domenica 25 giugno 2017

IL CAPRICCIO E LA RAGIONE

Il Capriccio e la Ragione

Eleganza del Settecento europeo


Il Settecento vive una stagione artistica ricchissima e varia, espressione di stimoli e cambiamenti che nascono da consapevolezze culturali e conoscenze acquisite nel secolo precedente e, allo stesso tempo, da nuove ed esaltanti scoperte che accelerano i tempi di sviluppo della società civile europea in tutti gli ambiti del sapere.

La mostra, Il Capriccio e la Ragione. Eleganza del Settecento europeo aperta a Prato al Museo del Tessuto, fino al 29 aprile 2019, a cura di Daniela Degli Innocenti (catalogo SilvanaEditoriale), si avvale della determinante e prestigiosa collaborazione del Museo della Moda e del Costume della Galleria degli Uffizi, del Museo Stibbert di Firenze e del Museo Studio della Fondazione Antonio Ratti di Como, nonché di altre prestigiose istituzioni sia pubbliche che private, che hanno permesso la costruzione di un percorso espositivo unico ed inedito su un secolo così ricco e complesso come il Settecento. La mostra presenta una selezione mirata di tessuti, capi d’abbigliamento femminili e maschili, porcellane, oggetti d’arredo, dipinti e incisioni che raccontano e motivano puntualmente i continui passaggi di stili che attraversano questo secolo.

Nella parte dell’esposizione i temi riguardano l’esotismo, un contenuto importante che trae origine nel XVII secolo per effetto delle nuove conoscenze geografiche dovute ai traffici commerciali, alle ambascerie e all’azione delle missioni degli ordini religiosi nelle parti più estreme dell’Oriente, che portano all’attenzione di un vasto pubblico beni di lusso e di consumo che generano interesse e curiosità per le loro particolari e raffinate caratteristiche.

Lacche, porcellane, tessuti, dipinti su carta esprimono infatti linguaggi artistici che giocano su parametri compositivi ed estetici differenti da quelli maturati dalla tradizione europea e, pertanto, ricercati per la loro stravaganza e originalità.
I soggetti, la composizione delle scene e l’inattesa palette cromatiche determinano una profonda trasformazione del gusto verso l’esotismo che ricade sulle produzioni delle maggiori manifatture europee, coinvolgendo principalmente la produzione di beni di lusso.

Questo nuovo flusso di idee alimenta in primis l’attività delle manifatture francesi che, a fine Seicento, vivono una stagione prolifica grazie alle riforme apportate dal governo di Luigi XIV.
La Francia è la prima nazione in Europa che innesca una filiera organizzata di saperi che si declinano in tutti i settori delle arti. Artisti come Charles Le Brun, Antonio Watteau, Jean Berain, François Boucher dedicano parte dell’attività creativa alla progettazione di ornati e impianti decorativi per tessuti, decorazione pittoriche, argenterie che mediano l’ordine compositivo tradizionale con temi e forme della cultura orientale.

Dallo stile Bizzarre, al Revel, al Dentelles, la prima parte del Settecento tessile parla un francese ridondante, rococò che accosta temi mutuati dalla natura (fiori, frutta, conchiglie, paesaggi) al repertorio esotico, fino a citare l’appassionata façon del merletto che infiamma la moda del periodo. Un’estetica che si avvantaggia di un’altissima competenza tecnica che consente non solo di tradurre il dato pittorico in tessitura, ma che lavora ad arricchire i fondali monocromi su cui s’impongono gli ornati con “controfondi” che disegnano effetti minuti e preziosi. A metà secolo le proposte sfarzose promosse dalla corte francese iniziano a convivere e poi a cedere il posto ad una rinnovata attenzione all’ornato studiato sulle proporzioni degli antichi esempi. Un elemento sostanziale che genera un cambiamento di direzione nel gusto è l’avvio di campagne archeologiche, rese note al grande pubblico tramite un’editoria dedicata che documenta i resti architettonici e gli arredi mobili rinvenuti negli scavi.
Il tema delle “rovine”, inizialmente rappresenta in chiave documentaria, si dispiega in un genere carico di suggestioni emotive interpretate da scene di genere con soggetti popolari che descrivono un nuovo rapporto tra natura, umanità e arte.
L’idea classicista, pertanto, accoglie e valorizza contenuti che declinano in valori etici, sociali e politici. Tutto questo trova espressione nella predilezione di ornati che fluidificano le composizioni e, nel tessuto, le regimentano in strutture definite a “meandro”.

Nello sviluppo ascensionale di questi elementi s’inseriscono temi che permangono dalla tradizione precedente come scenette esotiche, capricci con rovine e personaggi, piccole vedute con tempietti classici, mazzetti di fiori che si dispongono nelle anse.
Le strutture del meandro prende forma di rami, nastri, pizzi, pellicce enfatizzando così la presenza reale, soprattutto negli abiti, di tali complementi.
La rarefazione degli ornati, nell’ultimo quarto di secolo, si accentua di pari passo al diffondersi del pensiero razionalista: il gusto trova nuove forme espressive nell’alternarsi di righe di diversa larghezza e colore a ghirlanda sottili e delicate. Anche gli effetti d’armatura si dislocano in direzione delle bande verticali, creando piacevoli e delicati intermezzi.

Alla fine del secolo, pertanto, la riga regimenta le strutture decorative dei tessuti fino a vanificarsi a favore del monocromo. Ecco quindi, che una nuova palette cromatica interviene a favore dell’estetica neoclassica: bianco, rosa pallido, verde acqua, celeste, giallo chiaro restituiti in toni velati. I colori appaiono sbiaditi dal tempo, imbiancati dalla polvere dei secoli.  

Nel percorso della mostra sono presenti capi d’abbigliamento maschili e femminili che, contestualizzati con altri manufatti, raccontano la significativa trasformazione delle fogge di questo secolo: dai generosi volumi della robe à la français alla loro riduzione nella robe à la polonaise fino alla citazione classicista della robe en chemise. Un passaggio di forme che nell’abbigliamento segue fedelmente lo sviluppo culturale e sociale del tempo: dai fasti della corte francese alla comodità dello stile di campagna della nobiltà inglese degli ultimi decenni.

Si chiude il secolo del grande artigianato artistico, il mondo dell’industria bussa ormai alle porte.





Maria Paola Forlani

venerdì 23 giugno 2017

MICHELANGELO E L'ASSEDIO DI FIRENZE

Michelangelo e l’assedio di Firenze


Si è aperta a Firenze a Casa Buonarroti, fino al 2 ottobre (catalogo edizione Polistampa) la mostra Michelangelo e l’assedio di Firenze, a cura di Alessandro Cecchi.

Il 12 agostro del 1530 Firenze assediata capitolava, arrendendosi alle truppe imperiali. Aveva resistito per dieci lunghi mesi, anche grazie ai bastioni apprestati da Michelangelo sulla collina di San Miniato, centro nevralgico della difesa della città repubblicana. Fin dall’estate-autunno del 1528 l’artista era stato chiamato, per la sua esperienza di architetto militare, a fornire pareri e progetti per ammodernare le fortificazioni fiorentine e renderle atte a resistere all’impatto devastante delle artiglierie imperiali; ma all’inizio di aprile nel 1529 fu nominato dai Dieci di Balia “generale governatore et procuratore” delle opere di fortificazione per la durata di un anno, con una scelta che riconosceva in lui una indubbia competenza accompagnata da una sicura fede repubblicana. A testimonianza suprema di questa sua attività restano i venti disegni conservati in Casa Buonarroti, databili agli anni 1528-1529, con progetti di fortificazioni tesi a rinforzare e ammodernare le Porte alla Giustizia e al Prato d’Ognissanti, e altri settori delle mura. I fogli, “carichi d’avvampante furore e dirompente energia” secondo la felice definizione di Carlo Giulio Argan, “sono soltanto planimetrie, ma non vanno considerati come studi preparatori in vista di una futura costruzione”. Non lo furono che in minima parte, per la spesa che comportavano e la mancanza di tempo a disposizione.
Nell’estate-autunno del 1529 si preferì ripiegare su fortificazioni effimere ma efficaci come i bastioni che sorsero nei punti deboli della cinta muraria trecentesca. Da questo gruppo di studi unico al mondo si prende l’avvio con la prima sezione della mostra, per mobilitazione e di impegno civile e religioso, attestato dall’esposizione di documenti, libri, dipinti, disegni, monete e medaglie. Se ne trae la veritiera immagine della seconda repubblica fiorentina, pronta, con la protezione di Cristo re, all’estremo sacrificio in difesa della “dolce libertà”, che si rifaceva allo spirito della prima (1494-1512), trovando tra l’altro un supporto ideologico negli scritti di fra Girolamo Savonarola, che era stato uno degli ispiratori, e che era morto come un martire, nel 1498. “Ecco la spada di Dio sulla terra”, sembra gridasse fra Girolamo Savonarola quando un fulmine colpì la cupola di Santa Maria del Fiore.

La seconda sezione della mostra è dedicata ai combattenti di entrambe le parti: i mercenari al soldo di Firenze, come capitani traditori ritratti impiccati in effige per un piede, presenti in disegni di Andrea del Sarto provenienti dagli Uffizi; e i giovani della Milizia e Ordinanza fiorentina che si distinsero invece per il loro valore nella difesa della libertà repubblicana, ripresi con le loro armi dal Pontormo e dal Sarto.
A dar conto di come si combatteva nel primo trentennio del Cinquecento, troviamo tra gli oggetti più tipici e interessanti la spada col fodero, detta Katzbalger, dei Lanzichenecchi, presenti anche in un’incisione del tempo, un corsaletto da cavallo leggero, uno splendido spadone a due mani.

L’ultima sezione è dedicata al connubio fra arte e fede e, in particolare, al Savonarola e alla pittura di soggetto religioso che vide la luce durante l’assedio. Si trattò di opere, tutte presenti in mostra, come la cosiddetta Sacra Famiglia Medici di Andrea del Sarto, o come la Madonna col Bambino e San Giovannino, eseguita forse dal Pontormo per il “Rossino muratore” che gli aveva costruito la casa in quei tempi difficili e procellosi. Lo stesso artista dipinse per le donne dello Spedale degli Innocenti una tavola col Martirio dei Diecimila. Significativa è la tavoletta di Giovanni Antonio Sogliani (attr.) Ritratto di fra Girolamo Savonarola come martire. Il minuscolo dipinto, un vero e proprio “quadretto di minio”, raffigura il predicatore domenicano con il capo raggiato, un libro e la palma del martirio nelle mani, ad attestazione del culto privato che si stabilì fin dalla sua morte, il 23 maggio del 1498, in piazza della Signoria e dette luogo alla commissione di molte immagini del frate, oggi in gran parte disperse. In mostra la preziosa edizione di fra Gerolamo Savonarola Operetta del amore di Jesu. L’opera è un vero e proprio trattato di preghiera e di disciplina contemplativa, risalente agli anni più celebri della predicazione di Savonarola.

L’argomento, fra quelli prediletti dal Frate, trovava poi una sponda evidente nel culto di Cristo secondo le direttive ideologiche e politiche dell’ultima Repubblica. Attenti anche negli aspetti letterari, che già si intravvedono nella xilografia del frontespizio, gli editori ponevano a fine testo, alcune importanti composizioni poetiche. Nella tavola I Diecimila Martiri di Pontormo ricordata da Vasari, è ricavata la leggenda del generale romano Acacio e dei suoi soldati; i quali inviati a sedare una rivolta in Armenia dagli imperatori Adriano e Antonino, si erano convertiti al cristianesimo per ottenere la vittoria promessa loro da un angelo. Sconfitti i nemici e ricevuto il battesimo, ad Acacio e i novemila soldati fu ingiunto di abiurare, ma essendosi rifiutati, l’esercito imperiale procedette al martirio.

Ѐ stato più volte sottolineato dalla critica come l’episodio del martirio di massa dei valorosi seguaci di Acacio, potesse evocare la condizione che i fiorentini vivevano al tempo dell’assedio, quando la Repubblica consacratasi a Cristo, oltre a sopportare il flagello del morbo della peste, lottava per conservare la propria libertà, a costo dell’estremo sacrificio.

Maria Paola Forlani


mercoledì 21 giugno 2017

HENRI CARTIER - BRESSON

Henri Cartier-Bresson

Fotografo

140 scatti di Henri Cartier Bresson sono in mostra alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Raffaele De Grada” di San Gimignano fino al 15 ottobre 2017, dedicati al grande maestro, a cura di Denis Curti, per poterci immergere nel suo mondo, per scoprire il carico di ricchezza di ogni sua immagine, testimonianza di un uomo consapevole, dal lucido pensiero, verso la realtà storica e sociologica. L’esposizione è promossa dall’Assessorato alla Cultura del comune di
San Gimignano, prodotta da Opera-Civita con la collaborazione della fondazione Henri Cartier-Bresson e Magnum Photos Parigi.
Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira testa, occhio e cuore. Ѐ un modo di vivere”. Questa la sintesi di Henri Cartier-Bresson, cofondatore nel 1947 della celebre agenzia Magnum, figura mitica della fotografia del Novecento. Nel 1931 dopo aver studiato pittura, aver frequentato i surrealisti e intrapreso il primo viaggio in Africa, decide di dedicarsi alla fotografia. Da Città del Messico a New York, dall’India di Gandi alla Cuba di Fidel Castro, dalla Cina ormai comunista all’Unione Sovietica degli anni Cinquanta, non cesserà di percorrere il mondo con la fedele Leica inchiodata all’occhio. La mostra di San Gimignano invita lo spettatore a seguire il tiro fotografico di questo instancabile viaggiatore che, rifuggendo dal sensazionalismo e difendendo l’integrità delle proprie fotografie, rende omaggio e prestigio alla fotografia da reportage e rende l’ “immagine secondo natura” un’etica. E un’estetica.
Quando scatta l’immagine guida che è il logo per questa sua nuova rassegna monografica allestita a san Gemignano, Henri Cartier-Bresson ha appena 24 anni. Ha comprato la sua prima Leica da appena due anni, ma è ancora alla ricerca del suo futuro professionale. Ѐ incerto e tentato da molte strade: dalla pittura, dal cinema.
Sono solo un tipo nervoso, e amo la pittura”…”Per quanto riguarda la fotografia, non ci capisco nulla” affermava.
Non capire nulla di fotografia significa, tra l’altro, non sviluppare personalmente i propri scatti: è un lavoro che lascia agli specialisti del settore. Non vuole apportare alcun miglioramento al negativo, non vuole rivedere le inquadrature, perché lo scatto deve essere giudicato quanto fatto nel qui e ora, nella risposta immediata del soggetto.
Per Cartier-Bresson la tecnica rappresenta solo un mezzo che non deve prevaricare e sconvolgere l’esperienza iniziale, reale momento in cui si decide il significato e la qualità di un’opera.
Per me, la macchina fotografica è come un blok notes, uno strumento a supporto dell’intuito e della spontaneità, il padrone del momento che, in termini visivi, domanda e decide nello stesso tempo. Per “dare un senso” al mondo, bisogna sentirsi coinvolti in ciò che si inquadra nel mirino. Tale atteggiamento richiede concentrazione, disciplina mentale, sensibilità e un senso della geometria. Solo tramite un utilizzo minimale dei mezzi si può arrivare alla semplicità di espressione”.
Henri Cartier-Bresson non torna mai ad inquadrare le sue fotografie, non opera alcuna scelta, le accetta o le scarta. Nient’altro. Ha quindi pienamente ragione nell’affermare di non capire nulla di fotografia, in un mondo, invece che ha elevato quest’arte a strumento dell’illusione per eccellenza. Lo scatto è per lui il passaggio dell’immaginario al reale. Un passaggio “nervoso”, nel senso di lucido, rapido, caratterizzato dalla padronanza con la quale si lavora, senza farsi travolgere e stravolgere.
Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge. In quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale”.
I suoi scatti colgono la contemporaneità delle cose e della vita. Le sue fotografie testimoniano la nitidezza e la precisione della sua percezione e l’ordine delle forme.
Egli compone geometricamente solo però nel breve istante tra la sorpresa e lo scatto. La composizione deriva da una percezione subitanea e afferrata al volo, priva di qualsiasi analisi. La composizione di Henri Cartier-Bresson è il riflesso che gli consente di cogliere appieno quel che viene offerto dalle cose esistenti, che non sempre e non da tutti vengono accolte, se non da un occhio disponibile come il suo.
Fotografare, è riconoscere un fatto nello stesso attimo ed in una frazione di secondo e organizzare con rigore le forme percepite visivamente che esprimono questo fatto e lo significano. Ѐ mettere sulla stessa linea di mira la mente, lo sguardo del cuore”.
Per parlare di Henri Cartier-Bresson è bene tenere in vista la sua biografia. La sua esperienza in campo fotografico si fonde totalmente con la sua vita privata. Due episodi la dicono lunga sul personaggio: nel 1946 viene a sapere che il MOMA di New York intende dedicargli una mostra “postuma”, credendolo morto in guerra e quando si mette in contatto con i curatori, per chiarire la situazione, con immensa ironia dedica oltre un anno alla preparazione dell’esposizione, inaugurata nel 1947. Sempre nello stesso anno fonda, insieme a Robert Capa, George Rodger, David Seymour, e William Vandivert, la famosa agenzia Magnum Photos. Insomma Cartier – Bresson è un fotografo destinato a restare immortale, capace di riscrivere il vocabolario della fotografia moderna e di influenzare intere generazioni di fotografi a venire.

Maria Paola Forlani


lunedì 19 giugno 2017

AMANTI

Amanti

Passioni umane e divine


La 14esima mostra internazionale di Illegio (UD) presenta al pubblico fino all’8 ottobre il tema dell’amore di coppia dal titolo “Amanti. Passioni umane e divine” a cura di don Alessio Geretti.
Proprio l’amore di coppia è il file rouge dell’intero percorso espositivo che attraverso opere emozionanti e colpi di scena fa vivere allo spettatore le storie più incantevoli e struggenti, sublimi e torbide che come perenni monumenti rivelano in cosa consiste realmente l’amore e quale sia il suo destino. Attraverso un percorso suggestivo e raffinato per le rarità di alcune iconografie e per l’attualità dei temi, gli spettatori possono ammirare quarantadue opere, tra cui alcuni prestigiosi capolavori provenienti dall’Italia e dall’estero, da importanti musei pubblici e da collezioni private.
La mostra, attraverso, queste straordinarie opere crea un indagine sull’iconografia dell’amore di coppia a partire da quattro cicli narrativi fondamentali della civiltà occidentale: la mitologia classica; la Sacra Scrittura; l’agiografia cristiana; la letteratura dal medioevo cavalleresco al romanticismo ottocentesco.
Qual è il percorso di quell’amore che nutre e sostiene la coppia umana? Che cosa dicono in merito le pagine bibliche della creazione, situate nei primi due capitoli della Genesi? Da esse si comprendono solo due motivi di riflessione.
Il primo motivo concerne l’antropologia dell’’<<immagine>> di Dio, esplicitata in Gen 1,27. Quel passo è elaborato secondo i canoni del parallelismo <<chiastico progressivo>>, una delle norme capitali della letteratura biblica poetica.
Il passo si apre con la dichiarazione: <<Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza>>. A questo punto si ha una sorprendente puntualizzazione dell’<<immagine>> divina nella creatura umana: <<Maschio e femmina li creò>>.
Quindi a <<immagine di Dio>> corrisponde in parallelo la bipolarità sessuale.
La seconda riflessione è <<non è bene che l’uomo sia solo>> (2,18), mentre la realtà <<molto buona/bella>> è che esistano i due sessi (1,31), la cui identità non è una maledizione, bensì una benedizione divina (1,28). Inoltre la creazione dei due sessi è vista non come conseguenza di un peccato di ribellione contro Dio, bensì come un atto d’amore del Creatore nei confronti della sua creatura che si sente sola e imperfetta e che riceve, perciò, un dono, un aiuto e una presenza che gli stia <<di fronte>>, in un dialogo d’amore.
La mostra propone poi la riscoperta di come il linguaggio dell’arte figurativa abbia saputo rendere percepibili quelle grandi domande, attraverso la rappresentazione tanto della dimensione sensuale quanto della dimensione spirituale dell’amore di coppia.
Nella prima sezione “L’amore e le sue figure classiche. Il simbolismo dei sentimenti”

le figure dell’amore attestano quanto la mitologia classica, anzitutto, e la cultura del medioevo cortese poi, siano consapevoli che l’amore è di difficile definizione, poiché nel vissuto umano è occasione di intrecci tra movimenti interiori affini ma non identici e non identicamente limpidi, né facilmente gestibili. Di certo è possibile cogliere il nesso e la differenza tra amore e attrazione sensuale, tra innamoramento e amore, tra amore pacifico e amore tormentato, ma non è possibile tracciare una linea netta di demarcazione tra questi poli del cuore umano e delle relazioni concrete tra l’uomo e la donna.
In tal senso, la mostra intende porre a confronto e leggere sinotticamente almeno alcune delle opere che accostano Eros-Cupido e Venere ad altri personaggi mitologici indicatori dei turbamenti e delle manifestazioni dell’amore (Piero di Lorenzo detto Piero di Cosimo, Venere, Marte, Cupido, 1490-1505; Negretti Jacopo detto Palma il Vecchio, Venere e Cupido, 1520-1528; Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Amore dormiente, 1608, Canova Antonio, Venere e Adone, 1794, e anche Venere e Marte, 1817, ecc..

Nella seconda sezione “La dolcezza della passione. Il nascere dell’amore e i linguaggi della tenerezza ”  i soggetti di fortuna relativamente scarsa nella pittura e nella scultura sino al Neoclassicismo, i gesti che esprimono sentimenti e affetti conobbero una straordinaria e popolare diffusione nelle arti soprattutto a partire dalla poetica romantica.

La sezione si è concentrata specialmente sull’iconografia del bacio d’amore. Quando Francesco Hayez nel 1823 aveva elaborato l’ultimo bacio dato a Giulietta da Romeo su commissione di Giambattista Sommariva, uno dei principali collezionisti della Milano romantica, il pittore aveva ben presenti le due versioni del più celebre dramma amoroso di tutti i tempi, sia la fonte più antica, quella della novella di Luigi da Porto sia la ben più nota tragedia shakespeariana, di cui proprio a partire dagli anni Venti si incominciarono a illustrare i momenti salienti anche ad opera di Agostino Comerio, di Vitale Sala, di Giovanni Migliara e di quella come di altre storie d’amori impossibili e sventurati dei tempi passati avrebbe continuato a fruttificare e accrescere.

Nella quinta ed ultima sezione “Per sempre. L’amore redento e l’Amore divino”
viene messa in luce la Sacra Scrittura e l’annuncio cristiano in cui sta al centro il vangelo dell’amore. L’amore come contenuto del vangelo – in quanto amore di Dio che in Cristo viene a redimere l’uomo – e come oggetto del vangelo – in quanto amore dell’uomo per Dio e per il prossimo che viene finalmente guarito da Dio stesso nella sua fragilità e corruzione dovuta al peccato -.


Di questa rivelazione è in qualche modo segno anche un poema biblico, che sta nel cuore della Bibbia e ne costituisce in un certo senso la chiave di lettura complessiva: il Cantico dei Cantici, il canto dell’amore per eccellenza. Ѐ il canto d’amore tra il Creatore e la sua sposa prediletta Israele. Ѐ il canto di gioia che solo chi ama può dedicare a chi gli ha rapito e portato via il cuore. Il cercarsi, l’incontrarsi, l’allontanarsi sono scene e momenti che danno ritmo all’interno del Cantico, come una rincorsa appassionata attraverso cui ci viene descritta simbolicamente la passione di Dio per la creatura umana, da lui destinata a divenire sua consorte.


La redenzione dell’amore e la ritrovata unità spirituale, nella grazia e nella fede, tra eros e agape si possono riconoscere nell’esperienza mistica dei cosiddetti matrimoni mistici o in alcune estasi di santi, particolarmente travolgenti sul piano sensuale, frequentemente rappresentate nella storia dell’arte. La mostra lo suggerisce proponendo la contemplazione di alcuni dipinti dedicati a Maria Maddalena nel suo evidente distacco dal mondo e nel suo ancor più evidente attaccamento amoroso al Signore.

Sant’Agostino, commentando la prima lettera di Giovanni, si domandava:
<< Quale volto ha l’amore? Quale forma, quale statura, quali piedi, quali mani? [] L’amore ha piedi che lo conducono alla Chiesa, ha mani che donano ai poveri, ha occhi con i quali si scopre chi è nella necessità >>.


Maria Paola Forlani


mercoledì 14 giugno 2017

L'EMOZIONE DEI COLORI NELL'ARTE


L’emozione dei colori nell’arte


Il mondo dei colori non si può dominare con l’intelletto;
dobbiamo comprendere questa realtà col sentimento.
Rudolf Steiner
Il colore è l’anima della natura e dell’intero cosmo, e noi prendiamo parte a quest’anima in quanto partecipiamo, sperimentando, alla vita del colore.
Rudolf Steirner
Dio geometrizza sempre.
Platone



A cimentarsi sul tema – vasto complesso e difficile – del colore è una grande mostra aperta sino il 23 luglio a Torino in due sedi (Castello di Rivoli e GAM-Galleria civica d’arte moderna e contemporanea), L’emozione dei colori nell’arte: quattrocento opere realizzate da centotrenta artisti internazionali tra la metà dell’Ottocento e oggi, con l’intento di ripercorrere la storia dell’uso del colore nell’arte nel periodo considerato. Un approccio da diversi punti di vista, filosofico, biologico, antropologico e neuroscientifico. L’intento è di lasciare definitivamente alle spalle l’obsoleta concezione solipsistica e “puro-visibilista” della visione.
Come splendidamente ha sintetizzato Maurice Merleau-Ponty a proposito di Cézanne.
Cézanne non cerca di suggerire con il colore le sensazioni tattili che darebbero la forma e la profondità. Nella percezione, primordiale, tale distinzioni fra il tatto e la vista sono ignote. Ѐ la scienza del corpo umano che ci insegna poi a distinguere i nostri sensi. La cosa vissuta non è ritrovata o costruita in base ai dati dei sensi, ma si offre di primo acchito come centro donde essi si irradiano. Noi vediamo la profondità, il vellutato, la morbidezza, la durezza degli oggetti – Cézanne dice perfino: il loro odore. Se il pittore vuole esprimere il mondo bisogna che la disposizione dei colori rechi in sé questo Tutto indivisibile; altrimenti la sua pittura sarà un’allusione alle cose e non le offrirà nell’unità imperiosa, nella presenza e nella pienezza insuperabile che per noi tutti del reale. (1962)

La mostra, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, indaga sull’uso del colore nell’arte suggerendo significati che tendono a ridisegnare una nuova storia del colore e dell’arte astratta, attraverso una molteplicità di narrazioni intessute di memorie, spiritualità e suggestioni sinestetiche, in grado queste ultime di coinvolgere anche tutti gli altri sensi. Così tra le prime novità, spicca, quella di aver individuato i precedenti dell’arte astratta occidentale nelle opere realizzate nel XVIII secolo dai seguaci dell’Hindu Tantra, un insieme di testi e di insegnamenti spirituali legati a tradizioni esoteriche indiane e in genere orientali.

Nel Settecento le indagini scientifiche sul colore di Isaac Newton e un secolo dopo le teorie di Johann Wolfgang Goethe, pur con le loro visioni opposte, hanno influenzato gli artisti. Per esempio la fascinosa Alba, forse a Margate, di Turner (1840-1845), intrisa di luce, è ispirata alla Teoria dei colori del 1810 di Goethe:
L’intera natura si rivela attraverso il colore al senso della vista. Ora affermiamo, seppure in certa misura ciò possa suonare singolare, che l’occhio non vede alcuna forma, in quanto soltanto chiaro, scuro e colore stabiliscono insieme ciò che distrugge un oggetto dall’altro e la parte di un oggetto dalle altre.
Joann Wolfgang von Goethe, 1810

Tra scienza, filosofia, sociologia si snodano le opere esposte in un tripudio di tinte e forme disparate nelle tematiche, nel linguaggio, nella concezione e negli intenti, unite dall’attenzione al colore, usato in modo diverso da ciascun artista. Una piccolissima tela di Manet, Il limone, (1880) giunta dal Musée d’Orsay, vede il frutto spiccare giallo e polposo su un fondo scuro. Con il suo colore intriso di luce, elemento fondamentale, attira il nostro sguardo elevando l’umile soggetto a valore assoluto.

Sfilano le opere di artisti famosi. Munch, dopo il suo ricovero in una clinica di Copenaghen nel 1908-1909, affida a un’inquieta cromia le sue condizioni psicologiche. Il ritratto dell’amica Ingeborg con le braccia dietro la schiena del 1912-1913 è costruito da linee inquiete di solo colore, pennellate fluide, dai forti contrasti, come in attesa di un’imminente tempesta.


Piet Mondrian, l’artista olandese inventore di un radicale astrattismo, affida al colore il ruolo dell’emancipazione della pittura dalle forme tradizionali.
Vasilij Kandinskij, uno dei primi maestri dell’astrattismo e fondatore del Blaue Reiter, nel 1911-1912, pubblica Lo spirituale nell’arte e nel 1926 Punto, linea, superficie. Nei suoi scritti il colore, insieme alla forma, con la sua <<forza psichica>> ha il potere di fare <<emozionare l’anima>>. Ѐ quello che succede con Impressione VI. Domenica, del 1911, una ridda di colori che potrebbero essere suoni. Stretto è infatti per l’artista il rapporto tra pittura e musica, come denotano i titoli delle sue opere: impressioni, composizioni, improvvisazioni.

 
Seguono altri artisti ciascuno con la sua opera fortemente cromatica, da Gabriele Münter a Marianne Verefkin, da Matisse a Kupka, da Klee a Balla a Russolo.


E ancora Depero, Hans Richter. Quest’ultimo, artista molto interessante, entrato nel movimento Dada il 15 settembre 1916, lavora in quegli anni a una serie di undici ritratti fra i quali Anima locomotrice, Ritratto visionario, del 1916, in cui sperimenta un uso del colore più libero, precedente alla rielaborazione dell’occhio e ai consueti schemi compositivi.


Pinot Gallizio <<archeologo, botanico, aromatario, chimico, partigiano delle Langhe>>, come si presentava nel 1958 nel catalogo della prima mostra alla Galleria Nazionale di Torino, nel 1955 aveva creato ad Alba un “Laboratorio sperimentale per una Bauhaus immaginista”, dove elaborò un utilizzo di colori di origine vegetale.
Nella sua “pittura industriale” la tela veniva cosparsa di colori ed esposta alle intemperie, e in seguito venduta un tanto al metro. Una rivoluzione e una sfida al mercato dell’arte. Tra le sue riflessioni intorno al concetto di materia-colore, ecco un quaderno di schizzi: <<Segni e dodecofania dei colori equipollenti e atonali>>.
Un esempio, è l’intrigante senza titolo, del 1958.

L’innovazione tecnologica ha permesso di aggiungere un ulteriore livello nel processo di messa in immagine: la riproduzione cine-fotografica, analogica prima o poi digitale, delle immagini. Quando guardiamo la riproduzione digitale di un quadro proiettata su uno schermo, ciò che esploriamo con gli occhi è l'immagine di un’immagine.


Le storie del colore moderno sono tante, una per ogni artista. Peccato che i curatori abbiano tralasciato un grande innovatore della ricerca cromatica come Seurat.


Maria Paola Forlani