiavi (studiati nella bottega del maestro),
Raffaello, anche senza aver visto direttamente l’edificio bramantesco a Roma può averne conosciuto i progetti.
Da Bramante, Raffaello riprende l’idea cinquecentesca dell’edificio centrale intorno a cui ruota lo spazio.
Il tempio si alleggerisce innalzandosi sugli scalini e articolandosi perimetralmente con il porticato (entro il quale circola l’aria) raccordato al nucleo principale con eleganti volute.
La sua forma (coordinata per elementi salienti successivi, alla cupola), stagliandosi contro il cielo terso e trasparente, fa sì che lo sentiamo non come fondale, ma come centro di uno spazio che gli si estende egualmente intorno, di qua come di là e ai lati.
A ciò contribuisce in gran parte la pavimentazione della piazza, le cui linee prospettiche coincidono, sul davanti, con ciascuno spigolo della base poligonale formata dai gradini.
La convergenza ottica, dovuta alla prospettiva, fa sì che queste direttrici fondamentali sembrino non parallele fra loro, come sono nella realtà immaginata dal pittore, ma disposte a raggiera in concomitanza con i lati del tempio, che, tanto più ne ricava centralità. Con questa impostazione sono coerenti anche le figure in primo piano, le quali, facendo perno sul sacerdote, si dispongono secondo due semicerchi, uno aperto verso lo spettatore, l’altro verso il tempio. Sono figure sciolte negli atteggiamenti, forse, ancora un po’ leziose per la lieve inclinazione delle teste di origine peruginesca.  Ma se ne riscattano se considerate nella complessa composizione, ossia inserite in uno spazio razionale, dominato dalla luce chiara, non immemore di Piero della Francesca, una luce che conferisce alla tavola un senso di serena meditazione sul fatto sacro.
Maria Paola Forlani


domenica 27 marzo 2016

STREET ART

Street

ART
Banksy & CO.
L’Arte allo stato Urbano

Dopo dieci lustri, il fenomeno socio-culturale del graffitismo urbano ha guadagnato una rilevanza unica nel panorama della creatività contemporanea: le opere di artisti come Banksy hanno invaso le maggiori città del mondo, e dagli anni Ottanta a oggi la stessa Bologna si è affermata come punto di riferimento per molti artisti – da Cuoghi Corsello  a Blu passando per Dado e Rusty – che hanno scelto proprio la città
Felsinea per lasciare il loro segno sui muri.
Fino al 26 giugno questa forma d’arte è raccontata nella sua evoluzione, interezza e spettacolarità nelle sale di Palazzo Pepoli – Museo della Storia di Bologna con una grande mostra intitolata Street Art-
Banksy & Co.
L’evento presenta inoltre per la prima volta in Italia parte della collezione del pittore statunitense Martin Wong donata nel 1994 al Museo della Città di New York, presentata nella mostra City as Canvas: Graffiti Art from the Martin Wong Collection, a cura di Sean Corcoran curatore di stampe e fotografie del Museo. Come mostra dentro la mostra, la sezione vuole individuare la New York del 1980, nella quale si possono ammirare lavori dei più grandi graffiti writers e street artists statunitensi come Dondi Whith, Keith Haring e Lady Pimk.

La mostra, prodotta e organizzata da Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Genus Bononiae, Musei nella città e Arthemisia Group, curata da Luca Ciancabilla, Christian Omodeo e Sean Corcoran, intende spiegare il valore culturale e l’interesse artistico della street art.

Cercando un punto d’inizio alla pratica espressiva del dipingere i muri, la mente corre alla notte dei tempi, quando la scrittura era ancora lontana dall’essere inventata e le immagini raffigurate non avevano finalità estetiche, quanto piuttosto magiche e propiziatorie. Tra le testimonianze figurative giunte ai giorni nostri quelle più note sono forse le grotte spagnole di Altamira e quelle francesi di Lascaux, Chauvet e del Pech-Merle, queste ultime con dipinti murali rupestri risalenti addirittura al 25.ooo-20.000 a.C. Qui sono tra l’altro visibili alcune impronte in negativo di mani, realizzate spruzzando sugli arti del colore: un segno d’individualità impresso sul muro, che anticipa sorprendentemente l’uso, in epoca prescritturale, delle “tags”, le firme vergate in tutto il mondo dai writers, a partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento.
Avanzando nella cronologia, un altro significativo capitolo dell’uso artistico dei muri, ora pienamente artistico, è rappresentato dagli affreschi medievali. Più che affreschi, sarebbe meglio definirli semplicemente dipinti murali: se la base di gran parte di tali opere era effettivamente affrescata (con il colore applicato sull’intonaco ancora bagnato), molti particolari erano aggiunti successivamente a secco, con soluzioni polimateriche che prevedevano in molti casi l’inserzione di oggetti tridimensionali, ad accentuare l’effetto scenografico.

Ma l’ascendente certamente diretto della Street Art d’oggi è rappresentato dal muralismo internazionale del primo dopoguerra. Esemplari in tal senso sono la Francia (ove nel 1935 si tenne il primo Salon de l’Art Mural) ma soprattutto il Messico postrivoluzionario e l’Italia fascista; paesi che, a latitudini e su fronti politici opposti, condividevano entrambi l’idea che l’opera d’arte murale dovesse essere vissuta dal popolo come patrimonio e valore collettivo, attuata pertanto come finalità educative quanto propagandistiche.

Sempre in America Latina, nel Cile di Allende, si assiste a partire dal 1970 a una nuova ondata di dipinti murali a scopo didattico-politico che segnano profondamente il panorama urbano cileno.

Nel 1973, con il golpe del generale Augusto Pinochet, i murales realizzati dai giovani di Unidad Popular – in particolare quelli a opera della Brigada Ramona Parra – vennero distrutti e molti dei loro autori torturati e assassinati. Alcuni artisti esuli diedero vita in Europa a dipinti murali in solidarietà al popolo cileno, riprendendo le iconografie d’oltreoceano; per l’Italia, vanno ricordati i numerosi murales della Brigada Pablo Neruda e della Brigada Luis Corvalàn, alcuni dei quali recentemente restaurati per il loro alto valore storico, oltre che artistico.
Il murale degli anni Settanta è quasi sempre politico ed è vissuto in maniera collettiva, portato avanti da circoli culturali, associazioni di artisti e perfino scuole e comitati di quartiere. Rispetto ai dipinti murali degli anni Trenta, queste opere legate alla contestazione sono spesso accompagnate da scritte e slogan.

Per quanto predominanti, murales e scritte non furono gli unici mezzi di comunicazione creativa murale utilizzati negli anni della cosiddetta Controcultura (1967-1977). Sempre a metà strada tra legale e illegale, vanno perlomeno ricordati i manifesti – da quelli della California più psichedelica a quelli europei degli studenti in rivolta, su tutti quelli del parigino Atelier Populaire, entrati e a ragione in ogni storia della grafica che si rispetti – e non da ultimo i giornali murali.

A Documenta 7 esposero due giovani artisti che avevano mosso i primi passi a Fashion Moda e che di lì a poco diventarono dei cavalli di razza dell’arte statunitense e del graffitismo nello specifico: Jean-Michel Basquiat e Keith Haring.
Di tutto ciò in Italia si ebbe notizia solo nei primi anni Ottanta, grazie agli straordinari reportage di Francesca Alinovi per “Flash Art”, e alla mostra
Arte di frontiera (Bologna 1984) nata da un progetto della giovane ricercatrice, prematuramente e tragicamente scomparsa l’anno prima.

Le seminali ricerche di Francesca Alinovi non ebbero immediata ricezione sul versante artistico italiano. Si dovettero attendere gli anni Novanta perché il writing metropolitano si diffondesse pienamente in maniera matura, anche in Italia.


Ma nel fra tempo le cose erano cambiate e questa nuova strada aperta portò presto a un bivio: da una parte il mondo del writing e dei graffiti, quello con il suo linguaggio, le sue “crews”, i suoi luoghi e la sua indomita ricerca stilistica; dall’altra, oltre il muro, un movimento nuovo, in parte connesso al writing e ai graffiti, ma per molti altri aspetti sostanzialmente e profondamente diverso: la Street Art, il movimento artistico oggi più capillarmente diffuso al mondo, dalla natura in costante evoluzione  e ridefinizione, i cui frutti hanno una vita spesso effimera, precaria, evanescente, sebbene non manchino opere più durevoli, talvolta frutto di commissioni pubbliche.

Rispetto al writing, nella Street Art mutano i riferimenti culturali. Mutano le tecniche. Il rapporto tra legale e illegale. Le dimensioni. Il concetto di unicità dell’opera. La percezione da parte dell’arte ufficiale e, in molti casi, anche da parte del passante, che non considera più l’intervento su muro solo un atto vandalico a prescindere.

Maria Paola Forlani