lunedì 31 ottobre 2016

Storie dell'Impressionismo

STORIE

Dell’ IMPRESSIONISMO
I grandi protagonisti da Monet a Renoir da Van Gogh a Gauguin

Ѐ tutto un grande mistero!
Per voi che pure volete bene al piccolo principe, come per me, tutto cambia nell’universo se in qualche luogo, non si sa dove, una pecora che non conosciamo ha, sì o no, mangiato una rosa. Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore? E vedrete che tutto cambia…Ma i grandi non capiranno mai come questo abbia tanta importanza.
Antoine de Saint - Exupéry




Si chiama “Storie dell’Impressionismo” la mostra aperta al Museo di Santa Caterina fino al 17 aprile 2017, curata da Marco Goldin per festeggiare i vent’anni di Linea d’ombra, la sua “creatura” attraverso cui ha organizzato tantissime mostre che hanno raccolto ben 10 milioni di visitatori, partendo proprio  da Treviso dove ora  è ritornato come protagonista ad operare.

La mostra è raccontata in 140 opere (soprattutto dipinti, ma talvolta anche fotografie e incisioni a colori su legno) e sei capitoli, con un forte intento di natura didattica. Per dire in ogni caso non solo quel mezzo secolo che va dall’Ottocento fino ai primissimi anni del Novecento, ma anche quanto la pittura in Francia aveva prodotto, con l’avvento di Ingres a inizio Ottocento, nell’ambito di un classicismo che sfocerà, certamente con minore tensione creativa, nelle prove, per lo più accademiche, degli artisti del Salon. Ma anche, con Delacroix, entro i termini di un così definito romanticismo che interesserà molti pittori delle nuove generazioni, fino a Van Gogh.
L’esposizione è suddivisa in sei sezioni, che consentono al visitatore di percorrere un cammino tra capolavori che hanno segnato una delle maggiori rivoluzioni nella storia dell’arte di tutti i tempi.

Il percorso inizia con Lo Sguardo e il silenzio
Percorso del ritratto da Ingres a Degas a Gouguin
Scrive Ingres: <<Voglio però che si sappia che ormai da tempo le mie opere riconoscono solo la disciplina degli antichi, dei grandi maestri del secolo di gloriosa memoria in cui Raffaello fissò i confini eterni e indiscutibili del sublime dell’arte.>>
Il riferimento all’antico, e in modo particolare a Raffaello, è costante nell’opera di Ingres, ed è per questo motivo che in mostra si vede, quale segno distintivo, una copia proprio dell’autoritratto di Raffaello conservato agli Uffizi.
Per tale circostanza la presenza di Ingres, al principio dell’esposizione,  trova il suo centro piuttosto che nelle opere più sfarzose della maturità, nell’evidenza quasi dialettale dei volti da lui dipinti nel primo decennio dell’Ottocento, in un età di poco superiore ai vent’anni.


Sono quadri come questi, posti quale incipit a capo di tutto il percorso, che mostrano quell’attitudine a un realismo anche silenzioso e segreto che sarà importante per pittori come Courbet e poi Manet, Degas, Renoir, tutti intenti a dipingere la verità e l’assoluto di un volto colmo d’anima.
Prima che tutto sia terremotato dall’ingresso sulla scena di Van Gogh e Gauguin, i quali puntando ogni loro fiche sulla resa antinaturalistica del reale, segnano uno scarto ulteriore, e ormai proto novecentesco nella pittura.


Per stare nella natura

Quando al Salon del 1852, Courbet presenta Le ragazze del villaggio, si attua una vera e propria rivoluzione, nel realizzare una scena di vita vera, ambientata nella regione della Franca Contea natale. Non è un caso che la sezione ponga vicine ai quadri “nuovi” anche alcune opere che ci fanno comprendere come gli anni sessanta dell’Ottocento fossero ancora un decennio in cui persisteva una stretta convivenza degli stili. Per cui alle figure ambientate dei pittori del naturalismo di Barbizon – da Troyon, a Millet, a Corot – si affiancavano quelle dei pittori del Salon, a cominciare dal suo divo, Bouguereau, ma anche quelle dei primi impressionisti, per dire già delle bellissime spiagge normanne di Boudin, tutte sparse, nella luce del temporale imminente o del tramonto avvenente, di figure soprattutto femminili sulla riva del mare.
Con la linea ferroviaria che finalmente collega Parigi a Le Havre e Honfleur, con la costruzione delle case di vacanza per i parigini ricchi, con l’apertura di alberghi e casinò a ridosso delle spiagge. Ѐ quella che venne appunto definita la vie moderne, che apre definitivamente la strada delle opere che seguiranno di Pissaro, Renoir, Monet.  Tutti loro impegnati a rendere l’esperienza intima della vita all’aria aperta, soprattutto nella dimensione del giardino, come Monet ci mostra in modo meraviglioso nel suo capolavoro del 1873, La casa dell’artista ad Argenteuil.

Nel Novecento a passi veloci (ma in silenzio)


Nel primo decennio del XX secolo, mentre era intento al suo poema così variato delle ninfee, Claude Monet rese tra le altre questa dichiarazione: << Quelli che dissertano sulla mia pittura, concludono che sono giunto all’ultimo grado di astrazione e di immaginazione legato al reale. Sarei più lieto se volessero riconoscervi il dono, l’abbandono totale di me stesso.>> Ѐ lo sprofondamento sempre più accentuato, e quasi cieco dentro la materia del colore, per colui che era partito dalla registrazione del dato di natura. Mentre Cézanne, soprattutto nell’ultimo decennio della sua vita, dà luogo alla costruzione quasi eroica delle forme, siano esse natura morta, volti e figure o paesaggio.

Alla fine della mostra il percorso presenta solo alberi. Alberi di Cézanne e alberi di Monet.
Su un’unica parete, due quadri. Il primo dipinto in Provenza a Chȃteau Noir e il secondo nel giardino di Giverny. Negli alberi di Cézanne non c’è più trama, più racconto, nulla di più se non l’atto del vedere e la sua trasformazione in nucleo della realtà. Il tornare a quel punto interno e invisibile che costituisce l’architettura stessa del mondo naturale.


Gli alberi di Monet attuano certamente una delle visioni più radicali ed estreme da lui operate nello scorcio finale della vita, prima delle Grandi decorazioni.
Il pittore non accetta più la visione convenzionale, ma ricerca la prospettiva dell’anima. Tutto si schiaccia contro i suoi occhi e la materia di quei rami, e di quell’acqua che sale dallo stagno in riflessi, è poltiglia alata, materia che occupa tutto lo spazio. Il vuoto è dentro la materia e la materia è pieno e vuoto  insieme, in una stordente profondità di superficie, come aveva fatto per vie diverse lo stesso Cézanne.
Annullando l’idea del luogo, e dipingendo invece tutto il tempo dentro lo spazio, Cézanne e Monet aprono con la loro arte fenomenale al XX secolo.


Maria Paola Forlani

sabato 29 ottobre 2016

RUBENS

Pietro Paolo

Rubens
E la nascita
Del Barocco


A Milano  nei saloni nobili di Palazzo Reale si è aperta, fino al 26 febbraio 2017, la mostra Pietro Paolo Rubens e la nascita del Barocco, a cura di Anna Lo Bianco (catalogo Marsilio).

Per Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640) l’arte è la forma visibile di una struttura unitaria che stringe l’uomo e il mondo, la storia collettiva e l’esistenza degli individui. Una struttura governata da due autorità entrambe legittime e necessarie, l’autorità del sovrano e quella della Chiesa. Due poteri al servizio dei quali egli lavorò e produsse per tutta la vita, in questo tanto simile a Bernini e a Velàzquez e sideralmente distante da grandi suoi contemporanei come Rembrandt o Vermeer.

Con Bernini e Rubens il barocco riceve la sua consacrazione, con loro giunge al culmine. Soltanto Rubens e Bernini, in un momento della storia lacerato e convulso quale fu quel secolo, riescono a fondere la tradizione religiosa del Medio Evo, la cultura figurativa dell’Umanesimo, l’idealizzazione allegorica del potere.
Se per Bernini questo appare quasi naturale, nel contesto del secolare rapporto fra arte e Chiesa a Roma, per Rubens si tratta di una scelta fra diverse, possibili opzioni.
I Paesi Bassi erano infatti lontani dalla sede del Papato, la borghesia finanziaria e mercantile vi occupava un ruolo ben più elevato che a Roma e nell’Italia tutta, e la pittura cominciava a rivolgersi al consumo privato, a diversificarsi in generi, a specializzarsi e a rimpicciolirsi nelle dimensioni e nelle intenzioni. Rubens avrebbe potuto diventare un ritrattista, un paesaggista, un pittore di storia o di nature morte o il cronista arguto della vita fiamminga. Sceglie invece la strada della totalità e decide di essere tutto: decoratore e ritrattista, pittore di storia e di fede, creatore di un universo visivo e concettuale che non ammette fratture, gerarchie di valore e di manifestazioni. Questa la sua grandezza, questa la radice della sua straordinaria personalità, anche umana, nel contesto dell’arte fiamminga, che con Rubens esce dai propri confini e dilaga per tutta Europa, ponendo semi della stagione decorativa che troverà in Giambattista Tiepolo l’estremo, sublime interprete.

Per rendere chiaro e lineare questo tema complesso la curatrice della mostra, ha selezionato un gruppo di opere assolutamente esemplari, con confronti il più possibile evidenti tra dipinti di Rubens, sculture antiche, opere di alcuni grandi protagonisti del Cinquecento e di artisti barocchi: un corpus di oltre 70 opere, di cui 40 del grande maestro fiammingo, riunito grazie a prestiti provenienti da alcune delle più grandi collezioni italiane ed internazionali.


Il viaggio in Italia per Rubens costituisce non tanto un’esperienza tecnica quanto l’occasione per immagazzinare i dati e le suggestioni di un patrimonio cui attingere per tutta la vita, un deposito di memorie e di pensieri ai quali ritornare e dai quali ripartire, sempre dagli anni giovanili fino alla gloriosa vecchiaia. Michelangelo a Roma, Tiziano a Venezia e nelle collezioni spagnole, Correggio a Parma, Giulio Romano a Mantova. Ma non solo: anche i portati rivoluzionari di Caravaggio, il classicismo eroico di Annibale Carracci e l’orchestrazione delle superfici di Veronese entrato nel suo bagaglio.

La mostra divisa i quattro sezioni tematiche: Nel mondo di Rubens; Santi come eroi,
Pittura sacra e Barocco; La furia del pennello; la forza del mito, dove le opere del maestro sono accostate a quelle degli artisti italiani – per scorgerne le affinità e i debiti – e a esemplari di statuaria classica, noti a Rubens, che vi si ispira liberamente.
Quando il maestro lascia l’Italia e si accinge al ritorno in Anversa, nel 1608,  Rubens ha accumulato una cultura vastissima, che sa scegliere il meglio ovunque si trovi.
Per questo appare subito come l’artista deputato, predestinato quasi, alla riedificazione della pittura nei Paesi Bassi meridionali, dove la Chiesa e il potere intendono riaffermare di fronte al laicismo borghese e all’iconoclastia protestante il valore educativo delle immagini.

IL prestigio acquisito negli anni italiani, la vastità della cultura e la sovrana maestria esecutiva permettono a Rubens di dialogare da pari a pari con i potenti che richiedono il suo lavoro. Ne è prova la libertà di movimento accordatagli, a cominciare da quella di risiedere ad Anversa pur essendo il pittore di una corte stabilita a Bruxelles. Ne è prova la sua attività diplomatica, che lo vede inviato degli arciduchi in tutta Europa a trattare mediazioni, alleanze, finanziamenti, acquisti di opere d’arte. Proprio nel momento in cui a Roma la colonia degli artisti fiamminghi e tedeschi – per i quali l’esempio di Caravaggio è soverchiante – inizia a delineare la figura dell’artista come individuo slegato da ogni responsabilità pubblica e ideologica, nelle Fiandre Rubens assume con piena coscienza il ruolo pubblico, e il conseguente peso morale, del grande funzionario, del rappresentante ufficiale.


Ma Rubens è uomo libero, integro e pienamente consapevole di quanto fa, scrive, dice, dipinge. Un’armonia psicologica che sostiene e sostanzia in primo luogo la sua arte, ma anche la sua serena esistenza.


Come afferma Jacques Lassaigne “Quale privilegio è riservato ai grandi artisti! La magia dei pennelli di Velàzquez è sufficiente a far dimenticare le ombre nelle quali si immerge la monarchia spagnola. Del pari, la vita generosa che sgorga dalle creazioni di Rubens dà una promessa di rinnovamento al secolo più fosco della storia delle Fiandre….e gli conferisce nella memoria lo splendore dell’età dell’oro…”





Maria Paola Forlani 

venerdì 28 ottobre 2016

PINACOTECA DI FERRARA

Pinacoteca Nazionale di Ferrara:
Riapertura al pubblico delle sale del Cinquecento


Non è possibile isolare la Pinacoteca Nazionale dalla sua sede storica, il palazzo dei Diamanti, esemplare dimora principesca del Rinascimento italiano e immancabile punto di riferimento per tutta l’architettura tardoquattrocentesca.
 Il palazzo sorge all’incrocio fra la vecchia via degli Angeli (l’attuale corso Ercole I) e la via dei Prioni (oggi corso Biagio Rossetti) nella parte moderna della città voluta da Ercole I d’Este alla fine del Quattrocento.


Nel 1842 il Comune di Ferrara acquistò dagli eredi della famiglia Villani il palazzo dei Diamanti, al fine di sistemarvi la Pinacoteca, costituita sei anni prima, e l’Ateneo Civico. Da quel momento le sorti del patrimonio artistico cittadino furono legate a questo edificio, divenuto per la cultura locale una sorta di simbolo della signoria estense, considerata l’età dell’oro di Ferrara in contrapposizione ai secoli della dominazione pontificia. Se tale scelta era in effetti giustificata dall’importanza architettonica e urbanistica del palazzo, episodio centrale dell’Addizione Erculea, è singolare osservare che l’edificio si trovò anche al centro dell’estrema vicenda estense a Ferrara. Infatti a partire dal 1586 il palazzo fu residenza di Cesare d’Este, cugino del duca Alfonso II e suo successore a causa della mancanza di eredi diretti, che in seguito alla devoluzione di Ferrara al papa nel 1598 dovette abbandonare la capitale del ducato e trasferire la corte a Modena. La documentazione relativa a questi anni ci informa con una certa puntualità sui cospicui lavori di decorazione intrapresi da Cesare, che fanno seguito a un trentennio nel quale il palazzo era appartenuto al cardinale Luigi, quasi sempre assente da Ferrara.


Fu proprio alla morte del cardinale (nel 1586) che Cesare ereditò il palazzo, nel quale andò ad abitare insieme alla moglie Virginia de’ Medici, figlia di Cosimo I e di Camilla Martelli, che sposò a Firenze nel febbraio dello stesso anno. Al ritorno a Ferrara il matrimonio fu festeggiato in palazzo dei Diamanti con un torneo a piedi nella sala grande e corte bandita per otto giorni.
Il palazzo, pur avendo subito manomissioni nel corso della sua storia, conserva fortunatamente ampie tracce delle decorazioni commissionate da Cesare. Al piano nobile dell’edificio, dove si snoda il percorso della Pinacoteca Nazionale, sono riconoscibili alcuni ambienti di cui i documenti ci danno notizia. In particolare si conserva l’ampio salone che fu teatro dei festeggiamenti per il matrimonio di Cesare, in cui sono esposti affreschi staccati da alcune chiese ferraresi.
La straordinaria carpenteria del soffitto, un cassettonato risalente alla seconda metà del XVI secolo, è pressochè unica per le sue dimensioni.

Le due porte che si aprono sulla parete sud del salone immettono nell’ala della Pinacoteca in cui sono esposte opere del Cinquecento, prevalentemente di scuola ferrarese. I primi tre ambienti di quest’ala, che si affaccia su corso Rossetti (l’antica via di San Benedetto), costituivano l’appartamento di Virginia de’ Medici.
Vi si conserva parte della decorazione realizzata negli anni di Cesare: ciascun ambiente reca un ricco cassettonato e un fregio in parete con ornati a grottesche. Gli sfondati del soffitto delle prime due stanze furono privati già in antico dei dipinti che vi erano inseriti.

Queste sale si sono riaperte dopo lungo lavoro di restauro e si presentano al visitatore in un allestimento più moderno, con nuovi colori alle pareti e una diversa disposizione delle opere.
La riapertura delle sale chiude un cantiere durato più di quattro anni e passato attraverso diverse fasi. All’indomani del terremoto del maggio 2012, per permettere il risarcimento delle grandi lesioni prodottesi nella parete cui è addossato il polittico Constabili, è stato necessario smontare l’imponente pala d’altare. Oltre a permettere nuove indagini sull’opera, i cui risultati sono stati esposti in una mostra, l’intervento ha permesso di collocare all’interno di una struttura posta alle spalle del polittico la centrale di un nuovo impianto di condizionamento e riscaldamento in grado di assicurare il rispetto dei moderni standard conservativi museali nelle cinque sale dell’ala del palazzo affacciatesi su corso Biagio Rossetti.


Una terza fase dei lavori avviati nel febbraio 2015 grazie a un cospicuo finanziamento del MiBACT, ha permesso il rinnovamento delle strutture tecnologiche di questa sezione della Pinacoteca e in particolare dell’impianto d’illuminazione, e di procedere a un completo riallestimento delle collezioni, dopo aver tinteggiato le pareti e rimodernato le sale eliminando il disturbo estetico provocato da interventi ormai obsoleti. Il controsoffitto della sala Costabili, concepito negli anni Sessanta dall’architetto Pancaldi, è stato parzialmente ripristinato e adeguato alle moderne tecnologie di aerazione e illuministica e ora permette di combinare un’illuminazione zenitale diffusa con una specificatamente dedicata a ciascuno dei preziosissimi dipinti esposti in sala.


Il percorso di visita culmina con il grandioso polittico dipinto da Garofalo e Dosso per Antonio Costabili, complesso cantiere artistico le cui fasi e la cui interpretazione simbolica sono ancora dibattute dalla critica. La sala si presenta ora al visitatore interamente ripensata per offrire nuove letture e nuovi confronti fra le opere dei due maggiori pittori del Rinascimento estense. Essa è anticipata da un piccolo ambiente in cui sono affiancate opere eseguite dai due artisti prima e dopo il lavoro comune al polittico e si prospetta al pubblico il problema critico della fase giovanile dell’attività di Dosso, grazie all’esposizione della tavola raffigurante Il banchetto di Erode, recentemente acquistato dal MiBACT per la Pinacoteca ferrarese.



Maria Paola Forlani