sabato 30 settembre 2017

LINO SELVATICO

Lino Selvatico

Mondanità e passione quotidiana


Tra i più richiesti e apprezzati ritrattisti del Novecento italiano, “squisito indagatore dell’anima attraverso le fattezze del volto umano” come lo definì Pompeo Molmenti, Lino Selvatico (1872-1924) è stato recentemente riproposto all’attenzione della critica e del pubblico ed è ora protagonista a Padova della più ampia retrospettiva mai realizzata sull’artista, destinata – con oltre cinquanta dipinti e sessanta opere grafiche, esposte queste ultime per la prima volta – a imporsi come momento cardine nella rivalutazione della sua figura (catalogo grafiche Turato ).

Prodotta dal Comune di Padova con il Comitato Celebrazioni Lino Selvatico Pittore, allestita ai Musei Civici agli Eremitani fino al 10 dicembre 2017, curata da Davide Banzato, Silvio Fuso, Elisabetta Gastaldi e Federico Millozzi, l’esposizione mette in luce non solo l’abilità dell’artista nei ritratti di tono mondano, ma anche le sue note di maggiore intimità, l’attenzione a spunti di verità derivati dalla vita quotidiana che egli sapeva cogliere con spirito familiare e affettuoso e rendere con scintillante perizia nella stesura di un colore vivo e vibrante.

Mondanità e passione quotidiana dunque: due tratti che connotano il percorso artistico e umano di Selvatico negli ambienti borghesi e aristocratici lagunari, milanesi o parigini, così come nelle dimensioni familiari delle sue abitazioni, a Mira e Biancade (la celebre Villa dell’Orso), nel cruciale passaggio tra Otto e Novecento.
Figlio del poeta e commediografo Riccardo – che fu sindaco di Venezia e ideatore della Biennale internazionale d’Arte – nato incidentalmente a Padova, ove la famiglia aveva forti interessi commerciali, e laureato in legge all’ateneo patavino, Lino fin dal suo esordio alla III Mostra Internazionale d’Arte del 1889 aveva mostrato le grandi potenzialità che lo avrebbero presto condotto al successo.

Come ritrattista era dotato di mezzi tecnici ed espressivi personali e sicuri, con un’abilità del tutto inedita nel rendere l’aura e le personalità del personaggio effigiato. Così – grazie anche a una rete di relazioni di primo piano – le commissioni da ambienti alto borghesi e nobili divennero sempre più numerose, giungendo in qualche caso anche da esponenti di case reali, come fu il ritratto di Alfonso III di Borbone giovane re di Spagna, realizzato nel 1922.
Frequentatore di intellettuali e artisti, ben introdotto nei circoli di Venezia e Milano, amico dei Sarfatti, Selvatico raggiunse con la fama anche il riconoscimento da parte di critici autorevoli come Primo Levi, Pompeo Molmenti, Vittorio Pica e il potentissimo Ugo Ojetti, partecipando a numerose esposizioni nazionali ed internazionali.
“Selvatico era però un artista sensibile e attento anche ad altri aspetti – scrive Davide Banzato nella sua introduzione al catalogo della mostra – in continua evoluzione, capace di combinare a una visione sostanzialmente realistica spunti dal simbolismo e dal liberty e seguire il nuovo vento che spirava sulle arti durante e dopo gli anni travagliati del primo conflitto mondiale”.

In particolare è nei nudi che il pittore riesce a trasfondere stati d’animo che vanno dalla semplice ammirazione formale, all’eleganza della linea e delle forme, fino a una vera passione per il femminile.
Le donne rimangono protagoniste dei suoi dipinti, anche descritte nella loro nudità ma sempre come icone moderne: nelle loro pose, con le loro sigarette e il loro languore.
Aspetti emblematici di Selvatico, che emergono anche nella ricca e ancora poco nota produzione grafica, esposta nella mostra degli Eremitani di Padova per la prima volta. Nel percorso espositivo ci sono infatti, in dialogo con i dipinti, anche i disegni e le stampe dell’artista (rinvenuti solo nel 2008): studi preparatori e interpretazioni grafiche dei soggetti a lui più cari, rivelatori della sua altissima qualità di disegnatore e incisore, sperimentatore di tecniche raffinate in particolare, appunto negli stupendi nudi femminili.

Una assoluta novità per il pubblico e per la critica.
Selvatico si scopre dunque ricercatore di perfezione tanto nella pittura, con colori corporei ma allo stesso modo evanescenti, quanto nello studio del segno e soprattutto nell’opera incisoria, una tecnica che non ammette errori e che egli aveva appreso da Emanuele Brugnoli, fondatore della libera scuola di incisione.
Nella grafica sono evidenti richiami all’espressionismo di area tedesca e in particolare al simbolismo di von Stuck.

Era certamente difficile, all’epoca in cui in Europa s’imponevano le avanguardie, essere innovativi, soprattutto in ambito italiano, ma Selvatico nel suo corpus grafico esprime originalità, sperimentando diverse tecniche – carboncino, graffite, gessetti, pastelli, sanguigna, acquarelli – e raggiungendo notevoli effetti chiaroscurali e luministici.

Quella grafica è comunque una produzione più intima, in cui il pittore ricerca e libera la fantasia nel fissare i gesti del piccolo Riccardo come nel ritrarre le sue modelle nude, spesso erotiche ma mai volgari, mantenendo armonia ed eleganza compositiva: una produzione che egli volle tenere con sé fino alla morte, giunta prematuramente nel 1924, a soli 52 anni.


Maria Paola Forlani

venerdì 29 settembre 2017

CANOVA, HAYEZ, CICOGNORA

Canova, Hayez, Cicognara

L’ultima gloria di Venezia


“tutto ciò che concerne Venezia è o fu degno d’osservazione;
il vederlo fa l’effetto di un sogno,
i suoi annali sono un romanzo”
Lord Byron


Fino al 2 aprile 2018 le Gallerie dell’Accademia di Venezia presentano la mostra
Canova, Hayez, Cicognara. L’ultima gloria veneziana ( catalogo Marsilio) a cura di Fernardo Mazzocca, Paola Marini e Roberto De Feo: nell’anno delle celebrazioni del bicentenario dell’apertura di un museo di qualità internazionale, che divenne il primo risarcimento rispetto alle perdite di tanti capolavori in grande parte sottratti alle chiese e alle Scuole soppresse, l’esposizione costituisce l’occasione per onorare un momento speciale della storia artistica della Serenissima, rievocando quella stagione di rilancio culturale che si afferma nel 1815 con il ritorno da Parigi dei quattro cavalli di San Marco, opera simbolo della città.

Il regista indiscusso di questa favorevole congiuntura fu il conte Leopoldo Cicognara (Ferrara, 26 novembre 1767 – Venezia, 5 marzo 1834), intellettuale e presidente dell’Accademia di Belle Arti, che insieme all’amico Antonio Canova, nume tutelare di questo progetto, e a Francesco Hayez, lavorò per dare vita ad un museo di rilievo internazionale, capace di valorizzare lo straordinario patrimonio artistico della Serenissima, promuovendo allo stesso tempo l’arte contemporanea.

Gli anni presi in considerazione da questa mostra sono stati un periodo di grandi speranze, un momento contraddittorio e singolare nella millenaria storia di Venezia.
L’inizio e la fine sono rappresentati da due eventi epocali, destinati a rimanere a lungo impressi nella memoria collettiva: il ritorno sul pronao della basilica di San Marco, il 13 dicembre 1815, dei quattro cavalli bronzei, che nel 1797 erano stati trasferiti a Parigi e issati sull’Arco di Trionfo del Carrousel, e la morte nel 1822, proprio a Venezia, di Antonio Canova, in singolare coincidenza con la decisione da parte di Francesco Hayez di abbandonare la sua patria per trasferirsi definitivamente a Milano.
Ed è importante introdurre in primis la figura chiave del conte ferrarese Leopoldo Cicognara, con il suo spirito intraprendente e europeo, che degli eventi rievocati in questa mostra è stato il grande interprete con l’amico Canova,  figure considerate allora le sole glorie europee dell’Italia contemporanea.
La reputazione e la dimensione internazionale di Cicognara, alimentata dai suoi
numerosi
viaggi di aggiornamento, furono soprattutto legate alla
Storia della scultura ancora insuperata come visione d’insieme della storia di quell’arte nel nostro paese dalla tarda antichità sino a Canova, cui veniva dedicato l’ultimo volume della monumentale opera
. Quello che più colpisce in Cicognara, e ne determina in qualche modo l’indiscutibile grandezza, è la capacità che ha sempre dimostrato di unire all’incessante attività di storico ed erudito uno straordinario impegno militante, per cui ha saputo reggere, in un momento davvero difficile, la gestione dell’immenso patrimonio artistico veneziano e nello stesso tempo seguire da vicino lo sviluppo dell’arte contemporanea. La sua attività di tutela e la formazione di un grande museo, individuato anche come strumento per incoraggiare leve di giovani artisti da inserire sia nelle commissioni pubbliche sia nel mercato, cercando così di creare una nuova figura professionale, erano iniziate da quando nel 1808 aveva preso in mano le redini dell’Accademia di Venezia.

La mostra con oltre 130 opere di rilievo, allestita negli spazi al pianterreno del museo mette in luce le figure dei protagonisti della vicenda che si propone di narrare – Leopoldo Cicognara, Antonio Canova, Francesco Hayez – e introduce alcuni dei temi più significativi che l’hanno caratterizzata: dal ritorno a Venezia delle opere d’arte asportate dai francesi, all’acquisizione della collezione di disegni del segretario dell’Accademia di Belle Arti di Milano Giuseppe Bossi; dalla ricostruzione dell’Omaggio delle Province Venete all’Austria, alla produzione degli artisti contemporanei, agli anni veneziani di George Byron, cruciali per lo sviluppo del Romanticismo.

Nel percorso, organizzato in dieci sezioni, spicca la riunione e il ritorno a Venezia dopo duecento anni, della serie di manufatti inviati nel 1818 alla corte di Vienna per il quarto matrimonio dell’imperatore Francesco I e noti come l’ “Omaggio delle Province Venete”. Sono esposti la Musa Polimnia di Canova, dipinti, gruppi scultorei, due are e altrettanti grandi vasi di marmo, un tavolo realizzato in bronzo e legno con il piano ricoperto da pregiati vetri di Murano e preziose rilegature, opera dei migliori artigiani veneti del tempo, rappresentanti della più alta e unitaria produzione artistica del Neoclassicismo.

Ma l’esempio più significativo di un riuscito connubio tra le arti “liberali” e quelle  “meccaniche” fu l’inserimento, da parte di Cicognara dell’Assunta di Tiziano nella sala dell’Accademia. Possiamo solo immaginare la magia di quell’allestimento, quando i venti colorati provenienti da quello che Canova e Cicognara consideravano il più bel quadro del mondo si riverberavano sul candore di quella statua eretta
<<sul bilico ove gira al soffio dell’aria che spira nell’aprire una finestra, e all’appressarsi del dito mignolo d’una donzella>>. Così si esprimeva Cicognora in una straordinaria emozionante lettera a Canova l’8 agosto 1817, aggiungendo:
Essa signoreggia così quella gran sala ove è posta nel centro che produce un effetto meraviglioso, e quello che più di tutto è osservabile si è l’ascendente della realtà sugli oggetti dell’illusione. Quella sala coperta dei capi d’opera dell’arte meravigliosi fra i quali il più bel Tiziano che siasi visto da occhi umani la quale sbalordiva entrando chiunque aveva occhi, ora tutto cede al rilievo, alla verità, e la povera pittura si contenta di far mestiere di fondo all’opera di scalpello>>.

La <<povera pittura>> sarà destinata a far ancora <<di fondo>> in un’altra occasione, quando il 16 ottobre 1822 davanti all’Assunta saranno collocate le spoglie mortali di Canova per la solenne memoria celebrata da Cicognara, come è ricordato nel celebre dipinto di Borsato esposto all’Accademia nel 1822.


Maria Paola Forlani



venerdì 22 settembre 2017

SECESSIONI EUROPEE

Secessioni Europee. Monaco Vienna Praga Roma

L’onda della modernità


Le influenze del Preraffaellismo, del Simbolismo francese e di quello belga di Torop nonché i fermenti suggestivi dell’Art Nouveau confluiscono sul finire del secolo nelle cosiddette Secessioni. Il Simbolismo, in generale, aveva inteso << trarre dalle cose materiali, attraverso una serie di decifrazioni, uno stato spirituale>>. Herman Bahr, l’apostolo della Secessione, esorta a dipingere quadri in cui << si veda l’anima >>.

Negli ultimi anni in Italia il tema delle Secessioni è stato indagato e presentato in rassegne prevalentemente dedicate al singolo episodio viennese e a quello romano.
Secessione. Monaco Vienna Praga Roma. L’onda della modernità”. È la mostra a cura di Francesco Parisi aperta a Rovigo a Palazzo Roverella fino al 21 gennaio 2018, (catalogo SilvanaEditoriale), l’evento propone per la prima volta un panorama complessivo delle vicende storico-artistiche dei quattro principali centri in cui si svilupparono la Secessione: Monaco, Vienna, Praga e Roma. Evidenziando differenze, affinità e tangenze dei diversi linguaggi espressivi nel primo vero scambio culturale europeo, basti pensare a Gustav Klimt e a Egon Schile che esposero alle mostre della Secessione Romana o a Segantini che partecipò alle annuali mostre viennesi. Nella rassegna vengono messi in evidenza gli esiti modernisti della secessione monacense, il trionfo del decorativismo della secessione viennese, il visionario espressionismo del gruppo Sursum praghese fino al crocevia romano e alla sua continua ricerca di una via altra e diversa.

Scandita per sezioni tematiche dedicate alle singole città europee, la mostra si apre, cronologicamente, con la Secessione di Monaco.
Quando, nel 1892, apparve sulla scena, non presentava una fisionomia ben definita e specifica, ma presto avrebbe assunto quel taglio modernista che sarà definito Jugendstil, titolo derivato dalla rivista << Jugend>> che ospitò le illustrazioni della giovane bohéme monacense e non solo, arrivando ad includere nel corso degli anni anche artisti italiani. Al movimento aderirono Franz von Stuck, Ludwig von Hofmann, Carl Strahatman, Thomas Theodor Heine. Il focus dell’intera sezione della mostra dedicata alla Secessione di Monaco è incentrata principalmente su gruppi di opere prodotte tra il 1898 e il 1910.

Nella secessione di Vienna l’artista più noto e discusso è senza dubbio Gustav Klimt (1862-1918), il rappresentante più scoperto del decadentismo. Osservando le sue opere il pensiero corre a D’Annunzio: << Egli era giunto a perpetuare nel suo spirito, senza intervalli, la condizione misteriosa da cui nasce l’opera di bellezza e a trasformare così d’un tratto in specie ideali tutte le figure passeggere della sua esistenza volubile>>. In mostra sono presenti opere fondamentali dell’artista sia di pittura, come Amiche (Le sorelle) e Signora con cappello su sfondo rosso, che di grafica come ad esempio il manifesto della prima mostra della Secessione Viennese) al volgere del secolo il movimento iniziò a rappresentare con i suoi compiacimenti astratto-razionalisti e bizantineggianti una visione diversa dell’arte rispetto al Modernismo europeo, estendendo la sua influenza, come la consorella monacense, verso l’area italiana e slava.


Nonostante la Secessione di Vienna sia stata quella con un respiro più internazionale l’attenzione in mostra è posta in particolare sull’aspetto autoctono degli artisti esposti, con particolare rilievo alla pittura, alla grafica e alle arti decorative. In questa sezione immancabili sono Josef Maria Auchentaller, Kolo Moser, Carl Otto Czeschka ed ovviamente Egon Schile.

La secessione di Praga prese forma in una serie di gruppi di artisti più o meno organizzati, che a partire dal 1890 si ritrovarono a manifestare le loro idee in aperto contrasto con l’arte ufficiale boema. Tra i primi movimenti modernisti sicuramente il ruolo apripista lo ebbe il gruppo Manes, sorto singolarmente nell’accademia di Monaco, ma presto trasferitosi a Praga nel tentativo di riformare l’arte nazionale Ceca. Attorno al 1910 si formò invece il più celebre gruppo Sursum, che manteneva al suo interno diverse anime, da quella più espressionista e Nabis di Josef Vachal a quella più finemente tardo simbolista di Frantisek Kobliha e di Jan Konůpek (sua è la slendida Salomé in mostra) fino alle sculture Jaroslav Horejc. Dato il grande sviluppo dell’illustrazione, del disegno e dell’incisione, circa un terzo dell’intera sezione è costituito da opere su carta.

A differenza delle secessioni europee, che mostravano tutte una predisposizione all’estetica simbolista, la Secessione di Roma (1913-1916) aveva una formula diversa, quella dell’esposizione libera e “giovane” che permetteva al suo interno, seppur con alcune limitazioni, lo svilupparsi di linguaggi differenti. Ben distinta dalle avanguardie futuriste la Secessione romana era legata piuttosto a criteri che appartenevano ancora ad un ambito di “aristocrazia dell’arte” che ne limitava le sperimentazioni più ardite, ma altresì aperta a suggestioni internazionali: la Prima Esposizione Internazionale della Secessione fu l’occasione per vedere in mostra per la prima volta opere di Matisse e dei post-impressionisti, mentre l’anno successivo, alla II Esposizione, accanto a Cézanne e Matisse, furono presenti Klimt e Schile.




Tra i maggiori rappresentanti della corrente romana, Enrico Lionne, Giuseppe Biasi, Aleardo Terzi, Plinio Nomellini (splendido il suo ritratto di Grazia Deledda) e Felice Casorati (con il ritratto di Ada).



Maria Paola Forlani

giovedì 21 settembre 2017

IL CINQUECENTO A FIRENZE

Il Cinquecento a Firenze

“Maniera Moderna” e Controriforma


Fino  al 21 gennaio 2018 Palazzo Strozzi ospita Il Cinquecento a Firenze, ( catalogo Mandragora) una straordinaria mostra dedicata all’arte del secondo Cinquecento a Firenze. Ultimo atto d’una trilogia di mostre a Palazzo Strozzi a cura di Carlo Falciani e Antonio Natali, iniziata con Bronzino nel 2010 e Pontormo e Rosso Fiorentino nel 2014, la rassegna celebra un’eccezionale epoca culturale e di estro intellettuale, in un confronto serrato tra “maniera moderna” e contemporanea, tra sacro e profano: una stagione unica per la storia dell’arte, segnata dal concilio di Trento e dalla figura di Francesco I de’ Medici, uno dei più geniali rappresentanti del mecenatismo di corte in Europa.

La mostra comprende oltre 70 tra dipinti e sculture, per un totale di 41 artisti, espressione della temperie culturale di quel tempo. Lungo le sale di Palazzo Strozzi si trovano a dialogare, in un percorso cronologico e tematico allo stesso tempo, opere sacre e profane dei grandi maestri del secolo come Michelangelo, Pontormo e Rosso Fiorentino, ma anche pittori quali Giorgio Vasari, Jacopo Zucchi, Giovanni Stradano, Girolamo Macchietti, Mirabello Cavalori e Santi di Tito e scultori come Giambologna, Bartolomeo Ammanati e Vincenzo Danti, solo per nominare alcuni di coloro che furono coinvolti nelle imprese dello Studiolo, della Tribuna e nella decorazione delle chiese fiorentine. Artisti capaci di giocare su più registri espressivi – dall’ispirazione religiosa alle passioni comuni – mediando la propria formazione, avvenuta sui grandi maestri d’inizio secolo, con le istanze di un mondo che affronta un complesso cambiamento verso l’età di Galileo Galilei, aperta a una nuova visione sia della natura sia dell’espressione artistica di respiro europeo.



Le prime due sale riassumono quanto è stato presentato nelle mostre su Bronzino e Pontormo e Rosso, esibendo opere che in esse non erano esposte e accostando capolavori degli anni Venti del Cinquecento creati da artisti che sarebbero stati maestri indiscussi di tutto il secolo, a Cominciare da Andrea del Sarto e Michelangelo. Le meditazioni svolte da Andrea nella Pietà di Luco (1523 – 1524) furono cruciali negli anni che videro la Chiesa di Roma ribadire, al cospetto di dissensi e dinieghi divulgati dal pensiero luterano, principi fondamentali come la presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata. Andrea fu modello di stile per i pittori fiorentini: da quelli spregiudicati cresciuti alla sua ombra (Pontormo e Rosso, appunto) a quelli annoverati nella genealogia ideale che da Pontormo prende le mosse per proseguire col Bronzino e pervenire ad Alessandro Allori, fino a intaccare il Seicento. Le opere di Andrea furono copiate e studiate per decenni, non solo per le loro doti stilistiche, ma anche per aver con largo anticipo mostrato quella chiarezza espositiva e quel modo accostante d’offrirsi che erano ricercati dal concilio di Trento. Anche Michelangelo fu modello di riferimento imprescindibile per gli artisti, soprattutto per le opere della Sagrestia Nuova, lasciata incompiuta al momento della partenza per Roma nel 1534, ma qui evocata del Dio fluviale (1526-1527 circa) dopo il restauro. Il Mercurio di Bandinelli indica subito la compresenza in mostra di temi sacri e profani.

Nella seconda sala si squadernano in un confronto inedito, da manuale di storia dell’arte e come in un trittico ideale, tre capisaldi di tutta l’arte occidentale: la Deposizione di Volterra del Rosso Fiorentino (1521), la Deposizione di Santa Felicita del Pontormo (1525-1528) e il Cristo deposto di Besançon del Bronzino (1543-1545 circa). Al pari Andrea del Sarto nella Pietà di Luco, anche il Pontormo sceglie di rendere esplicita la presenza del corpo del Cristo nell’ostia consacrata
immaginandosi due angeli che ne depongono il cadavere sull’altare sottostante: la pala di Santa Felicita viene a porsi lungo una linea storico-figurativa che unisce la visione naturalistica di Andrea del Sarto alle riflessioni teologiche che il Bronzino svolge un ventennio dopo nella cappella di Eleonora in Palazzo Vecchio, quando si confronta con lo stesso soggetto. Percorso diverso sarà quello del Rosso, che troverà pochi seguaci nella Firenze granducale per il suo linguaggio arcaizzante eppure spregiudicato.
La seconda parte della sala offre un panorama delle arti figurative fino alla prima edizione delle Vite di Giorgio Vasari, stampata nel 1550, con opere di Cellini, Salviati e Vasari stesso.

La terza sala è dedicata alle opere create nello spirito della controriforma: l’attuazione delle prescrizioni sull’assetto delle chiese imposte dal concilio di Trento, conclusosi il 4 dicembre 1563, fu fortemente sostenuta a Firenze da Cosimo
de’ Medici.
All’origine della volontà del rinnovamento architettonico voluto dalla Chiesa c’era soprattutto la necessità – di fronte ai distinguo luterani – di sottolineare la presenza reale di Dio nell’ostia consacrata. Vennero dunque abbattuti i tramezzi, che nelle chiese conventuali dividevano i laici dai religiosi impedendo il contatto diretto dei fedeli con l’altare maggiore, e furono uniformate le cappelle laterali, per le quali si commissionarono nuove grandiose pale. Questi dipinti dovevano, con modi accostanti, raffigurare episodi sacri facilmente comprensibili a tutti e includere personaggi in abiti moderni per facilitare l’immedesimazione dei credenti, coinvolgendoli anche emotivamente e orientandoli verso pensieri devoti.

La quarta sezione prende in esame la ritrattistica.
Nella ritrattistica fiorentina di secondo Cinquecento convive la stessa varietà di stili che in mostra si riscontrano nello Studiolo di Franceco I in Palazzo Vecchio.


Nella quinta sezione viene esaminato lo studiolo con le sue componenti figurative.
Francesco de’ Medici rispecchia la propria personalità nel sofisticato Studiolo di Palazzo Vecchio, concepito per allestire “cose rare et pretiose”, secondo un complesso programma incentrato sul tema del rapporto fra Natura e arte, predisposto da don Vincenzo Borghini, colto intellettuale vicino a Cosimo.

Lo Studiolo fu portato a compimento tra il 1570 e il ’75 su progetto di Vasari e vi collaborarono artisti in linea con gli interessi di Francesco, che, appassionato di scienze, praticava in prima persona l’alchimia e attività sperimentali.
Le sei lunette, qui riunite per la prima volta, destinate a figurare le virtù di uno sconosciuto committente, sono quanto resta di uno dei cicli pittorici di soggetto profano e allegorico eseguiti da alcuni dei pittori coinvolti nello Studiolo mediceo.
La sesta sala è pensata alla stregua di un controaltare di quella dedicata all’arte sacra e intende ribadire come a Firenze gli stessi artisti che aderiscono ai principi della controriforma nelle pale destinate alle chiese, percorrono in parallelo una via allegorica, ricca di sensualità, concettuale e destinata a pochi eruditi, spesso riuniti nelle Accademie.




La settima sala accoglie opere sacre, ancora nella linea della sensibilità controriformata, ma con un’ottica nuova, che rifugge dalle visioni centrate e “normalizzate” del periodo immediatamente successivo al concilio di Trento e con tagli delle figure e delle composizioni non ortogonali e assimetriche.
L’ottava sala presenta  l’“avvio al Seicento”.


La cultura figurativa fiorentina all’inizio del Seicento non guarda solo al glorioso passato (quello più recente era peraltro entrato dalla metà degli anni ottanta del Cinquecento nell’allestimento dell’appena nata Tribuna di Francesco agli Uffizi), ma è attenta alle novità espressive che animano altre realtà italiane all’avanguardia, come Bologna e Roma. Santi di Tito segna la via cittadina del rinnovato interesse verso il naturale (spesso ritenuto prerogativa del mondo lombardo ed emiliano), sia per precocità di date che per qualità pittorica delle opere, in una linea che in lui si arricchisce di notazione luministiche. Per la facciata della chiesa fiorentina di Santa Trinita il toscano Pietro Bernini lavora insieme a Giovan Battista Caccini al rilievo con la Trinità; poi a Napoli e a Roma mostrerà le premonizioni fiorentine per il nuovo secolo, in una coesistenza di tensioni prebarocche e di tradizione disegnativa.


Maria Paola Forlani