domenica 26 febbraio 2017

Comunicato stampa

Casa di Ludovico Ariosto
Via Ariosto, 67 – Ferrara


Nell’ambito della mostra di Don Franco Patruno
La Libertà di dire,
la verità di fare


Sabato 11 marzo alla ore 16
Concerto per Franco
del duo Claudio Miotto (clarinetto)
E Paolo Rosini (chitarra)


Claudio Miotto, diplomato in clarinetto nel 1984 presso il Conservatorio di Musica “G.Frescobaldi” di Ferrara, si dedica all’attività concertistica suonando in diverse formazioni (dal duo all’orchestra sinfonica). Si è perfezionato con Scarponi, Arbonelli e Meloni (primo clarinetto alla Scala di Milano), curando particolarmente il repertorio contemporaneo. Si è distinto in numerosi concorsi nazionali ed internazionali, conseguendo il 1ͦ Premio a Macerata, Barletta, Ancona e Stresa.
Ѐ docente titolare di clarinetto presso gli Istituti Comprensivi “F.De Pisis” e “G.Perlasca” di Ferrara, nell’ambito dei corsi ad indirizzo Musicale.

Paolo Rosini si è diplomato nel 1990 con il massimo dei voti presso il Conservatorio “G.Frescobldi” di Ferrara sotto la guida di Roberto Frosali al Conservatorio di Ferrara e perfezionato con Borghese e Brouwer. Ѐ attivo come solista e in diverse formazioni cameristiche, svolgendo attività concertistica in Germania, Austria, Spagna, Croazia e Cile. Apprezzato compositore ha vinto tra gli altri il 1 ͦ Premio al Concorso Nazionale di Composizione per la Didattica della Musica di Ferrara, il III Premio al Concorso Internazionale Paolo Barsacchi di Viareggio; numerose sue composizioni chitarristiche sono state pubblicate da prestigiose case editrici estere.
Ѐ docente titolare di chitarra presso l’Istituto di Istruzione Secondaria “A.Manzi”

di S. Bartolomeo in Bosco (FE) – Scuola Secondaria di I grado ad indirizzo Musicale di Voghiera.

sabato 25 febbraio 2017

BELLINI E BELLINIANI

Bellini e i belliniani

Dall’Accademia dei Concordi di Rovigo


Promossa dal Comune di Conegliano e da Civita Tre Venezie, la mostra
Bellini e belliniani. Dall’Accademia dei concordi di Rovigo a cura di Giandomenico Romanelli (catalogo Marsilio) prosegue le esplorazioni sulle trasformazioni dei linguaggi della pittura veneziana e veneta negli anni magici tra Quattro e Cinquecento.
Il più grande rinnovatore della pittura veneziana di cui ricorre il quinto centenario della morte è, certamente,  Giovanni Bellini (Venezia, 1425 – 30 – ivi, 1516), talvolta detto <<Giambellino >>.

  Educatosi nella bottega paterna, egli sente però il bisogno di più ampie
conoscenze, di studi approfonditi sui  maggiori artisti apportatori di novità rinascimentali, sia su quelli che hanno lasciato tracce a Venezia, come Andrea del Castagno nella Cappella di San Tarasio in San Zaccaria, sia su quelli che operano fuori, da Piero della Francesca e di Roger Van der Weyden (che può aver visti a Ferrara) al Mantegna, i rapporti col quale si fanno poi più stretti per il matrimonio di quest’ultimo con la sorella di Bellini, Nicolosia.
Dunque il ceppo da cui proviene e prende le mosse è quello di Jacopo. Da lui, disegnatore sublime e pittore di vaglia con incarichi ufficiali, nascono Gentile e Giovanni. Ma già il fratello, egli pure Giovanni, è pittore, seppur di non chiarissima sostanza. Anche il figlio di una sorella di Jacopo esercita la professione, si tratta di quel Leonardo che si afferma come miniaturista di gran classe.
 Famiglia -  laboratorio, quindi anzi due. Se infatti Gentile, che sale a chiara fama per le sue scene “storiche”, cioè i grandi teleri con le vite dei santi e gli episodi di storia veneziana oltre che per la sua attività di ritrattista, erediterà la bottega paterna. Giovanni ne apre una in proprio.

La definizione di atelier, o laboratorio o bottega nasce proprio dal fatto che quella dei Bellini dovette essere un’azienda ben strutturata, ricca di presenze come aiuti, collaboratori, discepoli, allievi e garzoni, il cui ruolo e le modalità di esercizio della comune professione si viene di recente illuminando anche se ancora persistono incertezze e zone d’ombra che non sempre risulta agevole dissipare. Chi faceva e cosa? Con quale grado di autonomia, con una divisione del lavoro orizzontale o verticale?
Ѐ quello che  i curatori e gli studiosi si sono chiesti affrontando la questione proprio dei belliniani, quindi l’insieme del mondo composito formatosi, da dentro o da vicino, attorno al capo bottega, riprendendone, di certo con la sua approvazione e forse collaborazione, moduli, tipologie, strutture compositive, linguaggio, tematiche.
Per la mostra di Conegliano i curatori lo hanno fatto partendo dalle collezioni della pinacoteca annessa  all’Accademia dei concordi di Rovigo che formatasi per generosa donazione soprattutto dei conti Casilini nel primo Ottocento, riflette con fedeltà il gusto e le mode dell’epoca, anche nella riscoperta dei cosiddetti primitivi oltre che agli artisti quattrocenteschi, una moda che ebbe proprio a Venezia, tra i suoi più ascoltati seguaci, personalità tra loro agli antipodi sociali e culturali ma convergendo in questo gusto collezionistico, quali Carlo Lodoli e Leopoldo Cicognara.

Ecco allora alle prese con personalità che escono dalla bottega di Bellini, ovvero che questa bottega frequentano per poi affrancarsi, ovvero ancora che utilizzano materiali di laboratorio (schizzi, disegni, modelli, cartoni, spolveri…) per trarre copie o rielaborazioni dai prototipi belliniani.

I nomi sono più o meno celebri oggi, ma non sono nomi da poco, non sono insomma, dei dilettanti che si rivolgono alla pittura, ma personaggi ben inseriti in un mercato che fu florido, articolato e con solidi legami con una committenza di differente composizione e possibilità economiche. Lo si riscontra nei prodotti finiti, con eccellenze e magari qualche caduta qualitativa.
I nomi: Girolamo da Santacroce, Marco Bello, Nicolò Rondinelli, Pasqualino Veneto, Francesco Bissolo, Bernardino Licino…Ma anche personalità della statura di Andrea Previtali o, seppur di certo non belliniano in senso proprio, il grande Palma il Vecchio, fino a Tiziano, che per quella bottega passò traendone tutto il succo che ne poteva spremere. E forse non si può dimenticare che anche Cima da Conegliano e Giorgione e Sebastiano del Piombo rappresentano altri possibili esiti del magistero belliniano.

Nella collezione rodigina spicca la raffinata tavoletta della   Madonna con il Bambino, opera firmata  dal maestro <<IOANNES BELLI / NVS>>.
Giovanni Bellini è considerato a ragione, l’inventore di immagini per la devozione privata (Andachtsbilder), un genere pittorico intimo che avrà enorme risonanza nella pittura veneta tra fine del Quattrocento e la prima metà del secolo successivo. In particolare le sue Madonne con il bambino, così innovative nello stile, anche se tradizionali nel soggetto e nel significato, diverranno i soggetti più replicati da scolari ed epigoni. Dal sapore familiare e coinvolgenti emotivamente, le Madonne belliniane si caricano di una valenza simbolica allusiva al destino del Salvatore: il parapetto marmoreo sul quale il Bambin Gesù viene adagiato anticipa sia il sepolcro che l’altare, evidenziando così metaforicamente la funzione salvica ed eucaristica di Cristo.
Anche l’ Imago Christi, tra i modelli belliniani per la devozione privata ebbe una particolare fortuna compositiva, soprattutto, nel Cristo portacroce, documentata da una serie di esemplari autografi e dalla ricca produzione degli artisti operanti nell’orbita belliniana. L’esemplare rodigino appartiene alla produzione tarda di Giovanni: la resa morbida della materia pittorica e la trattazione atmosferica della luce sono il risultato delle contaminazioni con i pittori della nuova generazione, in particolare con il tonalismo giorgionesco. Il ritratto di straordinaria umanità che ci restituisce l’artista è teso a concentrare la nostra riflessione sul volto sofferente di Cristo. Lo sguardo intenso, magnetico, con gli occhi arrossati, esprime un dolore interiorizzato e portato con estrema dignità. Superba è la resa della veste candida e luminosa aperta sul collo e increspata sulle braccia.

Maria Paola Forlani

venerdì 24 febbraio 2017

COSTRUIRE IL NOVECENTO

Costruire il Novecento

Capolavori della Collezione Giovanardi


Il collezionista riunisce ciò che è affine;
in tal modo può riuscirgli di dare ammaestramenti sulle cose
in virtù della loro affinità, o della loro successione
nel tempo.
Benjamin 1986.


La raccolta di opere di Augusto e Francesca Giovanardi ha preso forma nella Milano dell’immediato secondo dopoguerra, grazie alla passione verso la pittura del Novecento italiano e all’impegno sociale dell’illustre scienziato e docente di Igiene presso l’Università di Milano.

La collezione è una testimonianza eccellente di quello straordinario momento storico e culturale durante il quale imprenditori e importanti personalità della società italiana, in particolare milanese e torinese, dedicarono il loro impegno all’arte e alla cultura, non solo per passione personale, ma con fini sociali ed etici. Basti ricordare i nomi di Raffaele Mattioli, Riccardo Juker, Jesi, Boschi, Vitali, il cui sentimento di responsabilità nei confronti della comunità si è espresso attraverso importanti lasciti e comodati a musei pubblici della parte più rappresentativa delle loro raccolte.
La mostra Costruire il Novecento. Capolavori della Collezione Giovanardi, si è aperta a Bologna a Palazzo Fava – Palazzo delle Esposizioni fino al 25 giugno 2017 ed espone la Collezione nella sua interezza, novanta dipinti realizzati dai migliori pittori italiani, attivi tra le due guerre mondiali. Promossa da Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Genus Bononiae. Musei della Città, la mostra è curata da Silvia Evangelisti (catalogo Bononia University Press).

L’esposizione si articola in tre sezioni, ciascuna dedicata ad un tema che approfondisce le opere di due o più artisti nel cui linguaggio artistico si possono trovare assonanze (o dissonanze) comuni: Licini e Morandi. Un rapporto controverso; La pittura costruttiva del Novecento italiano: Campigli, Carrà, Sironi e Oltre la forma: il sogno e la terra.
Giorgio Morandi e Osvaldo Licini, sono due tra i più importanti maestri del ‘900, genio già venerato in vita il primo, meno famoso ma pittore amatissimo il secondo. Furono amici nella giovinezza e “nemici” nella maturità, avendo instaurato un rapporto di contiguità sfociato poi in scelte stilistiche agli antipodi.
Si conoscono all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove studiano accanto a Mario e Severo Pozzati, Giovanni Romagnoli, Mario Tozzi e Antonio Sant’Elia.
Condividono in quegli anni idee e pittura, Morandi e Licini furono protagonisti della famosa esposizione “futurista” di un sol giorno, tenutasi all’Hotel Baglioni tra il 21 e il 22 marzo 1914.

La mostra prende avvio da questo rapporto giovanile, da queste opere, per poi dispiegarsi confrontando le esperienze e le scelte dei due Maestri che si fanno via via divergenti: mentre la pittura morandiana mantiene una fondamentale unità e misura, quella di Licini è sempre più libera dai rapporti naturalistici, fino ad aprirsi all’astrattismo durante agli anni Trenta.
Dopo la guerra l’abisso si fa ancora più profondo: Morandi rimane legato alla sua città e ad una quieta vita “borghese” mentre Licini è esempio di anticonformismo, attratto dall’Europa, soprattutto in seguito ai soggiorni parigini durante i quali stringe amicizia con Amedeo Modigliani ed entra in contatto con l’avanguardia internazionale.
Al contrario Morandi vive forte il contatto con la pittura del Novecento. Dopo i primi approcci con la metafisica e un lungo periodo all’insegna dell’inquietudine, nel 1935 vince il premio alla Quadriennale di Roma che inaugura un decennio felice: la perfezione è ritrovata, la sicurezza raggiunta. Torna la luce solare e compare anche qualche colore brillante.

Nella seconda sezione “La pittura costruttivista del Novecento italiano: Campigli, Carrà, Sironi” viene esaltato il rapporto tra pittura ed architettura e le reciproche influenze. Nel clima di “ritorno al mestiere” tipico di quel periodo, il richiamo alla materia pittorica dell’affresco è elemento comune a molti artisti all’aprirsi del nuovo decennio. In questi anni, nei grandi cantieri favoriti dal regime fascista, si aprono nuove opportunità per la pittura murale e il mosaico, dalla “Prima Triennale” di Milano nel ’31, alle grandi decorazioni dei nuovi Palazzi di Giustizia, dalle stazioni alle università agli uffici pubblici, si susseguono per tutti gli anni Trenta commissioni di estrema rilevanza a cui partecipano artisti come De Chirico, Severini, Campigli e Sironi.

La pittura di Massimo Campigli, fatta di materia pittorica pastosa e tenera che si rifà all’affresco, ha la sua struttura portante nello spazio architettonico indagato plasticamente nell’equilibrio compositivo, nel senso tridimensionale delle sue figure dalle sagome esatte, ispirate a un’antichità strappata al mito e riportata alla quotidianità della vita corrente. Diversamente dai suoi compagni di strada, Campigli rivisita l’arte etrusca, la pittura pompeiana, l’arte bizantina non con spirito archeologico ma con la fascinazione di ritrovare nell’antico le radici del contemporaneo.

Ad una concezione pittorica spaziale architettonica approda anche Carlo Carrà quando chiusa l’avventura futurista, nel 1916 pubblica su “La Voce” due famosi scritti (Paolo Uccello costruttore e Parlata su Giotto) e muta radicalmente il proprio linguaggio dalla scomposizione avanguardista della forma ai nuovi valori solidi delle opere degli Anni Venti (San Giorgio Maggiore, 1926, La barca 1928, in Collezione Giovanardi).
Sempre più, nelle opere degli anni Trenta e Quaranta, la concezione spaziale della composizione diviene centrale e la sintesi formale prende il sopravvento sul puro dato emotivo ( Marina con albero, 1930, Nuotatori, 1932 e Marina, 1940 tutte Collezione Giovanardi).

Nella terza sezione “Oltre la forma: il sogno e la terra” il tema fondamentale è la messa in crisi del realismo da parte dei grandi protagonisti dell’arte italiana alla fine degli Anni Trenta.
Nella seconda metà di quel decennio si avverte nelle opere dei pittori e degli scultori uno sfaldamento della plasticità formale, pur all’interno di generi classici perfettamente codificati e ripetutamente indagati, come il ritratto, il paesaggio o la natura morta, in favore di ricerche artistiche che si rivolgono sempre più determinate verso un’idea diversa di forma, momento cruciale che prelude alle numerose sperimentazioni legate all’astrattismo e all’apertura, all’inizio degli anni ’50, verso la grande stagione informale. In questo ambito si sono rilevate due tendenze principali, nettamente riconoscibili all’interno della Collezione Giovanardi:  che i curatori hanno definito “il sogno” e una “la terra”.
I pittori della “Terra” mirano al superamento  di una rigorosa struttura formale tramite una pennellata fortemente terrosa, materica, ctonia. Come Arturo Tosi, Ottone Rosai e Mario Mafai

Al gruppo  del “Sogno” attiene invece Filippo De Pisis, fautore di una pittura eterea che sfalda la consistenza degli oggetti fino a farla trascolorare nel nulla della tela grezza. Di segno analogo i paesaggi e le nature morte di Pio Semeghini, circonfusi di un’atmosfera onirica, presente anche nelle vaporose vedute di Cesare Breveglieri.
Tutte queste esperienze costituiranno un momento d’importante riflessione sul rapporto tra rappresentazione e realtà, lungo un percorso che sfocerà, con Mauro Ruggeri (ma non solo), ad un’idea di astrazione che vedrà nella perfezione geometrica la più alta aspirazione dell’uomo.



Maria Paola Forlani  


martedì 21 febbraio 2017

MARYLA LEDNICKA

Maryla Lednicka

Il primitivismo moderno


Come Tamara de Lempicka, Maryla Lednicka proveniva dalla Russia dove era nata a Mosca nel 1893 figlia dell’avvocato polacco Alexander Lednicki, rappresentante del regno di Polonia alla Duma. Maryla studia a Parigi da Boudelle, artista che nel 1909 ricevette la commissione del monumento Mickiewicz a Parigi, inaugurato nel 1929, con l’allegorica e imponente figura dell’Epopea polacca. Durante il periodo della rivoluzione, Lednicka vive a Londra e dal 1920 a Parigi, iniziando un percorso in cui il ruolo di artista si sovrappone a quello di promotrice dell’arte polacca. Con la conferenza di Versaille, infatti la Polonia torna ad essere una nazione, con un’identità artistica da recuperare e promuovere, intento all’origine di tre importanti esposizioni con artisti polacchi  che vivevano in patria e artisti  emigrati in Francia: Maryla Lednicka era il presidente della sezione francese.
In quei primi anni venti, incontra due connazionali emigrate dalla Russia, le sorelle Tamara e Adrienne Gorska. Le tre donne espongono tutte al Salon d’Automne del 1922, dove Tamara passa quasi inosservata, mentre la sorella e Maryla ottengono lusinghieri consensi critici; in particolare, il progetto di Adrienne è pienamente nello spirito déco; una vetrina di negozio di pianoforti, in cui l’architettura è inquadrata da due bassorilievi di Lamourdedieu raffiguranti il Canto e la Danza. La composta figura della giovane Adrienne viene ritratta nel 1923 da Maryla in una scultura lignea oggi dispersa, che negli anni trenta era nella collezione Del Vo a Venezia, dove sarà presentata nel 1932 nel padiglione polacco della Biennale. In quel 1923, Maryla e Adrienne iniziano una collaborazione che durerà anni e che quell’anno si manifesta con la presentazione al Salon d’Automne di un innovativo progetto di fontana in cemento completata dalla scultura di una figura femminile, noto attraverso una foto all’epoca pubblicitaria su Świat”.

La scultura più nota della Lendnicka era all’epoca l’Angelo nero, ispirata alla tradizione lignea medioevale polacca, esposta nel 1922 a Parigi, 1924 e 1925 nelle personali milanesi. L’arcaicità della fonte e la studiata trattazione non verista del volto saranno indicate come elementi di pregio da Waldemar-George – il polacco Waldemar Jerzy Jarocinski – nell’introduzione alla mostra milanese del 1924. Questo studiato “primitivismo” trova in Carlo Carrà un estimatore tanto che sarà il pittore italiano a presentare la scultrice nel catalogo della personale inaugurata nel gennaio 1926 a Bottega di Poesia. Carrà stroncherà la “modernolatria” di Lempicka, mentre con enfasi apprezza l’arcaismo di Lednicka, che fa risalire al recupero di tematiche e forme slave operato dai Balletti Russi di Diaghilev, ambiente effettivamente frequentato dalla scultrice quando viveva a San Pietroburgo.

In Italia, l’arcaismo colto e raffinato di Lednicka si affianca allo studio della scultura toscana del Quattrocento, che traspare in molti busti; l’avvicinamento a un “ritorno all’ordine” di stampo italiano determinò il suo coinvolgimento in diverse opere monumentali, dal destino paradossale, perché o divennero anonime o andarono distrutte.


Divenne un’opera senza nome la figura femminile sdraiata realizzata nel 1930 per la fontana progettata da Piero Portaluppi, originariamente collocata in via degli Omenoni a Milano, poi spostata in un cortile della sede oggi Banca intesa, restituita alla scultrice solo in tempi recenti.

Nulla rimane del Padiglione Alimentari realizzato alla Fiera di Milano nel 1928 da Giuseppe Finetti, distrutto durante i bombardamenti del 1943, dove Lednicka aveva scolpito delle Cariatidi pubblicate su Światowd” del 16 giugno 1928 insieme a un’altra sua importante scultura, il San Francesco commissionato da Raniero Paolucci de’ Calboli, che l’aveva destinato ai Musei Civici di Forlì, ma andato disperso.
E rimangono solo foto d’epoca delle decorazioni realizzate per alcune navi da crociera italiane, su richiesta di Gio Ponti e Pulitzer Finali, gli autori delle “gallerie galleggianti”, ambasciatrici internazionali della cultura italiana.
Sulla motonave Victoria, due ambienti presentavano lavori di Lednicka: lo scalone della prima classe, con un enorme pannello con una Caccia, e il fumoir, con una Donna in rame, un’elegante silhoutte di sapore egizio a evocare il porto di destinazione della nave che, nel 1931, raggiungeva Alessandria d’Egitto, poi nel corso degli anni allungò la sua rotta fino a Sanghai. Impiegata durante la guerra nel trasporto delle truppe in Africa, venne affondata nel gennaio 1942 dai britannici nel golfo della Sirte. Per il transatlantico Conte di Savoia che faceva la rotta Genova-New York realizzò il busto della principessa Maria Josè, madrina della nave.


La nave bombardata nel settembre 1943 mentre era ancorata nella laguna di Venezia, fu smantellata nel 1950. E ancora per il mitico Rex la Lednicka realizzò il pannello con L’infanzia di Bacco, destinato al bar della prima classe, ma il transatlantico fu bombardato nel 1944 e poi smantellato. Stesso destino di distruzione colpì l’Oceania, dove era il busto di Mussolini, realizzato nel 1933 in dieci ore di posa: la nave fu affondata nel settembre 1941, al lago di Homs, da un sommergibile britannico.

All’epoca di queste distruzioni, Maryla Lendnicka viveva ormai a New York: il 24 agosto 1938 si era imbarcata per l’ultima volta sul Conte di Savoia.
Tamara de Lempicka sarebbe partita pochi mesi dopo, nel febbraio 1939, da Parigi e, attraverso un giro tortuoso, sarebbe arrivata a Los Angeles. Diverso sarà il destino finale delle due amiche polacche: entrambe non avranno negli Stati Uniti il successo sperato, ma mentre la Lempicka coltiverà la propria immagini glamour, la Lednicka si suiciderà nel 1947, a New York, gettandosi dalla finestra, come aveva fatto il padre nel 1934, travolto da uno scandalo finanziario. Il fratello Waclaw, professore di slavistica, racconterà che non aveva neanche i mezzi per comprare i materiali necessari per le sue sculture. La Lempicka, all’epoca, viveva a pochi isolati di distanza, in un lussuoso appartamento a due piani



Maria Paola Forlani  

sabato 18 febbraio 2017

JHERONIMUS BOSCH a VENEZIA

Jheronimus

Bosch
E Venezia

<<Che cosa significa, o Hieronymus Bosch, /
Il tuo sguardo attonito, che cosa / il pallore del
Tuo volto? Come se tu / avessi visto svolazzare
dinanzi a te i Lemuri, / gli spettri dell’Erebo!
Per te, io credo, si sono / aperti i recessi / di
Dite impenetrabili / e le dimore del Tartaro:
poiché la tua mano / ha saputo dipingere
bene ogni segreto anfratto dell’Averno>>

Domenicus Lampsonius, 1572



Visioni inquietanti, scene convulse, paesaggi allucinati con città incendiate sullo sfondo, mostriciattoli e creature oniriche dalle forme più bizzarre: è questo l’universo di Jeronimus Bosch affascinante ed enigmatico pittore vissuto tra il 1450 circa e il 1516 a ‘s-Hertogenbosch (Boscoducale) in Olanda, ricordato in occasione dei 500 anni dalla morte con due grandi mostre monografiche, rispettivamente nella città natale e al Prado di Madrid.

A questo straordinario artista, Venezia, unica città in Italia a conservare suoi capolavori, dedica a Palazzo Ducale fino al 4 giugno 2017 una mostra, a cura di Bernard Aikema (catalogo Marsilio), di grande fascino per il pubblico e di notevole rilevanza per gli studi, il cui punto focale sono proprio le grandi opere di Bosch custodite in laguna alle Gallerie dell’Accademia – due trittici e quattro tavole – riportate all’antico splendore grazie ad attenti e sapienti restauri.


Fondamentale nella ricostruzione del rapporto di Bosch e Venezia, risulta la testimonianza precocissima di Marcantonio Michiel, conoscitore e critico d’arte, il quale nel 1521, nel descrivere la collezione “lagunare” del Cardinale Domenico Grimani, nomina, accanto a una straordinaria serie di dipinti nord europei, tre opere di Bosch con mostriciattoli, incendi e visioni oniriche: opere che il cardinale alla sua morte, due anni più tardi, lascerà in eredità alla Serenissima Repubblica, insieme ad altre pitture e sculture. Casse piene d’opere rimasero nei sotterranei di Palazzo Ducale fino al 1615, quando un nucleo fu recuperato ed esposto nella residenza dogale.
I restauri effettuati mostrano come due delle tre opere conservate a Venezia – La santa Liberata e inferno e Paradiso –fossero inizialmente destinate a committenze nordeuropee, modificate in seguito per adeguarsi a una raffinata clientela italiana e a un nuovo destinatario: probabilmente proprio il patrizio veneziano Domenico Grimani, cardinale e figlio di Antonio, il 76esimo Doge di Venezia.

La mostra si sofferma sulla figura di Domenico – effigiato in un tondo di Palma il Giovane insieme al nipote Marino e nella bellissima medaglia realizzata dal Camelio – e sui suoi interessi collezionistici, con opere di grande suggestione come alcune statue greche appartenute alla raccolta del nobile veneziano e soprattutto la placchetta  argentea con la  Flagellazione di Cristo – capolavoro del Moderno commissionato dal cardinale (Kunsthistoriches di Vienna) – e l’eccezionale Breviario Grimani con le sue 110 miniature (1515- 1520 c.), probabilmente il più bello e il più importante tra i manoscritti miniati prodotti nelle Fiandre durante l’estrema fioritura dell’ars illuminandi, in un tempo in cui i libri a stampa erano ormai accessibili e le opere manoscritte una rarità.


Quindi, la tematica del sogno, cara all’entourage di Domenico Grimani.
Personalità di elevata statura e di svariati interessi, dalla filosofia alla teologia, amante della scultura greca antica, di Tiziano, di Raffaello e di Leonardo da Vinci, il cardinale era attratto infatti anche dall’arte delle Fiandre e soprattutto interessato fortemente a quelle visioni oniriche immaginate negli ambienti colti della Venezia dell’epoca.
Il tema del sogno ricorre nel famoso romanzo-visione pubblicato nel 1500 a Venezia da Aldo Manuzio Hypnerotomachia Poliphili e nell’incisione Il Sogno (1506-1507) di Marcantonio Raimondi – tratta forse da un perduto dipinto di Giorgione – con due donne svestite dormienti e vari mostriciattoli.


Secondo il curatore della mostra Bernard Aikema, le immagini oniriche di demoni e mostri in questi casi non deriverebbero da Bosch – Riflettendo semmai il fascino esercitato dalle stampe tedesche di Dȕrer, Martin Schongauer e Luca Cranach il Vecchio, tutti in mostra – ma viceversa la presenze di Bosch in laguna sarebbe la conseguenza di una precisa “moda”, di un interesse già diffuso negli ambienti intellettuali, basti guardare ai piccoli bronzi di soggetto mostruoso e fantastico che decoravano gli studioli del tempo come il calamaio in forma di mostro marino di Severo da Calzetta (1510-1530), attivo nel VI secolo a Padova alla Basilica del Santo,
o come il Satiro seduto che beve di Andrea Briosco detto il Riccio.



Così come lo stesso Bosch e molti altri artisti d’oltralpe avrebbero attinto certi personaggi “surreali” dalle grottesche caricature di Leonardo (in mostra anche alcuni bellissimi fogli del corpus grafico leonardesco, realizzati probabilmente da Francesco Melzi, dal Gabinetto dei Disegni e Stampe della Galleria dell’Accademia).



Grimani dunque consapevolmente ricerca opere fiamminghe; consapevolmente vuole Bosch, con le sue panoramiche notturne da incubo e le sue creature mostruose ma anche le sue ambiguità e stranezze; e le vuole – vero principe rinascimentale – per ragioni estetiche, per farne il pretesto di una discussione erudita, l’occasione di un confronto intellettuale come momento di diletto e di formazione per il suo “cenacolo”, così come avveniva con le opere giovanili di Lotto, Tiziano e soprattutto Giorgione.
Trova dunque un itinerario importante con le Fiandre negli ambienti ebraici che frequentava, vicino com’era al sincretismo di Giovanni Pico, tra speculazioni neoplatoniche e cultura giudaica.

In particolare, tra i principali contatti ebraici vi era il suo medico personale Meir de Balmes che, che a sua volta, manteneva stretti rapporti con il più importante editore di libri in ebraico, poliedrico uomo d’affari, con spiccato interesse per le arti figurative, Daniel van Bomberghen, stabilitosi a Venezia intorno il 1515.


Bamberghen sarebbe stato il tramite per gli acquisti neerlandesi del cardinale, con il nipote Cornelis De Renialme, che risulta aver gestito le trattative per le opere rimaste in bottega di s’-Hertogenbosch dopo la morte del pittore, nel 1516.
In mostra, un’infilata di anonimi seguaci del grande artista presenti in laguna ci dà conto della nascita di un mito; così come la diffusione dei motivi boschiani anche nella grafica. Con l’enorme tela di Jacob Isaacz van Swanenburgh si ha la percezione della apoteosi seicentesca di Bosch in patria, mentre nella città dei Dogi sarà Joseph Heintz il Giovane a far rivivere con i suoi “stregozzi” l’universo cupo e onirico, le creature deformi e grottesche di Bosch, in perfetta sintonia con il clima negromantico e gli interessi di molti esponenti dell’Accademia degli Incogniti.

Ma i tempi ormai erano cambianti. Ora questa pittura è puro estetismo, di effetto: non ci sono più messaggi da ricercare e capire, non più retaggi religiosi o morali; la dimensione del sogno lascia il posto al manierismo e alla meraviglia del barocco.


Maria Paola Forlani