venerdì 29 giugno 2018

PADIGLIONE ITALIA


XVI BIENNALE DI ARCHITETTURA 2018
Padiglione Italia


Cari architetti, andate a quel paese: fuori città, suggerisce il Padiglione Italia alla Biennale 2018, a vedere che cosa succede tra foreste, borghi e piccoli centri, là dove terremoti, crisi economiche e spopolamento minacciano società e cultura.
L’invito viene da Mario Cucinella, architetto-curatore di questa edizione, che ha deciso di spegnere i riflettori sui fenomeni macro-urbani e rilanciare l’altro lato della penisola: l’Italia interna, pari al 5% della sua superficie.

Cucinella non è l’unico, di questi tempi, a guardare oltre la città. <<The future is in the countryside>> è l’ultimo slogan di Rem Koolhaas, che dopo aver coltivato per decenni i deliri metropolitani sta lavorando a una grande mostra sulle trasformazioni del mondo rurale. A Venezia, una prospettiva simile si trova anche nel padiglione cinese, intitolato <<Building a Future Countryside>>.

Arcipelago Italia – questo il titolo del padiglione – comincia con un’indagine esplorativa che va dall’arco alpino alla dorsale appenninica, con una puntata in Sardegna. Si incontrano esempi virtuosi, esposti nella prima sala, su pannelli illuminati che sembrano enormi libri aperti: una guida della provincia architettonica con indicati i rifugi eretti contro speculazione, incuria e calamità. Piccoli atti, a volte banali a prima vista – un parcheggio, una baita, una passarella pedonale – ma in realtà decisivi per il territorio. Purtroppo sono eccezioni: <<in un contesto caratterizzato dell’emergenza post-sisma e della necessità di ricostruire, si trovano pochissime opere contemporanee di qualità.>>.

Il Viaggio in Italia di Cucinella rievoca quello fatto da Guido Piovene in un paese sospeso tra costruzione e boom economico, per volontà di scoprire le sfumature della realtà dietro alle cartoline. Vengono in mente anche le indagini di Giuseppe Pagano (1936) e Kidder Smith (1955) sull’architettura rurale, vista come possibile fonte di insegnamento per i moderni progettisti. Nell’Arcipelago, tuttavia, non si cerca la lezione del passato, né si possono separare tradizione e modernità in modo netto. Si rivela piuttosto un patrimonio costruito e naturale risultato di terremoti e cattive politiche, esodi e invecchiamento, ma anche del miracolo del web, dell’artigianato, di inediti punti di vista.

Stella polare di questa peregrinazione è l’esempio di Giancarlo De Carlo (1919-2005), con cui Cuccinella si laureò nel 1987, uno dei primi a sperimentare la partecipazione in architettura. Il curatore ha infatti creato dei collettivi multidisciplinare, armati di <<ascolto attivo, gestione creativa dei conflitti, dialogo e confronto>>, che hanno analizzato cinque <<nervi scoperti>> dell’Arcipelago e disegnato altrettanti progetti-manifesto, presentati su grandi e avvolgenti tavoli di legno. Sono edifici <<ibridi>>, con <<una qualità che si esprime come empatia con i contesti, senso della misura e fattibilità>>: ciò che De Carlo avrebbe chiamato utopie realistiche.

Nel Parco delle Foreste Casentinesi si cerca di rappresentare la lavorazione del legno, oggi delocalizzata. Si immaginano allora altre capanne in faggio lamellare, capaci di ospitare funzioni diverse. A Camerino, devastata dal terremoto, si pensa un modello per il futuro, replicabile altrove, con spazi di aggregazione scavati nelle viscere del centro storico. In Basilicata, invece, le condizioni speciali di Matera – popolazione ed economia in crescita – ispirano lo sviluppo sostenibile dell’entroterra. In Barbagia, l’età avanzata della popolazione stimola una concezione aggiornata dell’assistenza sanitaria, che l’architettura è chiamata a mettere in forma. Il progetto più emblematico è forse quello per la Valle del Belice, la cui ricostruzione, dopo il terremoto del 1968, è rimasta incompleta nonostante il contributo di grandi artisti e architetti a Gibellina Nuova. Simbolica è quindi la scelta di ripensare gli spazi del Teatro incompiuto di Pietro Consagra, collegandoli a un nuovo parco agricolo.

Nell’escludere la metropoli, Cucinella volta provocatoriamente le spalle a realtà come quella milanese, che da anni monopolizza la cronaca nazionale. Se a Milano trionfano musei e grattacieli di archistar straniere, il Padiglione Italia mette in scena architetti a chilometro zero, e anzi ne diluisce il protagonismo nella molteplicità delle competenze e delle responsabilità. Ma il vero problema non sono le star: nell’Arcipelago galleggia infatti un <<messaggio in bottiglia>> che chiede aiuto alla politica, troppo spesso assente nella difesa della qualità architettonica tramite leggi e concorsi adeguati.


(Da Gabriele Neri---Sole 24 Ore)


lunedì 25 giugno 2018

W.Eugene Smith a Bologna


W. Eugene Smith.

Pittsburgh, ritratto di una città industriale


Si è aperta fino al 16 settembre a Bologna nella sede della Fondazione Mast – Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologie la mostra W.Eugene Smith. Pittsburg, ritratto di una città industriale, a cura di Urs Sthael.

All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso il sistema della stampa illustrata aveva raggiunto un suo primo momento culminante. Inventata e sviluppata nell’Ottocento quale forma abbreviata e parallelo visivo della novella o del romanzo borghese, negli anni Venti la fotografia iniziava la sua marcia trionfale grazie a numerose novità, come la macchina da stampa veloce, la rotativa, il procedimento a scala di grigi, la stampa a due e più colori.
Pionieri in Germania furono la “Berliner Illustrierte Zeitung” e la “Arbeiter Illustrierte Zeitung”, con una tiratura che superava, in entrambi i casi, le cinquecentomila copie. Negli anni Trenta questa nuova forma di “storytelling”, con molte fotografie e testi di accompagnamento, si diffuse in tutti i paesi, dapprima in Europa, quindi anche negli Stati Uniti. Parallelamente la, la Leica introdusse una rivoluzione nelle procedure e nei modi della fotografia. Nel 1914 Oskar Barnack inventò la prima Leica, nel 1925 la Leica iniziò ad essere prodotta in serie e fu presentata alla fiera di Lipsia nei primi mesi dell’anno; nel 1932 arrivò il vero successo commerciale con la Leica II, che aveva telemetro incorporato e obiettivi sostituibili.
Immediatamente la fotografia divenne leggera, mobile, a portata di mano, dinamica, abbandonò la rigidità dello stativo, il criterio di misura dell’altezza degli occhi; fin da subito fu possibile viaggiare per il mondo e inviare resoconti fotografici da qualunque luogo in modo rapido, versatile e vivido. I pionieri del reportage fotografico di documentazione sociale –Jacob Riis e Lewis Hine, tra gli altri – trovarono valanghe di successori. Erich Salamon, Henri Cartier-Bresson, Germaine Krull, Margaret Bourke-White, Werner Bischof, Robert Capa sono solo alcuni dei fotoreporter di fama mondiale; “Picture Post”, “Paris Match”, “Life”, “Sports Illustrated”, “Daily Mirror” e “Daily Graphic” rappresentano alcuni periodici più celebri dell’epoca.

Ė questo il periodo in cui nacque William Eugene Smith, più precocemente nel 1918 a Wichhita, nel Kansans. Già a sedici anni iniziava a fotografare e pubblicare. Dopo il suicidio del padre, una tragedia per la famiglia, studiò fotografia all’Università di Notre Dame in Indiana, ma dopo un anno abbandonò i corsi, si trasferì a New York e proseguì come “freelance” per Black Star Agency e, tramite quest’agenzia per molte importanti riviste americane quali “Collier’s”, “Parade”, “Time”, “Forune”; “Look” e “Life”. Dal 1944 cominciò a viaggiare come corrispondente di guerra per “Life”, fu gravemente ferito in Giappone e dal 1947 al 1954 lavorò a tempo pieno per lo stesso magazine. In pochi anni diventò, insieme a Margaret Bourke-White, uno dei grandi eroi del reportage e del saggio fotografico.
Il medico di campagna, Vita senza germi, Il villaggio spagnolo, La levatrice, Charli Chaplin al lavoro, Il regno della chimera e Un uomo compassionevole sono, oggi come allora, tra i servizi più noti che siano mai stati realizzati per riviste illustrate. Sequenze di fotografie che intendevano rappresentare di per sé il nucleo essenziale di una storia, accompagnate da didascalie e infine corredate da un testo: le fotografie di Smith andavano molto oltre i consueti reportage fotografici. Le sue immagini erano buie, a volte perfino cupe, non intendevano descrivere il mondo ma contenerlo, non riprodurlo ma darlo alla luce loro stesse.

Al culmine della sua fama di fotografo per riviste, dopo soli sette anni di impegno a tempo pieno per “Life” – seguiti da un altro paio d’anni di lavoro su commissione – nel 1954 Smith abbandonò tutto e lasciò la rivista per un diverbio. Era un fotografo difficile, il suo modo di portare avanti le commissioni ricevute era complesso e tortuoso non consegnava mai un lavoro in tempo, non era mai soddisfatto del layoit delle immagini, dell’impaginazione, dell’intensità delle foto stampate, delle didascalie, dell’intera presentazione della “story”, come si diceva.
Si liberò dal sistema degli incarichi dal lavoro dipendente, alla ricerca di maggior profondità, autentica, sospinto dal desiderio di trovare l’assoluto, di essere davvero pronto e presente nei rarissimi attimi in cui la verità della vita si manifesta nelle apparenze del mondo.

La rottura con la stampa, con le riviste, con i media, rappresentò una cesura nella sua vita, e da ultimo anche una frattura con la famiglia, con la moglie Carmen Martinez e con i quattro figli. Si trovò di fronte a un grande bivio personale e professionale: fu costretto a vendere la sua casa a Croton-on.Hudson (nello stato di New York) e si trasferì a New York City, in un loft all’interno di un edificio in cui suonavano jazz. Ad acuire il suo isolamento gli giunse la richiesta di realizzare, nel giro di un paio di mesi, tra le ottanta e le cento foto della città di Pittsburg.
L’incarico si trasformò gradualmente nel progetto ambizioso della sua vita, e poi il fallimento più doloroso. Invece che per un paio di mesi, Smith continuò a fotografare per due o tre anni, rimanendo poi impegnato per il resto della vita in innumerevoli tentativi di produrre, a partire dai quasi ventimila negativi e duemila “masterprints”, il grande colpo, il libro definitivo su Pittsburgh, la città industriale più famosa del primo Novecento: sulla città dell’acciaio, sul suo capitale, sulla cultura delle persone, sugli operai, sull’anima di questa metropoli nella parte sudoccidentale dello Stato della Pennsylvenia, in una conca situata alla confluenza tra i fiumi Monongahela e Allegheny e il fiume Ohio.

Smith non riuscì a soddisfare le proprie aspirazioni, che non potevano essere più ambiziose. Voleva creare l’assoluto, cogliere i momenti in cui tutta la verità della vita – cielo e inferno, luce e ombra – si manifestava negli avvenimenti effimeri della città. Stephan Lorant, il committente, aspettò per due anni le foto che aveva ordinato. “Life” offrì a Smith tredicimila dollari per i diritti d’autore e per pubblicare sulla rivista una “Story” così ampia, ma Smith rifiutò. Alla fine si conquistò trentasei pagine sulla rivista “Photography Annual 1959” e cercò di ottenere il massimo su pagine di piccolo formato, con un contributo dal titolo Pittsburgh. W.Eugene Smith’s Monumental Poem to a City.
E fallì miseramente. Poco prima di morire nel 1978, lasciò al Center of Creative Photography di Tuscon Arizona, di recente fondazione, il suo archivio: decine di migliaia di negativi, migliaia di stampe, lettere, un’enorme mole di appunti e quasi quattromilacinquecento ore di registrazione su nastro delle “jazz session” del loft di New York.


Maria Paola Forlani


mercoledì 20 giugno 2018


Obscure clartè

di Li Chevalier


Si è inaugurata al Santa Maria della Scala, presso i Magazzini della Corticella, l’esposizione di Li Chevalier Obscure claritè, promossa e organizzata dal Comune di Siena e realizzata in collaborazione con Opera Civita.

Li Chevalier, nata a Pechino nel 1961, è assai attiva nel panorama artistico contemporaneo, costruisce la sua carriera attorno ad un percorso intercontinentale, caratterizzato da un universo estetico transculturale e multidisciplinare, che sviluppa un’arte la cui firma ha un rapporto appassionato con il mondo musicale e poetico. A quindici anni viene scelta dalla Compagnia dell’Opera dell’esercito cinese e dopo cinque anni di profonda immersione come cantate lirica, Li Chevalier viaggerà alla scoperta delle maggiori capitali europee, passando per Firenze e Venezia dove studia arte, per laurearsi a Londra, al London Central St Martins College of Art & Design, in Filosofia e Belle Arti.

Con Obscure clarté Li Chevalier rende omaggio a Siena, città con la quale la pittrice franco-cinese ha iniziato una relazione appassionata da più di 20 anni.
La mostra, infatti, nasce dal forte desiderio dell’artista di tornare nei luoghi dei suoi pellegrinaggi artistici e spirituali nel cuore dell’Italia. Proprio per questa monografia senese Chevalier presenta una nuova scenografia, completamente rinnovata, della sua installazione monumentale e multimediale Site Specific: una “foresta” di strumenti a corda, violini, viole e violoncelli, “made in China” e allo stato grezzo, decorati con pennellate d’inchiostro, segni calligrafici e poesie composte appositamente per l’evento dal poeta senese padre Alfredo Scarciglia.


I VIOLINI DI LI
In una luce dorata
su di un serico giardino
S’odono a Siena, violini d’oltremare.
S’involano note come farfalle,
girano in tondo
invitano al canto.
Di stanza in stanza
La musica è infinita
Arcana, come la via della seta.
Di sole ce n’è tanto in queste stanze,
di note, una moltitudine, nell’estasi di questa città.


L’artista, inoltre, rende omaggio a Karol Beffa, accordando la sua installazione a due brani famosi del compositore francese, Into the Dark, Pièce pour piano et orchestre e Supplique, Pièce pour violon seul: una fusione tra l’arte mutevole della pittrice e le melodie liquide del compositore, un insieme che celebra il legame appassionato dell’artista con il mondo musicale.

Oltre a ciò, sono esposte in mostra 20 opere di pittura sperimentale ad inchiostro, che rivelano la “traiettoria” spirituale dell’artista con i suoi dubbi e le sue rivelazioni.
Come afferma il direttore di Santa Maria della Scala per l’esposizione, ben qualifica l’opera della pittrice, che si caratterizza per un effetto scenografico e per una composizione spaziale specifica che include una dimensione teatrale. Particolare rilievo viene assegnato all’uso della luce, dell’ambiente e del suono, così come alla partecipazione dei visitatori all’evento. Tutto ciò contribuisce a un’esperienza sensoriale che coinvolge gli spettatori e li fonde con le opere.

LUCE
Luce nuova in me
Luce chiara,
riverberi d’albero
tra il tuo fuoco.
Musica e canto
è il tuo dire,
musica e canto
che toglie il fiato.
In un rinnovato stupore,
si desta il mio cuore
e ascolta.
P.Alfredo Scarciglia


Maria Paola Forlani



martedì 19 giugno 2018

SPECULUM ROMANAE MAGNIFICENTIAE


Speculum Romanae Magnificentiae

Roma nell’incisione del Cinquecento


“ Come ogniuno, cortesissimi lettori, ha caro di conseguitare il fine, per il quale egli s’affatica, e fa quanto sa e quanto può; perciò imigliatamente io havendo fatto già longo tempo impresa di far stampare in servigio e piacere de virtuosi assai descrittioni, disegni, e ritratti in carte spicciolate, e in slibri intieri di diverse e notabili opere antiche, e moderne; mi son risoluto per colmo della commodità di chi se ne diletta, a raccorne e stamparne un breve stratto e indice. Per mezzo del quale ciascuno possa a suo piacimento haver notitia di tutta l’industria nostra, e valersene o di tutta, o di parte secondo che più gli aggradisca”.

Così Antonio Lafréry, editore, incisore e mercante francese presentava, intorno al 1573, l’indice di ciò che poteva essere acquistato nella sua stamperia romana di via Parione, nel momento di massimo successo della propria attività. Si trattava di circa cinquecento pezzi, divisi in cinque sezioni, che andavano dalle incisioni con soggetti tratti dal Vecchio e Nuovo Testamento a quelle riproducenti edifici moderni, ritratti e medaglie, con una netta predominanza, però, di fogli dedicati ai monumenti e alle statue di Roma antica. Viaggiatori, antiquari, collezionisti ed eruditi commissionavano alla stamperia al Parione raccolte di incisioni che diedero luogo a veri e propri volumi che cominciarono a diffondersi già alla fine degli anni cinquanta e che a partire dai primi anni settanta assunsero il titolo di Speculum Romanae Magnificentiae. Un’ impresa nuova nel suo genere, ma che prendeva avvio da altri repertori grafici, come il Codex Escurialensis di fine Quattrocento e gli studi dall’antico di Raffaello e bottega, di Marten van Heemskerck, di Francisco de Hollanda.

L’origine di questa importante iniziativa editoriale si può datare molti anni prima, quando il milanese Antonio Salamanca cominciò, a partire dal 1528, a rieditare col proprio indirizzo tutti i “rami” che riuscì a rintracciare; e ne seguì anche di nuovi, dando vita a una ricca produzione di incisioni prevalentemente di soggetto archeologico.
A partire dal 1553 il Salamanca si associò con Antonio Lafréry, attivo a Roma sin dal 1544, e con lui rimase per diciotto anni, cioè fino alla morte. Il figlio del Salamanca, Francesco, decise di porre fine alla società; ma il Lafréry proseguì da solo, con straordinario successo. Seguirono le sue orme, anche se non più con la fortuna del fondatore, il nipote Claude Duchet e il cognato di questo, Giacomo Gherardi. Una parte dell’eredità andò anche al pronipote Etienne Duchet, che cedette le lastre a Paolo Graziani, unitosi poi a sua volta a Pietro de’Nobili.

Ogni esemplare dello Speculum si presenta dunque come un’opera a sé, non solo per la varietà del numero di fogli e soggetti contenuti, ma anche per la molteplicità degli stampatori ed incisori che firmano i vari pezzi.
Il Lafréry infatti non incluse nella produzione solo elementi stampati nella propria bottega, ma anche lavori di altri stampatori, sia romani che veneziani. A ricostruzioni di architetture antiche minuziose e particolareggiate, eseguite con estremo rigore scientifico, se ne alternano altre nelle quali il monumento risente della sensibilità dell’incisione.

A opere riprodotte con evidenti scopi didascalici e per le quali si precisa luogo di ritrovamento e collezione di provenienza se ne affiancano altre, che si presentano invece come invenzioni moderne, con vaghe reminiscenze dell’arte classica tratte da disegni di artisti famosi.

La Casa Buonarroti possiede un esemplare dello Speculum costituito da ottantaquattro pezzi; i soggetti illustrati vanno dagli edifici antichi e moderni (molti quelli michelangioleschi) alle statue e rilievi romani.

Si possono ammirare in questa mostra (aperta fino al 26 agosto 2018) cinquantadue bellissime incisioni. Mostra e catalogo (edizione Mandragora) ripetono l’esposizione che si tenne a Casa Bunarroti dal 23 ottobre 2004 al 2 maggio 2005, e sono dedicati, come la Sala archeologica del museo, alla memoria di Stefano Corsi, scomparso in giovane età nel 2007.


Maria Paola Forlani



lunedì 18 giugno 2018

PANG MAOKUN


Attualità del passato

La pittura colta di Pang Maokum

Palazzo Medici Riccardi a Firenze ospita fino al 28 luglio 2018, la mostra Attualità del passato. La pittura colta di Pang Maokum, a cura di Paolo Natali, ideazione di Xiuzhong Zhang (catalogo Mandragora). Ė organizzata dalla China National Academy of Painting insieme all’Accademia Cinese della Pittura ad Olio e realizzata dallo Zhong Art International, con la collaborazione dell’Accademia delle Arti del Disegno e l’Accademia di Belle Arti di Firenze.

Pang Maokum è uno dei pittori più famosi nel panorama dell’arte della Cina contemporanea. L’artista è nato a Chongqing nel 1963. Dal 1978 al 1981 ha frequentato il Liceo affiliato all’Accademia di Belle Arti del Sichuan; conseguendo nel 1988 un Master. Attualmente è Rettore dell’Accademia di Belle Arti del Sichuan.
Ė considerato uno degli artisti cinesi che meglio hanno rappresentato le diverse minoranze etniche nell’ambito del movimento della pittura considerata rurale.
Ė con Le mele sono mature, un dipinto a olio realizzato nel 1983, che ritrae un’anziana donna appartenente all’etnia Yi, che Maokun acquista grande notarietà in patria. Negli anni successivi ha continuato a portare avanti la sua ricerca lungo questa direttrice, approfondendo l’osservazione della realtà. La mostra in Palazzo Medici Riccardi è la sua prima personale in Italia e presenta una selezione di opere inedite, una ventina circa di tele ad olio di grande formato e una sezione dedicata ai suoi numerosi disegni.
In Attualità del passato, Pang Maokun si fa discepolo moderno degli antichi maestri dell’arte occidentale. Si fa partecipe di una storia che ha studiato e ripercorso. Traendo ispirazione dai classici, sceglie di raffigurare celeberrimi dipinti, modificandone le trame originali con delle intrusioni ironiche, entrando nelle scene stesse con personaggi di sua invenzione oppure autoritraendosi. Li sottopone a una rilettura originale, non venendo mai meno però a una sapiente esecuzione tecnica.

Così La Dama con l’ermellino di Leonardo, immagine scelta come rappresentativa di tutta la mostra, in versione contemporanea, con un chiodo di pelle sulle spalle, ci guarda e ci strizza ammiccante l’occhio.
Il nuovo mondo di Narciso ci propone il bel giovane di Caravaggio che rimira il suo riflesso nell’acqua, munito da Maokun di un elemento altamente tecnologico, un visore per la realtà aumentata. L’artista si fa testimone di nozze nel Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, lo si vede seduto sullo sfondo, sotto lo specchio tondo, polo rossa e occhiali, occhiali che, in versione montatura azzurra, sono indossati anche dal piccolo canino che accompagna la versione classica del quadro. Assiste come servitore, ma con il volto di lato, Giuditta che taglia la testa a Oloferne, riprendendo la splendida versione di Caravaggio. E ancora troviamo originali incursioni in opere di Velàzquez, El Greco e Dürer.

Allontanandosi in parte da questo rimando puntuale del passato, Maokun porta anche una serie di ritratti femminili, giovane donne della sua Cina, belle e affascinanti, dall’aspetto eterno,
alle quali ha dedicato una parte fondamentale della sua produzione recente.

Nel trittico Midnight, invece l’artista ci da tre versioni di sé in accappatoio bianco con lo spazzolino in bocca. Invenzione raffinata e nel contempo spregiudicata e ironica. Invenzione tradotta in una lingua nuova; che tuttavia ancora affonda le sue radici nello studio appassionato e fremente della pittura europea dei secoli trascorsi. A principiare dall’idea stessa d’un trittico; per seguitar poi con quella pittura perspicua e fine come in un ritratto del Cinquecento fra Olanda e Lombardia. Tre autoritratti in variata attitudine; limpidi e lirici come un Moroni dei più tersi. Con Maokun la tradizione s’attualizza.

In mostra, anche alcuni disegni, schizzi, che Maokun produce in gran quantità e che accompagnano la realizzazione dei dipinti, pur rimanendo indipendenti gli uni dagli altri. E anche in questa dimensione, ritroviamo le stesse modalità di incrociare il classico ed il contemporaneo, l’occidente e l’oriente, il passato ed il presente.


Maria Paola Forlani