domenica 29 ottobre 2017

LE TRAME del GIORGIONE

Le trame di

Giorgione

Si è aperta a Castelfranco Veneto, fino al 4 marzo 2018, una mostra dal suggestivo titolo Le trame del Giorgione a cura di Danila Dal Pos (catalogo Duck Edizioni),
che presenta capolavori della storia dell’arte e del tessuto riuniti in Casa Giorgione con il compito di svelare una innovativa storia del costume.


La “Pala di Castelfranco”, capolavoro primo di Giorgione, offre il naturale punto di partenza per una sontuosa esposizione che trova negli ambienti del Museo Casa Giorgione il suo fulcro. Per espandersi poi in diversi siti della Città Murata, destinati ad accogliere l’attualità della grande tradizione di tessoria della Serenissima di cinque secoli fa.

“Le trame del Giorgione” si presenta come una mostra affascinante e coinvolgente, ricchissima di capolavori e ancora più di storie e di nuove proposte interpretative.
Si muove nel doppio binario della storia dell’arte e della storia del tessuto, a comporre una originale storia del costume.
Una delle chiavi di lettura scelta dalla curatrice Dal Pos è quella allegorica, visione che consente anche di illustrare diversamente l’opera e la figura del Giorgione. Proprio a partire dalla Pala, opera di devozione certo, ma anche potente messaggio politico e allegorico.

La tavola è apparentemente tradizionale, sia per il tema della <<sacra conversazione>>, sia per la posizione simmetrica dei santi ai lati della Vergine. Anche l’altezza del trono ha dei precedenti: per esempio nella Pala di San Cassiano di Antonello da Messina, dipinta a Venezia nel 1475-1476, oltre che in opere di ambienti diversi, ma forse ugualmente note a Giorgione, come la Pala di Santa Maria in Porto dipinta da Ercole de’ Roberti nel 1481 a Ravenna.
Ma la posizione elevata della Madonna serve a Giorgione per darle il ruolo di tramite fra sacro e profano, fra l’intimità raccolta della zona anteriore dove sono i santi e l’apertura verso il mondo.

Anche il convergere delle linee prospettiche, apparentemente legato alla tradizione fiorentina, contribuisce a questo scopo, perché il punto di fuga, estremamente rialzato, si trova al di sopra del pannello che separa la zona anteriore da quella retrostante, in modo che il nostro sguardo va al di là del divisorio partecipando alla vastità spaziale.
Non vi è dunque nessuno scarto prospettico dovuto a inesperienza giovanile, come qualcuno ha sostenuto adducendo a prova che il basamento del trono è visto dall’alto e i braccioli dal basso, senza rendersi conto che ciò dimostra esattamente il contrario, perché la linea d’orizzonte si trova in un punto intermedio fra l’uno e gli altri.
Si è poi presunto di vedere in questa tavola un altro errore nelle misure della Madonna e del Bambino che sono sembrate troppo piccole rispetto ai santi.
Ma anche in questo caso non vi è errore. Semmai Giorgione ne ha aumentato le grandezze per evitare che l’applicazione scrupolosa e meccanica della legge prospettica le diminuisse al punto da far perdere loro il ruolo di protagonisti.
Si è anche creduto che le figurazioni fossero prima disegnate e poi colorate seguendo l’indirizzo rinascimentale fiorentino. Neppure questo è vero, o per lo meno lo è parzialmente. Perché solo l’impianto prospettico-architettonico è disegnato, o, meglio, è stato inciso con una punta sul gesso della preparazione secondo la tecnica usuale nel ‘400. Per il resto non esiste disegno: tutto è realizzato con strati di colori sovrapposti; il colore crea forme, gli spazi, le luci con i vari toni che assume.
Se la prospettiva lineare serve per realizzare lo spazio nell’ambiente al di qua del divisorio, al di là la distanza è indicata dalla disposizione dei colori, i quali non degradano, come in Leonardo, ma variano passando dalle tonalità più calde dei primi piani a quelle fredde dello sfondo. Certo, come già si è avvertito, il senso atmosferico che emana dal paesaggio è conseguenza delle ricerche di Leonardo, ma alla <<prospettiva aerea>> di quest’ultimo, Giorgione sostituisce, sviluppandola con maggior ampiezza, la <<prospettiva cromatica>> già attuata da Giovanni Bellini.
Dalle molteplicità dei toni riposanti nella morbida luce attenuata, dall’atteggiamento rilassato dei personaggi, dalla loro pensosità, dal distendersi del paesaggio silenzioso, nasce la dolce, sognante malinconia, il racconto intimistico tipici dell’animo giorgionesco.
La Pala di Castelfranco viene commissionata a Giorgione da Tuzio Costanzo, con l’obiettivo di rassicurare Venezia sulla sua volontà di stabilirsi definitivamente a Castelfranco, rinunciando così alle richieste inviate alla Serenissima di poter ritornare a Cipro a godere in qualità di figlio del vicerè dei suoi cospicui beni.
Quello di Castelfranco è un dipinto destinato alla devozione privata, non c’è la necessità di ambientare i personaggi in uno spazio monumentale, Giorgione li colloca in un’area esterna, un terrazzo pavimentato a scacchiera che si apre sul paesaggio, dal quale è però necessario separarli con una quinta di velluto rosso per conferire alla scena la solennità necessaria ad una celebrazione, quella appunto dei Costanzo, il cui stemma nobiliare è al centro della composizione.

Lo spiegamento di tessuti preziosi dal forte impatto cromatico, nell’opera, sono autentici “status symbol” dell’epoca che esibisce così la ricchezza e l’importante stato sociale di Tazio che non ha più motivazioni per tornare a Cipro. Ed ecco allora che accanto ai lucenti rasi di seta del manto e dell’abito della Madonna, si aggiunge la morbidezza del velluto unito di color cremisi del parapetto; e da questo tessuto complesso, lavorato a Venezia fin dal XIV secolo, Giorgione inizia l’esposizione di trame che rivelano via via una sempre maggiore abilità tecnica, e che quindi risultano sempre più preziose: dallo splendido velluto centrale verde, costruito con tre orditi, che comportano un utilizzo doppio di seta, oltre all’oro filato presente nella trama fino al velluto ancora più gradevole posto alle spalle della figura femminile, dove la seta impiegata è addirittura triplicata, e alla preziosità del filo d’oro si unisce qui anche il particolare effetto bouclé.

In mostra l’ultimo nucleo del percorso espositivo racconta la storia della manifattura tessile veneziana, in una narrazione ancora una volta sviluppato tra arte e raffinato artigianato ed è quello dedicato al ‘700. Qui, accanto ai ritratti, viene esibita la prestigiosa collezione tessile settecentesca del Duomo di Castelfranco, insieme con abiti, corpetti, guanti e borsette dell’epoca, provenienti da Palazzo Macenigo di Venezia.


Usciti dal Museo, il percorso raggiunge i “luoghi di Giorgione” nell’antico centro cittadino: il Duomo, la Torre Civica, lo Studiolo di Vicolo dei Vetri, la Casa Costanzo, la Casa Barbarella. In queste suggestive ambientazioni il pubblico viene invitato ad ammirare gli esiti attuali della grande tradizione veneziana della tessitura.


Maria Paola Forlani

venerdì 27 ottobre 2017

AMBROGIO LORENZETTI

Ambrogio
Lorenzetti


A Siena presso Santa Maria della Scala, fino il 21 gennaio 2018, è visibile la mostra dal titolo Ambrogio Lorenzetti (Siena, notizie dal 1319 al 1347), a cura di Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini e Max Seidel (catalogo Silvana).
L’esposizione rappresenta in realtà il culmine di un progetto scandito “in tappe”, avviato nel 2015 con l’iniziativa Dentro il restauro e mirato ad una profonda conoscenza dell’attività dell’artista, ad una migliore conservazione delle sue opere e a favorire l’avvicinamento da parte del pubblico. Con Dentro il restauro, realizzato grazie al contributo del MiBACT per Siena Capitale italiana della Cultura 2015, sono state trasferite al Santa Maria della Scala alcune importanti opere dell’artista che necessitavano di indagini conoscitive di interventi conservativi e di veri e propri restauri: il ciclo di affreschi staccati della cappella di San Galgano a Montesiepi e il polittico della chiesa di San Pietro di Castelvecchio a Siena (nell’occasione più correttamente ricomposto e riunito con l’originaria cimasa raffigurante il Redentore benedicente) sono stati allestiti in un cantiere di restauro ‘aperto’, fruibile dalla cittadinanza e dai turisti. I restauri sono proseguiti con l’apertura di altri due cantieri, il primo nella chiesa di San Francesco, volto al recupero degli affreschi dell’antica sala capitolare dei frati francescani senesi, e l’altro nella chiesa di Sant’Agostino, nel cui capitolo Ambrogio Lorenzetti dipinse un ciclo di storie di Santa Caterina e gli articoli del Credo.


In mostra tornano a vivere idealmente i cicli di affreschi del capitolo e del chiostro della chiesa francescana senese, che tra l’altro contenevano la prima rappresentazione di una tempesta nella storia della pittura occidentale nella quale, come scrive Ghiberti, spiccava la “grandine folta in su e’ palvesi”; il ciclo di dipinti della chiesa agostiniana senese, modello esemplare ancora agli occhi di Giorgio Vasari, quando si approntò l’armadio delle reliquie della cattedrale; quello della cappella di San Galgano a Montesiepi, a tal punto fuori dai canoni della consolidata iconografia sacra che i committenti pretesero delle sostanziali modifiche poco dopo la conclusione.

La prima opera datata (1319) di Ambrogio Lorenzetti, è una Madonna col Bambino dipinta per la chiesa di Vico l’Abate, una piccola località nei pressi di Firenze, dove la sua presenza è documentata e dove, per un certo periodo, deve avere addirittura vissuto, se nel 1327 viene immatricolato (insieme ad artisti locali, fra cui Giotto) nell’Arte dei Medici e Speziali che, a partire da quell’anno includeva i pittori.
La Madonna di Vico l’Abate ha un impianto monumentale che l’ha fatta mettere in rapporto con la pittura fiorentina. Ma, più che volumetria, più che impostazione della Vergine in profondità, vi è larghezza di superfici, delineate nettamente e rivestite dai colori, e vi è una ieratica frontalità che sembra riallacciarsi piuttosto alle icone bizantine.

Questo arcaismo, più che a un presunto tradizionalismo dell’autore, va attribuito all’arretratezza culturale del committente, che viveva in una zona rurale, dove le novità cittadine dovevano giungere con qualche ritardo.
Contrasta infatti con la rigidezza della madre e con la fissità dei suoi occhi, la vivacità del figlio che, se non fosse per l’aureola, sembrerebbe un qualsiasi bambino, non il Dio incarnato in atto di benedire, conscio della sua alta missione.
La scena è vivacizzata anche dalla mobilità della linea che disegna Gesù e dalle tarsie dei colori brillanti, sia quelli delle vesti sia quelli degli ornamenti del trono.
Fra le molte opere del pittore, la più vasta e impegnativa è costituita dagli affreschi dipinti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, con le Allegorie del buono e del cattivo governo.

Gli affreschi hanno contenuto politico. Da un lato la tirannia, guercia e cornuta, che, circondata dai vizi, calpesta la giustizia. Dall’altro lato il governo senese, giusto e pacifico, sostenuto dalla volontà unanime dei cittadini.


Il tema, voluto dai <<Nove>>, il partito al potere, è un’esaltazione della loro ideologia: non più illustrazione di idee religiose ma idee civiche.
La complessità allegorica, la nobiltà degli intenti suscitarono ammirazione: forse per questo il Lorenzetti appare al Ghiberti (che lo preferiva allo stesso Simone Martini) <<altrimenti dotto che alcuno degli altri>> e al Vasari <<gentiluomo e filosofo>>; ma proprio per questo è sembrato invece ad alcuni critici moderni che la sapienza dottrinale prendesse il sopravvento sul significato artistico, inquinandone la purezza. La tesi più antica tende ad esaltare i contenuti, l’altra il linguaggio.
Ma Ambrogio Lorenzetti ha lasciato altre testimonianze paesistiche, Una città vicino al mare e Un castello in riva al lago, ambedue visti dall’alto, considerati il più antico esempio di paesaggio dell’arte occidentale, databili probabilmente negli stessi anni dell’affresco senese

.


Fra le ultime opere del pittore sono due tavole, importanti per l’impostazione prospettica: la Presentazione al tempio, del 1342 (Firenze, Galleria degli Uffizi) e
l’Annunciazione, del 1344. Soprattutto in quest’ultima è stata notata la convergenza di tutte le linee di profondità del pavimento in unico punto di fuga, come un’anticipazione delle teorie rinascimentali
.
La mostra, preceduta da un’intensa attività di ricerca e dalle importanti campagne di restauro, rappresenta l’occasione per provare a ricostruire la straordinaria attività di Ambrogio Lorenzetti. Una tale iniziativa è possibile soltanto nella città di Siena, che conserva all’incirca il settanta per cento delle opere oggi conosciute del pittore.
Ma la mostra – grazie a una serie di richieste di prestiti – con opere provenienti dal Musée du Louvre, dalla National Gallery di Londra, dalle Gallerie degli Uffizi, dai Musei Vaticani, dallo Städel Museum di Francoforte, dalla Yale University Art Gallery – ambisce a reintegrare pressochè internamente la vicenda artistica di Ambrogio Lorenzetti, facendo nuovamente convergere a Siena dei dipinti che in larghissima parte furono prodotti proprio per cittadini senesi e per chiese della città.





Maria Paola Forlani

giovedì 26 ottobre 2017

OROZCO; RIVERA, SIQUEIRO

La Mostra Sospesa

Orozco
Rivera
Siqueiros


S è aperta, fino al 18 febbraio 2018 a Bologna nella sede di Palazzo Fava l’esposizione dal titolo
“La Mostra  Sorpresa. Orozco, Rivera, Siquieros” (catalogo Silvana), a cura di Carlos Palacios.
La storia di questa esposizione è unica: doveva essere inaugurata il 13 settembre del 1973 a Santiago del Cile, ma a causa di un colpo di stato che colpì il paese rimase “pendiente”, in sospeso, e da lì il suo nome. Le opere – appartenenti alla collezione di Alvaro Carillo Gil e di sua moglie Carmen Tejero – furono a rischio di distruzione, ma vennero salvate (arrivando fino ai nostri giorni) grazie al sostegno di commissari, curatori, istituzioni e Cancellerie messicana e cilena. Ciò ha permesso di esporle, nel 2015 in Cile, nel 2016 in Argentina e nel 2017 in Perù e ora in Europa a Bologna.
La mostra si compone per la quasi totalità, di olii e disegni ad altro contenuto politico che testimoniano, in modo efficace e coinvolgente, la poetica dei tre muralisti, emblema della modernità messicana nel mondo. Alle opere esposte si affianca un’ampia documentazione dei murales originali, realizzata con moderne tecnologie di video animazione HD che consentono di ammirare e localizzare le opere principali dei tre muralisti nelle varie città del Messico.

Il ‘muralismo’ fu un’arte di tipo realista, fortemente caratterizzata in senso sociale,
che si era andata sviluppando nel Messico, in accordo con il nuovo clima seguito all’abbattimento della dittatura di Porfirio Diaz e di Victoriano Huerta.
La lunga rivoluzione dei << peones >> - che aveva espresso le figure leggendarie di Pancho Villa e di Zapata – aveva provocato una serie di riforme, prima fra tutte quella sulla proprietà terriera, che pareva destinata a conferire al paese una spinta risolutiva verso la democrazia e il progresso. Gli intellettuali e gli artisti si sentirono per primi impegnati in una pluralità di iniziative aventi lo scopo di sottrarre le masse dall’analfabetismo e di renderle consapevoli del ruolo di protagoniste che dovevano svolgere.
Le arti figurative – specificamente la pittura murale – dovevano assecondare questo sforzo. Tuttavia, vuoi per il fascino che sugli artisti messicani esercitavano le antiche raffigurazioni azteche con il loro misterioso repertorio simbolico, vuoi per la diretta influenza dell’arte minore locale, vuoi infine per l’apertura europea che contraddistingueva l’atteggiamento di alcuni pittori, il realismo che ne conseguì, imponendosi a un certo momento come stile nazionale, superava decisamente i limiti della strumentalizzazione ideologica per affermarsi nell’autonomia propria dell’arte, e ciò senza abdicare ai contenuti. Quei contenuti – episodi rivoluzionari, lotte di contadini, celebrazione del lavoro – si risolvevano anzi in un messaggio umano tanto potente da avvicinare nel consenso gli uomini colti e le classi proletarie. Il << realismo socialista>> messicano – se tale può essere definito – nulla aveva in comune col realismo che, negli stessi anni, veniva imposto nell’Unione Sovietica dai testi di Zdanov, e che si rivelava per conto, nella più parte, enfatico e declamatorio fino alla pedanteria.

Il padre della moderna pittura messicana è titolo che aspetta di diritto a Diego Rivera (1885 – 1957). L’adesione di Rivera allo spirito del proprio paese, alle sue tradizioni e alla sua storia, non escluse mai la lezione che gli veniva dalle grandi scoperte europee, da lui meditate direttamente a Parigi dopo il 1910, quando fu vicino a Picasso, a Modigliani, ad Apollinaire e agli artisti del << Groupe de
Puteaux >>.
Certo è che negli affreschi eseguiti da Rivera negli edifici pubblici, e i suoi grandi quadri, sono eccezionali testimonianze del moderno spirito messicano.
A Palazzo Fava sono presenti in mostra cinque opere cubiste come testimonianza importante del contributo dell’artista al movimento avanguardista. Senza timore di trascurare il significato concettuale o lo spirito di purezza propri del cubismo analitico, Rivera impiega colori intensi, cangianti e brillanti e accosta forme riconoscibili e astratte su uno stesso piano.

Dal canto suo José Clemente Orozco (1883 – 1949), l’altro grande pioniere della nuova pittura messicana, pur perseguendo le stesse finalità con analoghi temi, propende a innervare le forme di una energia visionaria, sottraendosi alle influenze europee e ricercando motivi linguistici nelle tradizioni locali, soprattutto nell’iconografia azteca. Se, come Rivera, egli punta verso il tono epico, tosto sospinge quel tono nella sfera del misticismo rivoluzionario.

La maniera pittorica di Orozco è caratterizzata da forme simmetriche, da pennellate dinamiche e talvolta violente. Le opere in mostra rappresentano da un lato la visione dell’artista sulle violenze della guerra – la rivoluzione messicana e la seconda guerra mondiale – e dall’altro il contesto disincantato delle grandi metropoli americane reduci dalla depressione economica del 1929. I suoi sono gesti iconoclasti che incarnano la tragedia umana riflessa in paesaggi desolati. Orozco dipinge martiri laici (Emilio Zapata) e autoritratti che rivelano un’espressività schietta, ma che al contempo sanciscono la sua indipendenza da Diego Rivera e da David Alfaro Siqueiros.

David Alfaro Siqueiros (1896 – 1974) accentua in misura anche maggiore la portata visionaria dell’immagine, non dimentico della lezione del surrealismo, né delle possibilità di evocazione espressiva che risiedono in taluni << media >> non tradizionali, come il duco e la pirossilina. Eppure la sua arte rimane saldamente ancorata sul tronco della nuova tradizione nazionale e popolare, di cui egli ripete – al pari di Rivera e di Orozco – temi e vicende, trasponendoli su un piano di alta tensione drammatica.

In questa mostra vengono presentate La primera tematica para al mural de Chapultepec, circa 1956 – 1957, e Zapata, che illustrano la tecnica dell’utilizzo di angolazioni accentuate in primo piano, permettendo allo spettatore di posizionarsi di fronte all’opera e sperimentare una sensazione di movimento con la percezione di partecipare in prima persona all’azione della scena dipinta.
Tra i suoi discepoli ricordiamo Jackson Pollock, che dopo poco darà origine al movimento dell’Action Painting.

Siqueiros si dimostrò un grande ammiratore del progresso tecnologico che lo intrigava e lo stupiva, come è evidenziato nell’opera Atenas estratosferica del 1949 e in Aircraft atòmica del 1959, che annunciano le possibilità di una nuova umanità trionfante, trasformata dall’azione operaia per mezzo della moderna tecnologia.



Maria Paola Forlani 

sabato 21 ottobre 2017

MARCELLO FOGOLINO

Ordine e bizzarria

Il Rinascimento
Di Marcello Fogolino

“Tutto il rest’è di Marcel Fogolino
Maestro ver d’unire ogni colore,
Che come paragon sta l’oro fino,
Così con tutti è stato ‘l gran pittore:
Onde restato al fin con la vittoria
S’ha acquistato immortal lodi, e gloria.


Così l’encomio del medico ed erudito senese Pietro Andrea Mattioli, primo esegeta del pittore Marcello Fagolino nel suo poemetto ecfrastico sul Magno Palazzo di Trento: opera in ottava rima di 445 stanze. Ove, dilungandosi nella resa degli ambienti del castello clesiano, si produce nell’apologia degli artisti impiegati, da Dosso Dossi e Romanino a Fogolino: di quest’ultimo è l’iniziale attestato d’eccellenza pittorica, posto a segnare l’apprezzamento da parte di una storiografia che ne tramanderà il nome fino ai nostri giorni, seppure – e naturalmente – in forme non sempre così egregie.
Il Castello del Buonconsiglio di Trento svela, fino il 5 di novembre 2017, con un’ampia mostra, la grandezza di Marcello Fogolino. L’iniziativa, che si sviluppa in collaborazione con i Musei Civici di Vicenza, riscopre un artista notevolissimo ma la cui fama di pittore venne offuscata dalle sue vicende private.

La condanna per l’omicidio di un barbiere, commesso, pare, insieme al fratello Matteo, la messa al bando, l’attività di spionaggio dalle tinte forti. Dopo le grandi mostre monografiche dedicate ai pittori che affrescarono il maniero ovvero Girolamo Romanino e i fratelli Dosso e Battista Dossi, il Castello del Buonconsiglio rende omaggio al terzo artista che contribuì alla decorazione del Magno Palazzo.
 La rassegna intitolata “Ordine e bizzarria, Il Rinascimento di Marcello Fogolino”,
a cura di Carlo Federico Villa, Laura Dal Prà e Marina Botteri (catalogo Castello in Mostra), vuole far conoscere al grande pubblico un pittore che fu costretto a una forzata permanenza in Trentino, ma che riuscì a guadagnarsi, con la sua opera, la fiducia del principe vescovo Bernardo Cles, fino a divenire il pittore di corte e, poi, del suo successore, il principe vescovo Cristoforo Madruzzo.

Figlio d’arte – suo padre era un pittore di buon livello – fu mandato da giovane a bottega da Bartolomeo Montagna, in quel di Vicenza. In quella città lasciò opere importanti in numerose chiese prima di trasferirsi per otto anni a Venezia.
Ѐ documentato il suo rientro a Vicenza verso il 1518 e il suo operare insieme a Giovanni Speranza. La sua pittura di quegli anni mostra un distacco dai modelli quattrocenteschi e una adesione alle novità che, nelle ville e chiese venete, stava imponendo il Veronese. Rientrato nel Friuli nel Pordenonese ottiene commesse di rilievo per diverse chiese della città e del territorio, in parte oggi purtroppo perdute.
In Friuli torna ancora, insieme al fratello pittore anche egli, dopo una nuova parentesi vicentina ma incappa nelle note vicende giudiziarie che gli resero difficile ottenere nuovi incarichi. Destino volle che Fogolino approdasse quindi a Trento dove, tra il 1528 e il 1533, si costruiva il Magno Palazzo del Castello del Buonconsiglio, un grandioso cantiere rinascimentale nel quale pittori, scultori, artigiani, garzoni di bottega lavorarono a tempo record per rendere sontuosa la nuova dimora rinascimentale del principe vescovo Bernardo Cles.

Qui Fogolino trovò fama, commissioni e, grazie alla protezione vescovile e alla benevolenza della corona imperiale austriaca, un sicuro rifugio. Il periodo trentino è illustrato con sue opere provenienti da chiese del territorio e dalle collezioni del museo, mentre la sua produzione profana è approfondita grazie ai cicli pittorici del Castello del Buonconsiglio, ma anche dalle preziose testimonianze grafiche.

Dopo il 1541, sotto Cristoforo Madruzzo, organizzatore del Concilio, il percorso fogoliniano diventa nuovamente ondivago. Di certo lavora ad Ascoli Piceno, il vescovo di quella città, conosciuto a Trento, poi a Gorizia e ancora a Bressanone.
Si sa che venne cercato per la Residenza di Innsbruck ma di lui nulla è noto in quella città. Finì quindi da artista errante una vicenda cominciata allo stesso modo.

La mostra si snoda nelle sale del Magno Palazzo, in parte affrescate da Romanino e dai fratelli Dossi e in parte affrescate dallo stesso Fogolino, e prende avvio da pale d’altare che hanno contraddistinto l’evolversi del suo percorso stilistico tra Vicenza e la provincia di Pordenone, evidenziando la ricca valenza del patrimonio artistico e culturale del Triveneto con lo studio dei rapporti e della collaborazione culturale con altri artisti vicentini, tra cui Giovanni Boncosiglio, Bartolomeo Montagna e Francesco Verla. In mostra le magnifiche pale d’altare provenienti dal Rijksmuseum di Amsterdam, come la Madonna col Bambino e santi mai esposta in Italia, dalla Galleria dell’Accademia di Venezia, dalla Pinacoteca Nazionale di Siena, dalla Pinacoteca di Palazzo Chiericati a Vicenza ma anche le rarissime incisioni provenienti dal museo statale di Dresda.

La pala dell’Adorazione dei Magi  (L’ Epifania) con la predella rappresentante: Annunciazione; Natività; Fuga in Egitto, proveniente da Vicenza dai Musei Civici, Pinacoteca Palazzo Chiericati  (1510), fu trasportata da tavola su tela nel 1873.
Indubbiamente l’Epifania è testo sorprendente nella Vicenza del tempo, raccontando nello spazio della tavola una miriade di suggestioni.

Qui il fasto predomina sul tema sacro, di cui il dipinto diviene mero promemoria, collimando le componenti tradizionali della rappresentazione con le richieste della cultura tardoumanistica. Nel mondo bucolico di pastori, cacciatori, animali domestici emergono le figure esotiche di cammelli ed elefanti, un nano in primo piano, un sinistro personaggio con sulla spalla una scimmia, tutta intenta a spulciarlo, l’indolente paggio del re Gaspare, trasandato nella barba mal rasa. Tutti elementi caratterizzanti la variopinta corte: tali da avvicinate l’opera, con la sua aria da tableau vivant,  più ad un presepe napoletano di secoli successivi.





Maria Paola Forlani