lunedì 29 maggio 2017

CARLO MATTIOLI

Carlo Mattioli


Il grande pittore Carlo Mattioli (1911 – 1994) è il protagonista della nuova mostra estiva al Labirinto del Masone, fino al 24 settembre 2017.
Esposizione che intende essere, insieme, un omaggio di Franco Maria Ricci a Mattioli, concittadino e amico con il quale condivideva lo stretto legame con la città di Parma e il suo territorio.

Nel 1925 la famiglia di Carlo Mattioli si trasferì da Modena a Parma, dove il pittore risiedette stabilmente per tutta la vita. Si formò presso l’Istituto d’Arte ed iniziò la sua attività artistica, con modi che si rifecero all’esperienza di Giorgio Morandi. La prima importante uscita avvenne nel 1940 alla Biennale di Venezia, ove venne invitato in numerose edizioni successive, ottenendo premi e riconoscimenti importanti.

Nel 1943 si tenne a Firenze, per interessamento di Ottone Rosai, la sua prima mostra personale.
Gli anni quaranta e cinquanta sono caratterizzati da una produzione che si connotò per un suggestivo tonalismo figurativo. Furono gli anni della sua maturazione culturale, attenta non solo alle più varie esperienze pittoriche passate e contemporanee, ma ricca anche di interessi per la letteratura, in specie per la poesia. Stabilì un fertile e non transitorio rapporto, tra gli altri, con Attilio Bertolucci e con Mario Luzi. Si collegò a tale interesse letterario l’attività di Mattioli come illustratore di libri; attività che si fece particolarmente intensa negli anni sessanta con incisioni e litografie per i Ragionamenti di Pietro Aretino, la Chatreuse de Parme e la Vanina Vanini di Stendhal, i Sonetti di Guido Cavalcanti, il Belfagor di Macchiavelli, il Canzoniere di Petrarca, La Venexiana, commedia per il teatro di ignoto autore del XVI secolo, ed altre opere ancora.


Gli anni sessanta furono gli anni della sua piena affermazione presso il grande pubblico. La sua produzione venne eseguita dalla laboriosa ricerca di sempre nuove modalità espressive, con una vena pittorica, sospesa tra formale ed informale, che assecondò, procedendo per cicli tematici, la sua meticolosa esplorazione dei territori e delle possibilità di linguaggio pittorico. Furono di questi anni la serie dei Nudi, delle Nature morte ed, in particolare, degli Studi sul Cestino del Caravaggio.

Nel 1970 venne allestita a Parma la prima mostra antologica delle sue opere, portata l’anno dopo a Carrara. Nel corso degli anni settanta proseguì e rinnovò la ricerca di una poetica capace di esprimere l’affiorare improvviso alla coscienza, come una illuminazione istantanea, di emozioni che promanano dalla osservazioni di una natura infinitamente cangiante, sia essa rappresentata dalle Spiagge della Versilia
(1970 – 74), dai Campi di papaveri (dal 1974), delle Lavande (dal 1978), dalle Ginestre (dal 1979). Mattioli fece ricorso ad una gamma molto vasta di tecniche pittoriche, con una dominante di oli con forti ispessimenti materici, mentre la sua tavolozza sperimentò l’intera gamma di possibilità comunicative, dai paesaggi concepiti con il sole differenti tonalità di bianco, ai dipinti – come i propri Autoritratti – immersi nel nero della notte.



Mentre in Italia un numero ampio di artisti sentì il bisogno di confrontarsi con problematiche di carattere sociale, la poetica di Mattioli si mantenne fedele ai temi “metastorici” dello stupore del mondo e dell’inquietudine esistenziale dell’essere nel mondo.

Fu di questo periodo la sorprendente serie – non priva di rimandi a Claude Monet – della Aigues Mortes (1977-1979): una serie di visioni aeree di forme e colori cangianti, tese ad indagare l’incerto confine tra l’organico e l’inorganico, tra la vita e la morte. Iniziò in questo periodo (dal 1975) anche la produzione dei tenerissimi ritratti della nipotina Anna, che sembrano realizzati per coinvolgere la bimba in una favola inventata da lei, e costruita per dar forma alla sua scoperta del mondo.


Durante gli anni ottanta la poetica di Mattioli, lontana dall’esaurirsi nell’appagata riproposta delle forme espressive già sperimentate, si rinnovò attraverso l’esplorazione di nuovi soggetti: i grandi Boschi verdi (1981), i Muri (1982), le Pinete (1983). Altri temi, come i Cieli, lasciati depositare in fondo alla memoria, vennero periodicamente rivisitati attraverso una sorta di “vis combinatoria” di forme e di colori, capace di far scaturire un’inesauribile gamma di variazioni sul tema.


Si intensificò altresì la ricerca di nuove forme espressive attraverso la meticolosa scelta di inconsuete superfici su cui stendere i propri colori: pagine prelevate da antichi manoscritti, vecchie tele consumate, tavole lignee provate dal tempo. Si compie così, attraverso la realizzazione dell’opera, una sorta di trasmutazione alchemica, fortemente suggestiva, di oggetti nei quali la nuova e la vecchia forma si compenetrano, nel rispetto delle reciproche essenze.

La mostra alla Fondazione Franco Maria Ricci copre trent’anni dell’opera del Maestro, dal 1961 al 1993 e presenta i dipinti più rappresentativi dei cicli che hanno reso noto Mattioli grazie alla cura di Sandro Parmiggiani e di Anna Zaniboni Mattioli, nipote dell’artista e responsabile dell’Archivio.


La letteratura sulla figura di Carlo Mattioli e sulla sua produzione artistica è molto vasta. Significativa è quella del poeta Mario Luzi che si sofferma su la sua poetica.
<< Carlo Mattioli è un pittore di grandi finezze, di deliberate succosità cromatiche e luministiche; il suo tocco arriva sulla tela intriso di dense e svarianti sostanze che non coincidono in tutto e per tutto con la sola materia o, se mai, con una materia non solo usata ma anche pensata.

Nondimeno Mattioli è un artista elementare, assorbito dalla osservazione delle forme e degli episodi della natura fino a un certo purissimo grado di immedesimazione sensuale e mentale non mai però fino al punto di comprimere la sua propria misura contemplativa, da farle torto.

Per quella sua elementarità, unita alla rara delizia del suo dipingere (è dei pochi pittori ad averne custodito il gusto) per quel suo affisamento contemplativo a Mattioli è accaduto di cimentarsi in prove che avrebbero dissuaso chiunque, e a ragione: infatti a nessun altro sarebbe stato possibile non soccombere alla ovvietà dell’assunto e alla pedanteria da erborista o da minerologo di certe suites da lui puntigliosamente allineate, le suites dedicate a cespi, pietre, rovi; più recentemente ai cieli.>>

(Estratto da Mario Luzi, Presentazione del libro La pioggia nel pineto. Il bulino, Modena, 1984)



Maria Paola Forlani

domenica 28 maggio 2017

IL CUORE ALTROVE di Pupi Avati



Con la riproposta su RAI 3 del bel film di Pupi Avati  “Il cuore altrove” rileggiamo l’attenta recensione di Franco Patruno sull’Osservatore Romano
del 14. 2. 2003


UNA FAVOLA BEN RIUSCITA DOVE TUTTO E' SEMPLICE, ANCHE LA SORPRESA
Il film "Il cuore altrove" di Pupi Avati


Se è vero, come afferma Paul Ricoeur con antico riferimento agostiniano, che all'impossibilità di definire il tempo corrisponde la capacità di imprimerlo nel racconto, i veri narratori lo sperimentano strutturandolo in uno spazio. Anzi, lo spazio stesso rivela il tempo cadenzandolo in una storia. Non appaia estranea a Il cuore altrove di Pupi Avati questa premessa. Dopo la visione del film ho avuto netta l'impressione di una connaturalità tra la costruzione della vicenda di Nello, il trentacinquenne professore romano di latino e greco, ed il montaggio che ritma scene e sequenze senza soluzione di continuità. O, per dir meglio, in modo tale che ad un sintetico proemio di presentazione delle situazioni, faccia seguito tutta la storia verso un compimento che s'avverte come giunto a maturazione. Ci sono fabule che appartengono alla memoria degli autori da sempre, quelle che caratterizzano un mondo ed una riconoscibile poetica.  Questa non è una delimitazione della fantasia creativa, ma un fecondo terreno nel quale e sul quale la novità di un nuovo percorso si inserisce, ripeto, con connaturalità. La figura del personaggio trasognato e tutt'altro che simmetrico alla concretezza della vita di tutti i giorni è una costante della letteratura e del cinema, perché desta tenerezza ed umorismo già dalla prima apparizione. A meglio definirlo stanno le contrapposizioni: un padre di realismo raro, ma orgoglioso di una sartoria che lavora per i Papi, un compagno di stanza barbiere di fino alquanto goliardico di usi e costumi ed una ragazza d'alta borghesia che sprizza vitalità ad alto rischio di provocazione. Tra Roma e Bologna si instaura un colloquio di ambienti appena tratteggiato, ma presente come atmosfere, situazioni a confronto ed altrettante contrapposizioni a sfondo sociale. Il tema che appare centrale, ma che tale non è, è quello della cecità non permanente di Angela, soprattutto se inizialmente descritta in una delle pagine più belle ed avatiane del film: il ballo tra i possibili futuri sposi e le non vedenti, in un ricreatorio di forte richiamo felliniano. Tutto è semplice, anche la sorpresa, cioè "l'apparizione" di Angela fuori dalla sala, quasi in trasparenza con il verde oltre il corridoio. La storia dei sentimenti è storia di definizione di personaggi, come è maestria di Pupi e, accorta regia, storia di conduzione d'attori. Un pregio del regista bolognese è il lasciare che questi siano quello che hanno capito, senza forzarli con schemi d'inutile teatralità. Cioè senza che si perdano nei meandri dell'evocativo. Così Avati lascia che si autopresentino Neri Marcoré, Vanessa Incontrada, Nino D'Angelo, Giancarlo Giannini e Giulio Bosetti. E', con tutta probabilità, un fatto non solo legato all'immediatezza e alla simpatia tra regista e interpreti nell'atto della messa in scena, ma una consumata tecnica nata dalla vocazione a costruire lo spazio vivo delle azioni, in modo tale che, calandosi in una parte, gli attori scoprano una dimensione di se stessi. Certo, Giannini  occupa quello spazio come l'abitasse da sempre; e così pure Bosetti. La sorpresa è l'intreccio tra Marcoré e l'Incontrada che sono un Giano bifronte: l'indecisione ontologica della figura del primo fa risaltare l'euforia sincera, ed anche malinconica, della polivalente espressività di Angela, cioè il personaggio rivissuto dalla giovane attrice spagnola. Il film si snoda con velocità, perché Pupi non lascia mai sola un'ipotesi di vita senza condurla a termine, anche, e soprattutto, con la caratteristica ormai nota della subitaneità degli accenni. La sceneggiatura, come si suol dire, "tiene", perché è l'intelligenza della storia che la sostiene, senza bisogno di indebite forzature o lungaggini fuori luogo. Quando s'avverte che un racconto è parte del proprio mondo, anche il montaggio non è solo indubbia abilità, ma vera costruzione del rapporto di causa ed effetto nel succedersi di scene e sequenze.

I due momenti finali, che non descrivo per non mortificare una possibile visione del film, sono indovinati e, negli ambienti nei quali si svolgono, facilitano la comprensione dell'antica storia dei personaggi "imbarazzati" e che si configurano come inadeguati a situazioni socialmente codificate. Sembran tali di natura, ma invece, come da Charlot a Gelsomina, han capito gli accenti sapienziali della vita. Così finisce una favola ben riuscita, nel miglior stile del regista bolognese e fortunatamente assai prossima alle feriali aspirazioni degli spettatori, con alcuni tratti d'omaggio a Fellini che fanno perdonare anche una fotografia un po’ statica e teatrale. 


Franco Patruno


14-2-2003         

giovedì 25 maggio 2017

CHARLOTTE SALOMON

Charlotte Salomon.

Vita? o Teatro?


L’inferno della Shoah restituisce un sorprendente poema allo stesso tempo pittorico, teatrale, narrativo e musicale. Charlotte Salomon è una giovane ebrea berlinese che va incontro ad un tragico destino. Prima di morire ad Auschwitz, Charlotte affida il racconto di tutta la sua vita a centinaia di tempere, raccolte sotto il titolo Vita? o Teatro?

Miracolosamente sopravvissuto alle persecuzioni e alla guerra, questo lascito artistico si rivelerà un autentico canto del destino, che vede proiettata la biografia di Charlotte sullo scenario più tragico del Novecento.
A Palazzo Reale di Milano si è aperta fino al 25 giugno 2017 la mostra Charlotte Salomon. Vita? o Teatro ?, a cura di Bruno Pedretti, promossa dal Comune di Milano Cultura, Palazzo Reale e Civita Mostre, in collaborazione con il Jewish Historical Museum di Amsterdam. L’esposizione presenta circa 270 tempere, insieme a decine di fotografie storiche che illustrano la vita di Charlotte e gli avvenimenti del suo contesto, in parallelo alle scene rappresentate nel suo poema autobiografico.

Trovare le immagini e le parole richiamare i personaggi e i luoghi, rinvenire le passioni, i suoni e le occasioni per raccontare la propria intera vita: è questa la sfida che la giovane berlinese di origini ebraiche Charlotte Salomon si prefissò quando, in una data imprecisata del 1940, profuga a Villefranche-sur-Mer alle porte di Nizza, decise di porre mano alla sua grande opera Leben? Oder Theater? (Vita ? o Teatro ?).
A seguito di un nuovo evento funesto, che si aggiungeva allo scoppio della guerra e alle angosce di perseguitata o profuga, a Charlotte si rivelava l’abisso tragico in cui era via via precipitata la propria vita insieme a quella della famiglia e della comunità.
Prima che la sofferenza la travolgesse e che ogni cosa svanisse, quella vita su cui sentiva volteggiare sempre più minacciosa una fine malvagia doveva essere raccontata, mettendo a frutto tutta l’arte di cui disponeva: la pittura studiata all’Accademia di Belle Arti di Berlino, la musica diventata presenza quotidiana in casa con l’arrivo della seconda moglie del padre Albert, la letteratura che stipava la biblioteca domestica, la filosofia che aveva agitato le discussioni teoriche con l’amato Alfred…

Nei due anni scarsi che seguirono, Charlotte godette della complicità di una musa così infervorata e solidale da riuscire a comporre un’opera tra le più emozionanti, intense e mirabili del suo tempo. Charlotte non smetterà di fatto un giorno di lavorare alla sua opera. Alla fine questa comprenderà ben milletrecentoventicinque fra tempere, veline, annotazioni, varianti pittoriche e altre prove, con una scelta di quasi ottocento tempere selezionate quali immagini del racconto definitivo.

Lo scrittore e pittore Carlo Levi, nell’introduzione a una delle prime mostre di questo prezioso lascito nel 1963, ha scritto: << Charlotte Salomon è stata una di quelle persone che hanno sentito la necessità di ripensare l’esistenza e di affidarla a qualcosa che, per il solo fatto di essere espresso, fosse libero dal comune destino di morte [] Questo contenuto poetico, che va al di là dei valori espressivi, che si afferma nel suo significato e nella sua necessità di atteggiamento e di libertà, si fa più commovente per un suo carattere segreto, che è quello della contemporaneità nascosta della sorte>>.
 Vita? o Teatro?, come ha bene intuito Carlo Levi, è opera poetica altissima esattamente perché non è rappresentazione esterna dell’esistenza ma sua rivendicazione attraverso l’arte. Semplice nel modello espositivo, ma altrettanto complessa, elaborata e ingegnosa nella struttura, nei rimandi narrativi, allegorici, simbolici, Vita? o Teatro? È organizzata cronologicamente.
Vi si narrano le molte vicende di una vita: quella della stessa Charlotte Salomon, che si mette in scena in terza persona al pari dei molti personaggi che occupano le pitture, sempre identificabili nonostante l’innocuo camuffamento sotto altri nomi. Il lungo racconto non si apre tuttavia con la nascita della protagonista, il 16 aprile 1917 a Berlino, bensì significativamente nel 1913, con il suicidio della giovane zia da cui Charlotte erediterà il nome. La sequenza delle tempere, le cui illustrazioni si succedono come in una rappresentazione teatrale o filmica, parlano naturalmente dell’infanzia e della crescita di Charlotte, del suo ambiente familiare e sociale, delle occasioni sulle quali la vita andava costruendo la propria parabola…

Dipinta con l’uso esclusivo dei tre colori primari e suddivisa similmente in tre sezioni (l’infanzia, la gioventù, l’epilogo da profuga dopo l’abbandono di Berlino nel 1939), l’opera si dipana in una progressione temporale che, sebbene con deviazioni e ritorni e disgressioni, scandisce i diversi momenti biografici chiarendone la complessità narrativa tramite l’abbinamento alla pittura di interventi scritti, che nella prima sezione Charlotte distribuisce in fregi su veline da sovrapporre alle tempere sottostanti, nelle altre due sezioni immergono invece le parole direttamente dalla pittura, che in tal modo si fa carico di dipingere anche i testi del racconto.
Con l’avanzare dell’opera, il linguaggio visivo subisce poi un’ulteriore metamorfosi. Se nella prima sezione le figure sono rappresentate privilegiando ancora i procedimenti di un espressionismo minuzioso, inoltrandoci nelle due successive sezioni tutto tende a diventare frenetico, ansioso, vorticoso, secondo una originalissima pittura-scrittura gestuale in cui discorso e personaggio, dialogo e scena, racconto e visione tendono a fondersi in un unico linguaggio.

L’intreccio nel lascito di Charlotte Salomon di vita e opera, di testimonianza e poesia fa inevitabilmente ricordare le emozionanti pagine del Diario di Anna Frank o del Diario di Etty Hillesum. In queste sventurate sodali in destino di Charlotte Salomon troviamo un’analoga opera d’arte totale che si affida alla struttura diaristica e autobiografica. Poco conta che nelle autrici cambi l’uso prioritario di questo o di quel genere artistico o letterario: in tutti i casi siamo al cospetto di opere che non sostituiscono artisticamente il reale, bensì lo estendono nella consapevolezza espressiva.

A sigillo di queste affinità spirituali, una poesia del 1963 di Anna Achmàtova rende con una efficace similitudine, poetiche emozioni, con l’autoritratto di spalle in riva al mare di Charlotte, con il titolo dell’opera trascritto sulla schiena, dipinto dalla giovane artista quale conclusione del suo poema biografico

Una terra sia pure non natale.
Ma da ricordarsela per sempre,
E nel mare un’acqua non salata
E carezzevolmente gelida.
Sul fondo sabbia del gesso più bianca,
E un’aria ebbra come vino,
E il roseo corpo di pini
Nudo nell’ora del tramonto.
Ma il tramonto sull’onde dell’etere
Ѐ tale che non riesco a capire
Se sia la fine del giorno o del mondo
O di nuovo in me il mistero dei misteri.



Maria Paola Forlani

martedì 23 maggio 2017

SALVATORE NOCERA

Salvatore Nocera

Un decennio di ritardo


Bologna ricorda Salvatore Nocera, a dieci anni dalla sua scomparsa, con la prima personale del pittore nella sua città di nascita, nella Sala Ercole di Palazzo d’Accursio, fino 23 luglio 2017. La mostra dal titolo Salvatore Nocera. Un decennio di ritardo è stata curata da Elisa del Prete (catalogo associazione Bologna per le Arti). L’esposizione è nata da un’idea di Mario Giorgi, autore che ha conosciuto l’artista in vita, e realizzata grazie a Eva Picardi e alla madre Felicia Muscianesi, eredi testamentarie di Nocera e promossa nell’ambito delle attività dell’Associazione Culturale Bologna per le Arti.

Salvatore Nocera nasce il 4 luglio 1928 a Bologna da una madre bolognese, Antonia Mazzanti, proprietaria della Locanda Galliera, e padre siciliano che li abbandonerà quasi subito. Grazie al sostegno incondizionato della madre Nocera studia prima alla facoltà di Architettura di Firenze, rinunciando tuttavia di laurearsi, quindi frequenta per alcuni anni, tra ’52 e’53, l’Accademia di Belle arti di Bologna. Ben voluto e sostenuto per il suo talento artistico da Virgilio Guidi, preferirà iniziare il suo percorso artistico da autodidatta come scultore, frequentando i laboratori di Ugo Guidi e Cleto Tomba, per dedicarsi poi quasi subito alla pittura.

Ѐ del 1949 la sua partecipazione al Premio Cremona con un grande Crocefisso accettata grazie all’intervento di Carlo Carrà, presidente di giuria, contro il parere degli altri membri. Nel ’53 realizza la sua prima bi-personale a Venezia assieme all’amico pittore Emilio Contini – con una presentazione di Virgilio Guidi – in cui propone una serie di disegni.

Nel corso degli anni Cinquanta, con il diffondersi in Italia di una serie di iniziative espositive legate alla celebrazione della Resistenza, Nocera viene invitato a partecipare a diverse mostre in regione assieme a altri artisti figurativi tra cui Aldo Borgonzoni, con cui l’artista coltiva uno scambio proficuo in una fase in cui a Bologna sta invece iniziando ad affermarsi un tipo di pittura astratta e volutamente ”disimpegnata” che sfocerà poi nell’informale.

Presto però si trova a prendere le distanze da un tipo di realismo sociale in cui non riesce a riconoscersi, per dedicarsi invece a una ricerca pittorica del tutto personale, in cui mescola l’ordine della pittura contemporanea del gruppo milanese Novecento alla grande pittura italiana rinascimentale dei cieli veneti e delle forme statuarie di Piero della Francesca e Masaccio. Nel ’54 incontra Carolina Agosti che diventerà sua moglie. In seguito al matrimonio si trasferisce a Caprino Veronese, dove la moglie gestisce la farmacia di famiglia.

Dal 1959 si reca periodicamente a Parigi. Affitta uno studio in Boulevard de Clichy a Montmartre, quartiere denso di vita intellettuale, dove risiedevano anche diversi altri artisti italiani.
Iscritto al sindacato Nazionale degli Artisti Francesi, partecipa con regolarità al Salon des Indépendants e al Salon d’Automne dove all’inizio degli anni Novanta esporrà anche il suo ultimo lavoro, un trittico di oltre 6 metri, un’opera dall’umore testamentario che tra colpi di colore, scritte, volti cancellati, svela la condizione di inquietudine che lo fa stare davanti alla tela per tutta la vita.

Ѐ a Parigi che, finalmente a contatto con una scena artistica di più ampio respiro, Nocera giunge alla maturazione di una ricerca pittorica più astratta che attinge ancora una volta alla storia dell’arte, per tradurre, sempre in chiave del tutto singolare, l’ultimo impressionismo in un espressionismo più attuale.


 Lo stesso Arcangeli definisce, questo momento del 1954 l’ <<Ultimo Naturalismo>> e che attingendo alla scuola parigina, venne poi generalmente classificato come informale, una ricerca pittorica dall’impronta decisamente più astratta e materica che detterà legge a Bologna per almeno un ventennio. Le opere di Nocera, sedotto dall’informale, sono di una sensibilità quasi corrosiva, come se il pittore volesse bruciare rapinosamente il contatto con la natura e le sue presenze. Pennellate rapide e quasi strappate, nervose nell’intreccio; colori e fondi caldi, intrisi d’umori, tali da alludere a maturazioni avvenute e materie prossime al disfacimento. Tuttavia la sua ricerca non abbandonerà mai la figurazione e anche laddove l’espressione si farà più astratta non sarà mai rivolta a un’indagine puramente concettuale bensì sarà sempre guidata dalla necessità di penetrare ulteriormente le possibilità formali, di andare oltre la rappresentazione per giungere a una figurazione potenziale.


Dopo il fallimento del primo matrimonio e momenti di grande solitudine e depressioni ritroverà coraggio e nuove linfe di ricerca intellettuale  con una nuova musa, Felicia Muscianesi psicoterapeutica ed appassionata d’arte.
Gli ultimi vent’anni di produzione sono caratterizzati da una pittura fortemente materica e bulimica, di cui l’artista, affidandosi anche a collage e assemblage come alle fotografie e alla carta stampata, sembra voler esprimere in modo ossessivo nuove forme e materiali (spesso trovati per caso: carta assorbente, da regalo, vecchi poster e cartoline, etc.), dimostrando una flessibilità tecnica e mentale, e una fiducia nelle possibilità dell’arte e dell’espressione, assai rare tra i suoi contemporanei
.
La sua è una rassegnazione ultima di fronte all’impossibilità di fare, del fare davvero, un tentativo ultimo di restare vivo, nella pittura e nell’arte, fino in fondo, come sempre è stato consapevole dell’unica sua ragione di vita.
Negli ultimi anni le cromie si fanno sempre più evanescenti, al limite della presenza, la sua ricerca più sottile, leggera, quasi trasparente. L’arte non muore ma svanisce.
Di Nocera restano alcuni diari che pur non avendo una vera e propria forma letteraria raccolgono interessanti spunti e appunti su riferimenti, visioni, altri autori
Salvatore Nocera muore a Bologna il 5 settembre del 2008.

La collezione dei suoi libri, oltre 8000 volumi, è stata donata alla biblioteca Comunale dell’Archiginnasio.



Maria Paola Forlani