mercoledì 27 aprile 2016

MATISSE E IL SUO TEMPO

Matisse e il suo tempo.

La Collezione del Centre Pompidou



“Ho lavorato per arricchire la mia intelligenza, per soddisfare le differenti esigenze del mio spirito, sforzando tutto il mio essere alla comprensione delle diverse interpretazioni dell’arte plastica date dagli antichi maestri e dai moderni”
Henri Matisse, Notes d’un peintre in “La Grande Revue”, 25 dicembre 1908


Curata da Cécile Debray conservatore presso il Musée national d’art moderne-Centre Pompidou, la mostra Matisse e il suo tempo aperta fino al 15 maggio 2016 a Torino nella sede di Palazzo Chiablese – per mezzo di confronti visivi rende possibile
cogliere non solo le sottili influenze reciproche o le fonti comuni di ispirazione tra le opere di Matisse e quelle di artisti suoi contemporanei, ma anche una sorta di “spirito del tempo”, che unisce Matisse e gli altri artisti e che coinvolge momenti finora poco studiati, come il modernismo degli anni Quaranta e Cinquanta.

Le diverse sezioni della mostra consentono di attraversare l’insieme dell’opera e del percorso di Matisse dai suoi esordi nell’atelier di Gustave Moreau negli anni 1897-99 fino alla sua scomparsa, quando altri artisti si ispireranno, negli anni Sessanta, alle sue ultime carte dipinte e ritagliate. Quando si parla di composizione per Matisse non bisogna limitarsi ad osservare la reciproca disposizione delle figure umane e i rapporti lineari, perché anche le zone libere, in quanto delimitate dalle altre, divengono forme e perché il loro significato è esaltato dal colore <<il fauvismo – dice Matisse – fu per me la prova dei mezzi: collocare l’uno accanto all’altro, riunire in maniera espressiva e costruttiva un blu, un rosso, un verde>>.
Anche nella Danza (1910) sono questi i tre colori dominanti; sono essi che permettono di percepire immediatamente la composizione distinguendone nettamente ogni elemento; sono essi che creano una spazialità, non certo imitativa del reale, ma ideale, adeguata al sogno splendente matissiano, quella Gioia di vivere che è il titolo emblematico di un’altra opera di poco precedente (1906). Nove sezioni costituiscono la mostra, con un centinaio di opere, di cui 50 di Matisse, sono articolate secondo un filo cronologico scandito da approfondimenti tematici: sulle figure eminentemente matissiane delle odalische o sulla raffigurazione dell’atelier, soggetto ricorrente nell’opera di Matisse ma che,  negli anni bui della Seconda guerra mondiale, dà luogo a quadri stupefacenti a firma di Braque, Picasso o Bonard, in un dialogo invisibile con l’artista isolato a Vance.

La figura di Matisse domina l’arte della prima metà del XX secolo. Artista prolifico e curioso, durante tutta la sua carriera è stato al centro dei dibattiti sulla scena artistica: volta a volta capogruppo dei fauves, osservatore critico del cubismo, discepolo e amico dei suoi predecessori Signac, Renoir, Maillot, Bonard, maestro di un’accademia e dell’intera generazione degli espressionisti europei e rivale di Picasso.


Nella sezione “dipingere la pittura. Gli atelier di Matisse” gli anni Quaranta segnano la stagione del ritorno alla pittura e degli “interni” di Vence. Matisse pone nuovamente al centro del suo lavoro il motivo della finestra. La rappresentazione dell’atelier costituisce all’epoca un tema ricorrente per molti artisti – Picasso, Braque, Dufy o Giacometti – come immagine riflessiva e autoreferenziale della pittura in cui si combinano affermazioni del “mestiere”, spazio ove ritirarsi e della concentrazione di fronte alla follia del mondo, e infine spazio mentale.

La sezione “Il Modernismo. La svolta degli anni Trenta” presenta una novità di lettura nel percorso dell’artista.
Alla svolta della seconda guerra mondiale, i grandi artisti figurativi – Matisse, Léger, Picasso, Dufy – modificano il loro stile inclinando verso un trattamento grafico più sciolto e schematico, verso una tavolozza di colori primari che fanno impercettibilmente eco al linguaggio modernista di Le Corbusier o di Mondrian.
Così i dipinti di Matisse realizzati dopo la grande decorazione per Barnes ( La dance) ritrovano una nuova economia formale che oggi si collega chiaramente all’estetica degli anni Cinquanta.


L’ultima sezione porta il titolo “Il lascito di Matisse all’astrattismo. L’ultimo Matisse”.
Nel 1947, Matisse inventa un nuovo procedimento tecnico, il guazzo ritagliato che gli permette di ritagliare “al vivo” nel colore. Le nuove problematiche che Matisse genera avranno conseguenze considerevoli sul lavoro degli artisti delle generazioni successive, espressionisti astratti come Rothko o Sam Francis, i protagonisti di Support/Surface come Bioulés, Viallat o Pincemin ma anche Hantal e molti altri ancora. Grazie alla diffusione della sua opera negli Stati Uniti per merito del figlio Pierre (che aveva aperto una prestigiosa galleria d’arte a New York), alle mostre delle sue opere tarde in Francia e al complesso decorativo e architettonico della cappella di Vence, l’arte di Matisse feconda l’arte del XX e del XXI secolo.
Maria Paola Forlani






lunedì 25 aprile 2016

MIGUEL DE CERVANTES


Per i 400 anni dalla morte di Cervantes


LA TORMENTATA VITA DI MIGUEL DE CERVANTES E LA FOLLIA DI DON CHISCIOTTE


Nel 1573 Paolo Caliari, detto il Veronese, dipinge una grande allegoria della battaglia di Lepanto, combattuta due anni prima. Tra raggi di luce, angeli e santi, schiere di navi si affrontano sul mare, in un confuso incastro di vascelli, alberature, remi e bagliore di armi. Tra i tanti combatte in quella battaglia anche il ventiquattrenne Miguel de Cervantes Saavedra.

Nato nel 1547 ad Alcalà de Henares, non si sa esattamente dove trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Lo troviamo studente a Madrid dove, ritenuto colpevole di aver ferito in uno scontro un certo Antonio de Segura, è condannato al taglio della mano destra. Per evitare la condanna, Cervantes fugge in Italia al seguito del cardinal Acquaviva e, arruolatosi nelle schiere imperiali, combatte a Lepanto dove, sfuggito al taglio della mano destra a cui era stato condannato, perde in battaglia quella sinistra. “Ma egli – scrive di sé più tardi – trova bella questa ferita, perché l’ha ricevuto combattendo sotto le vittoriose bandiere di Carlo V di felice memoria”. Essendo soldato, vorrebbe conquistare un po’ di gloria con le armi. Partecipa, tra altre imprese, alla presa di Biserta e di Tunisi nel 1573 e, nei momenti di pausa, scrive novelle e drammi. Intanto don Giovanni d’Austria, vincitore di Lepanto e vicerè di Napoli, lo raccomanda per una promozione a capitano, che però non riuscì mai ad avere. Così si imbarca per tornare in Spagna. Naviga con una piccola flotta ma, non si sa per quali ragioni, la sua nave si distacca dalle altre; individuata dai corsari turchi, viene presa d’assalto alla foce del Rodano. Cervantes, preso prigionieri con pochi altri superstiti, viene venduto come schiavo, Rimane in terra africana per cinque anni, tentando invano di fuggire; poi viene riscattato e torna in Spagna, dove presta ancora servizio nell’esercito per due anni, senza peraltro conseguire quella nomina a capitano a cui tiene moltissimo. Nel 1584 si sposa e va a vivere a Siviglia, lavorando in qualità di commissario per le forniture dell’Invincibile Armada, la flotta navale di Filippo II, ma pochi anni dopo viene arrestato per una questione di ammanchi dovuti alla disonestà di un banchiere di cui ingenuamente si è fidato. Nella solitudine della prigione, ancora – come in altre situazioni di prigionia o di solitudine -  cerca di evadere con il pensiero e immagina una fuga nelle immense pianure di Spagna, cavalcando come un cavaliere antico, per difendere i deboli combattendo. Ma immagina anche di deridere spietatamente il servile comportamento di molti, quello stesso che egli, nella vita, sta conducendo.

Uscito dal carcere, Cervantes di trasferisce a Valladolid, dove comincia a scrivere la prima parte dell’opera, che esce nel 1605 (ma più recenti ricerche daterebbero la prima edizione nel 1604). La intitola L’ingegnoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia. I protagonisti sono: un cinquantenne male in arnese, che cambia il proprio nome di Alonso Quijano in quello pomposo di don Chisciotte della Mancia; il suo cavallo, un povero ronzino, cui pone il nome di Ronzinante, “pomposo e risonante, come era conveniente al nuovo ordine ed all’uffizio nuovo che ormai assumeva”; la dama, una contadinotta delle vicinanze che non si curava affatto di lui”, a cui dà il nome di Dulcinea del Toboso; infine, “un contadino del vicinato; un uomo dabbene, ma con molto poco sale in zucca”, che si chiamava Sancio Panza, convinto a seguire il cavaliere come suo scudiero “perché poteva capitarli qualche avventura di guadagnarsi in quattro e quattr’otto un’isola di cui l’avrebbe nominato governatore”.

Così don Chisciotte su un cavallo e Sancio su un asino ”uscirono dal paese senza essere visti da nessuno e camminarono tanto che all’alba si tennero sicuri che, se anche li avessero cercati, non li avrebbero trovati.
Comincia così la serie di vicende dei due personaggi, in una successione di pseudoavventure dove l’immaginazione impazzita del cavaliere affronta fantasiose trame di assalti, lotte, misteri e straordinari eventi. Una storia di saggia pazzia, o di pazza saggezza, in cui Cervantes sembra voler ridicolizzare, attraverso la simulazione narrativa, i comportamenti irresponsabili e assurdi, le troppo serie situazioni reali, gli eventi che inquietano per poca cosa o per nulla. Cerca insomma, nell’ilare pazzia del suo personaggio, di trasformare gli eventi elogiando la diversità, l’evasione, la fuga da una realtà spesso pesantemente insopportabile. La pazzia dunque come rifugio alla  tristezza e alla miseria del quotidiano, che per questo va elogiata, come scrivevano in quei tempi Erasmo da Rotterdam e Sebastiano Brant; o esaltata, come accade nell’Orlando Furioso dell’Ariosto. O anche la follia come mezzo per fingere se stessi e al tempo stesso rivelarsi, come Amleto, Ofelia, Re Lear, lady Machbet, e dalla quale viene travolto il Tasso. Cervantes no: tra odiare gli uomini e divertirsi alle loro spalle, sceglie quest’ultima strada, e crea questo personaggio straordinario, un Burlador de la Mancha che si avventa sui fantasmi delle cose. Fantasmi che nel loro simbolismo sono la trascrizione deformata ma vera della più cruda attualità.

E, in realtà, i castelli dei principi sono locande mascherate dove occorre pagare molto per avere una misera ospitalità, i mulini sono briganti che vivono di vento e di furto, le vergini che si incontrano non sono altro che prostitute travestite, le serve sono meglio delle signore, i soldati sono pecore condotte al macello, e le schiere dei condannati sono sicuramente più innocenti dei loro sbirri. È ciò don Chisciotte, o meglio Cervantes, pensa degli uomini. E la sua storia personale continua, nonostante i sogni, ad essere mediocre e triste. È stata appena pubblicata la prima parte della sua stralunata storia, che viene di nuovo arrestato – innocente – per un assassinio accaduto di notte di fronte alla sua casa, e del quale vengono accusati lui e la famiglia come esecutori. Fa alcuni mesi di prigione, dopodiché, scagionato, torna libero. Ma si può ben pensare con quale animo e quale rancore verso la società.

Dopo il carcere, torna a Madrid, al seguito della corte di Filippo II. Qui, nel 1615, appare la seconda parte del romanzo, mentre anelava invano ritornare in Italia, e dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Era il sogno di un poeta, come in realtà egli fu, perché il Don Chisciotte è anche un’opera di poesia. Lui, Cervantes, viveva di sogni. La vida es sueño, scriverà più tardi Calderón de la Barca: “Qué es la vida? un frenesí; / Qué es la vida? una ilusión / una sombra, una ficción….”.

Così, in quegli anni preziosi per la cultura spagnola, si consumano le contraddizioni di una società splendida e miserabile, dove l’opulenza delle corti e dell’arte si mescolava con il putrideiro della morte rivestita d’oro, degli stracci mescolati a velluti e corone, agli incensi e alle pustole dei bambini che si spulciano, come si può vedere in molte pitture spagnole dell’epoca: Murillo, ad esempio, che dipinge bambini vestiti di stracci e gallegas, prostitute alla finestra, che cercano di attirare i clienti, o una vecchia che spidocchia un bambino, o dei poveri contadinelli affamati, ma dipinge pure Madonne e Santi, in scene di dolcezza mistica e splendori di porpore e di ori; oppure El Greco, che esalta mortificazioni austere e mistici asceti macerati dai tormenti della passione religiosa. La letteratura trova spazio nella celebrazione del Rinascimento che si conclude e del Siglo de oro che inizia, mentre la pittura, per mano di artisti come Velasquez sottolinea ulteriormente le scene di genere dipinte da Juan del Castillo, da Francisco Herrera, da Ribera, da Zurbarán e da altri ancora, insistendo su caratteri e sentimenti, ma anche sulla descrizione della modesta vita quotidiana ripresa anche nei dettagli: canestri di vimini, boccali, tovaglie che conservano ancora la traccia delle piegature con cui erano riposte nella cassapanca, pentole entro cui cuoce la zuppa,  uova che friggono nel padellino di coccio. Eppure questo splendore intriso anche di miseria, di ascetismi e di trionfi sta concludendo il suo aureo itinerario. Carlo V aveva abdicato quando Cervantes aveva otto anni; la potenza spagnola comincia a declinare già sotto Filippo II, poi sempre più sotto Filippo III. Il lento  inizio di questo tramonto sembra avvertito anche da Cervantes, che vive una vita da fallito e descrive la storia di un personaggio pure fallito, che evade nella fantasia: un idealismo utopistico per fuggire la realtà o anche, volendo, un realismo adombrato da figure di spoglia e dimessa umanità.
Dopo aver scritto la seconda parte del suo romanzo, Cervantes vive ancora un paio d’anni. Di lui non si hanno più notizie, se non che sta scrivendo Le pene di Persiles e Sigismonda, sua ultima opera. E in questi giorni di tramonto, lo si potrebbe immaginare come lo rappresentò Honoré Daumier nel 1866: uno stanco e disilluso vecchio, seduto su una sedia in una saletta buia, le gambe scheletriche, il volto macilento, gli occhi profondamente cerchiati di stanchezza.
Pochi libri in terra, a rappresentare la dispersione di quanto la mente ha pensato e che andrà poi  irrimediabilmente perduto con la morte.
Cervantes muore a Madrid il 23 aprile del 1616, ma non dimenticato. Trasfigurato nel cavaliere dell’ideale, cammina ancora nelle strade di Spagna e del mondo, aprendoci - in ogni tempo, nella storia e nella vita, i meravigliosi itinerari della fantasia e della speranza.



                                                                                                    Gian Luigi Zucchini 

domenica 24 aprile 2016

LIU XIAODONG

Liu Xiaodong

Migrazioni


Si è aperta fino al 19 giugno 2016 negli spazi della Strozzina di Palazzo Strozzi a Firenze una grande mostra personale dedicata a uno dei più importanti e originali artisti cinesi contemporanei Liu Xiaodong.

La rassegna “Liu Xiaodong: Migrazioni”, a cura di Francesco Bonami e Giorgio Bernardini (catalogo Marsilio) è costituita da 182 tra disegni e fotografie; 11 dipinti e un video-documentario realizzati specificatamente dall’artista in seguito al periodo di residenza in Toscana tra l’autunno 2015 e la primavera 2016. I soggetti principali delle opere in mostra sono le città di Firenze e Prato e la campagna senese, luoghi osservati e vissuti dall’artista attraverso il contatto diretto con gli abitanti e con un particolare interesse per le locali comunità cinesi.

Nato nella provincia di Liaoning nel 1963 e formatosi a Pechino, Liu Xiaodong è celebre per uno stile pittorico molto personale in bilico tra pittura di storia e cronaca del mondo contemporaneo. Momenti apparentemente banali o eventi quotidiani assumono nella sua arte un’epica monumentalità con grandi tele che diventano fotogrammi di luoghi del mondo segnati da conflitti o tensioni sociali e umane.
Attraverso una pittura sintetica ed estremamente controllata, ma allo stesso tempo emotiva e carica di materia pittorica, i quadri di  Xiaodong riproducono immagini di vita vissuta, quasi sempre scene all’aperto, abitate da uomini e donne che popolano campagne o città in cui il pittore ha scelto di trascorrere un periodo di tempo.
Fondamentale nel suo processo creativo è l’utilizzo della fotografia, utilizzata come strumento di osservazione e modello per la pittura, ma anche come oggetto artistico da esporre insieme ai dipinti e agli schizzi preparatori, testimoniando un’urgenza di interconnessione tra tecniche artistiche e realtà diverse.

All’origine del progetto per Palazzo Strozzi c’è il particolare interesse dell’artista per la comunità cinese di Prato, la più popolosa d’Italia e una delle più importanti di Europa, ormai arriva quasi alla terza generazione. Infine oltre ad altri luoghi intorno a Firenze dove la popolazione cinese è la più diffusa, come San Donnino o Osmannoro, l’artista si è confrontato con il paesaggio classico toscano, dalle colline del Chianti fiorentino e senese. Ispirandosi a questi luoghi ha deciso di realizzare alcune pitture di paesaggio rappresentanti la Toscana “sognata” e “da cartolina” della Val d’Orcia e delle crete senesi.
La mostra a Palazzo Strozzi diviene inoltre l’occasione per una riflessione sulla migrazione dei popoli e il loro rapporto con nuovi territori e ambienti fisici, geografici e culturali, in riferimento anche ai fatti recenti di crisi ai confini dell’Europa, che lo stesso Xiaodong ha visitato a Badrum in Turchia e a Kos in Grecia.
Il progetto di Liu Xiaodong per questa mostra – ma in generale, il suo approccio complessivo alla pratica pittorica – è molto simile a quello dei pittori Macchiaioli, che nella loro osservazione della realtà puntavano a escludere o controllare ogni possibile emozione individuale, mantenendo una sorta di distanza teatrale in modo da rappresentare l’ambiente e i soggetti circostanti senza rischiare di essere in sintonia con loro.
I Macchiaioli e Liu Xiaodong esercitano quella che potremmo definire una forma di pittura empatica, che abbraccia il soggetto senza condividerne l’identità o i problemi. Al contempo, non si può dire che i Macchiaioli e Liu Xiaodong si limitino a documentare quanto sta di fronte o intorno a loro.
Essi ne forniscono un’interpretazione, che tuttavia è legata più allo stile che alle loro espressioni. Manifestano il punto di vista di un osservatore che tenta di capire, senza però spiegare cosa sta guardando. Come i Macchiaioli, Liu Xiaodong non mette in discussione il contesto, si limita a immergervisi. La società cinese che ha trovato a Prato e Firenze non gli è estranea. In un suo dipinto che sembra rappresentare lo studio di un artista o più semplicemente un’officina tessile cinese,

vediamo chiaramente l’approccio di Liu Xiaodong al progetto – quello di inserire mondi, di sovrapporre o creare una realtà parallela con la sua rappresentazione.

Ѐ quanto sta facendo la comunità cinese fin dal suo arrivo in Toscana: non cerca di sostituire la società esistente ma di crearne una parallela.
Rappresenta un gruppo culturale attraverso gli affari, come fecero i Macchiaioli con l’arte. Entrambi sono ed erano interessati alla realtà, non alle metafore.
L’opera di Liu Xiaodong e la sua forza si fondano sulla convinzione che il quadro più ampio venga creato e trasformato da un numero infinito di quadri picolissimi e irrilevanti. Su questi quadri irrilevanti si basa la sua intera produzione.
Il significato della sua opera si richiama a ciò che è all’apparenza insignificante. I Macchiaioli, a conti fatti, furono un movimento marginale, una macchia sulla tela più vasta della storia dell’arte. Tuttavia immortalarono una realtà che alla fine sarebbe
diventata estremamente rilevante nella storia dell’arte e nella struttura economica.

Maria Paola Forlani





martedì 19 aprile 2016

CAPOLAVORI RITROVATI

Capolavori Ritrovati

Della Collezione di Vittorio Cini
Si è aperta con uno straordinario omaggio a Vittorio Cini (Ferrara 20 febbraio 1885 – Venezia 18 settembre 1977) la nuova stagione della Galleria di Palazzo Cini a san Vio, casa-museo, un tempo dimora del grande mecenate, nella quale sono custodite le raccolte di dipinti toscani e ferraresi già nella sua collezione personale. Fino al 5 settembre 2016 gli spazi del secondo piano presentano i più importanti dipinti veneti provenienti dalla sua vastissima collezione – tra cui capolavori di Tiziano, Lotto, Guardi, Canaletto e Tiepolo – opere che sono esposte al pubblico per la prima volta assieme.

Il percorso espositivo ideato per l’occasione dall’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini, diretto da Luca Massimo Barbero, restituisce, attraverso una trentina di capolavori selezionati, la qualità di una raccolta d’arte antica tra le più importanti del secolo scorso e ci permette di conoscere meglio la figura e il gusto
di Cini collezionista, che – con l’aiuto di consiglieri illustri come Bernard Berenson, Federico Zeri e Giuseppe Fiocco – si assicurò i nomi più rappresentativi della scuola veneta, dal Trecento al Settecento.


La pittura del Trecento e del primo Quattrocento veneto è testimoniata in mostra dalla presenza di una nutrita schiera di artisti, da Guglielmo Veneziano a Nicolò di Pietro, dal Maestro dell’Incoronazione a Michele Giambono.

Di Giambono, la cui arte raffinata segna la maturazione del tardo gotico a Venezia (il suo celebre San Cristoforo si trova nella chiesa di San Trovaso), è esposta la straordinaria tavola con San Francesco che riceve le stimmate.
Introduce il Rinascimento invece, la splendida Madonna Speyer di Carlo Crivelli,
rappresentativa dello stile originale, nervoso e incisivo, di questo singolare artista veneziano.

Tra le opere in mostra, accanto a lavori di Cima da Conegliano, Bernardo Parentino, Giovanni Mansueti e Benedetto Diana, spicca per importanza e imponenza la Madonna con il Bambino e i Santi Giovanni Battista e Francesco (1485 circa) del vicentino Bartolomeo Montagna.

Quest’opera, testo cardine della poetica del Montagna – educato sugli esempi di Mantegna, Bellini e Antonello da Messina – e considerato uno dei più alti capolavori della pittura del tempo, è ancor oggi poco conosciuto e la mostra offre un’occasione unica per ammirarlo e studiarlo da vicino.

Un posto a sé in questo itinerario attraverso la pittura veneta, occupa l’enigmatico San Giorgio che uccide il drago di Tiziano, dipinto intrigante e problematico per le sue vicende e la storia critica che l’accompagna, probabile frammento di una pala commissionata a Tiziano dalla Serenissima nella seconda decade del Cinquecento. Nel corso dell’Ottocento l’opera fu attribuita a Giorgione e nei primi decenni del secolo successivo prima a Palma il Vecchio poi ancora a Giorgione, per poi essere definitivamente restituita al grande Tiziano solo recentemente.
Una sezione della mostra è dedicata alla ritrattistica veneta del Cinquecento con un piccolo nucleo di straordinari ritratti maschili ad opera di Bartolomeo Veneto e
Bernardino Licino; tra tutti spicca per fascino e notorietà il bel Ritratto di gentiluomo, forse Fioravanti degli Azzoni Avogardo, una piccola perla della collezione, eseguito da Lorenzo Lotto.


A fare la parte del leone è però il Settecento che presenta un trionfo di capolavori dei principali rappresentanti di quel secolo d’oro della pittura veneziana – Canaletto, Antonio e Francesco Guardi – spia del sorprendente e intelligente gusto collezionistico di Cini. Mirabili sono due Capricci di Canaletto, tele di grande formato considerate due dei più celebri capricci giovanili dell’artista: creazioni poetiche che presentano un mondo di fantasia, vedute ideali nelle quali, immersi in una luce calda, emergono fatiscenti ma ancora maestose rovine classiche.


In dialogo con le tele di Canaletto sono esposti quattro sublimi Capricci di
Francesco Guardi e, ad arricchire il panorama della pittura veneziana del Settecento, due piccoli bozzetti per pale d’altare di Giambattista Tiepolo. Di Antonio Guardi –
del quale sono in mostra anche due delle sue famose ‘turcherie’ – sono visibili eccezionalmente tre album di disegni, noti come cosiddetti ‘Fasti veneziani’, che raccolgono 58 fogli che illustrano fatti della storia di Venezia: prove grafiche di altissima qualità contraddistinte da un linguaggio stilistico che asseconda la genuina vena rococò del pittore. Lo stesso gusto che ritroviamo nelle tre grandi tele dell’artista che in origine decoravano un soffitto di Palazzo Zulian a San Felice
che sarà possibile vedere nuovamente dopo molti anni. Tra le prove più alte della pittura decorativa veneziana, le tre tele, raffiguranti Vulcano (il Fuoco), Nettuno
(l’Acqua) e Cibele (la Terra), databili al 1757 circa, sono realizzate con una pennellata sciolta e guizzante.





Vittorio Cini, dunque, è stato uno dei più grandi collezionisti d’arte antica del Novecento. L’assunto è comprovato dalla storiografia, che negli anni ha messo in luce il gusto raffinato di un uomo votato al culto della bellezza e dell’arte.

A testimoniarlo resta la sterminata raccolta di dipinti, sculture, oggetti d’arte decorativa, espressione di un interesse vastissimo per ogni espressione della creatività umana, e i due luoghi che serbano l’immagine più autentica di Cini collezionista: il Castello di Monselice e la Galleria di Palazzo Cini sul Canal Grande, nata nel 1984 grazie alla generosità degli eredi del conte e alla lungimiranza della Fondazione Giorgio Cini.


Resta il doloroso abbandono della Casa natale del Conte Cini a Ferrara.
Un tempo luogo di convegni, mostre e potenziamento delle prestigiose biblioteche ivi conservate e donate dai direttori che hanno guidato l’Istituto con amore, sempre affollate di giovani.

 Quell’Istituto di Cultura “Casa Vittorio Cini” ora non c’è più. La diocesi (a cui l’edificio medioevale era stato affidato) ha preferito farne uno pseudo condominio di ambigue affittanze, cacciando i giovani che la vivevano, chiudendo le preziose biblioteche e alienando le collezioni d’arte. Uno specchio di decadenza del gusto e della cultura, un oltraggio, di un’infamia consumata ai danni della città che quel luogo amava. Una violenza diretta alla memoria del grande ‘mecenate’ (che l’aveva donata a Ferrara, alla cultura, e ai giovani), verso chi in anni trascorsi  (come i Padri gesuiti, don Franco Patruno e don Francesco Forini) avevano raccolto collezioni d’arte contemporanea (destinate a diventare un ricco museo patrimonio della diocesi) e soffuso in quelle stanze atmosfere di solidarietà e grande amore nell’ascolto e nell’accoglienza del pubblico assetato di conoscenza, ma, soprattutto, di giovani, vivaci interpreti della ricerca. Siamo nelle mani di persone che non hanno il senso di quello che hanno fatto (depauperando, nei suoi contorni architettonici un bene di così grande levatura e privando la comunità ferrarese di tale ’dono’), del valore delle cose, dell’importanza di conservare ciò che di bello è stato realizzato da persone di grande levatura e che di Ferrara hanno fatto la storia.
Resta lo splendore di  Palazzo Cini a San Vio tra le luci e i riflessi di Canal Grande in una Venezia che accoglie con armonia i suoi visitatori,  nel ricordo di chi alla cultura ha creduto veramente.

Maria Paola Forlani