mercoledì 18 luglio 2018

VOLI, VENTAGLI e RAGGIERE


Graziella Guidotti

Voli, Ventagli e Raggiere
Arte in Villa


La splendida Villa sforzesca di Castell’Azzara (Gr) si è animata con le opere di cinque artisti che riflettono mondi e diverse poetiche in avvincenti mostre (fino al 19 agosto) per un pubblico che si apre a questo magnifico territorio e prosegue il suo cammino nelle sale dell' affascinante dimora.
Ogni artista espone in una delle spaziose sale della villa; così  le opere tessili di Graziella Guidotti animano con i loro vivaci colori la luminosa galleria che si apre con tre grandi finestre sul cortile. Già il titolo della mostra Voli, Ventagli e Raggiere descrive le opere esposte.

C’è un’ingiustizia flagrante fra noi due, io sono stata classificata nelle arti decorative e non hanno voluto ammettere che io fossi una pittrice in ogni senso”,
con queste parole Sonia Delunay commenta la differente considerazione riservata alla propria opera e a quella del marito Robert dalla critica d’arte. Tutto sommato,
l’ingiustizia figurante” di cui parla la Delaunay non risiede tanto nel non considerare lei una pittrice, quanto nel ritenere “minori” le arti decorative. La presenza femminile in questo settore è da sempre stata approvata: le arti applicate, in particolare il tessile e la ceramica, sono un esercizio ritenuto adatto alle donne in quanto segno di operosità domestica. Spesso, però, alla donna era negata la fase creativa: per esempio, i cartoni preparatori per gli arazzi erano appannaggio degli artisti uomini, benchè l’esecuzione fosse un fatto prettamente anche femminile.

Nella seconda metà dell’Ottocento qualcosa cambia: le arti decorative trovano una nuova dignità e ragione d’essere, destando l’interesse di artisti affermati che intervengono a salvare dal calderone della nascente produzione industriale. In questa rivalutazione la donna gioca un ruolo di crescente importanza: da semplice esecutrice passa ben presto alla fase progettuale, rendendosi protagonista delle principali scuole di design occidentali. Il caso più celebre è quello della scuola del Bauhaus, fondato a Waimer nel 1919, che si propone di affrontare, con criteri lontani tanto dalla tradizione accademica quanto dalle tradizioni metodologiche delle scuole artigianali dei mestieri, il problema della produzione industriale, delle nuove tecniche da essa imposte e della qualità dell’oggetto creato.

In questo percorso si inserisce Graziella Guidotti, designer tessile con le sue poetiche opere della mostra Voli, Ventagli e Raggiere.
A base della loro costruzione la struttura dei tessuti pieghettati che svincolata da esigenze di uso pratico è diventata tema di una sperimentazione rivolta alla produzione di pezzi unici. La superficie rugosa, la ricchezza di luci e ombre, la possibilità di far convivere, con eguale successo, colori in gradazione e contrasti ha permesso di inventare un grande numero di variazioni declinate in tante forme differenti fra loro: fantasiosi ventagli che fanno riferimento agli antichi flabelli egiziani, etruschi e romani, ma anche ai prodotti etnici, all’arte giapponese e al ricco repertorio elaborato dalle nostre ave lungo i secoli. Un accessorio-oggetto, il ventaglio, utilizzato fin da tempi antichissimi in varie forme e con molti significati simbolici: gli egiziani ad esempio lo associavano al soffio vitale, alla vita stessa, per i giapponesi i suoi raggi rappresentano le tante opportunità offerte dalla vita e il bordo del pavese o “pagina” la sua conclusione. Nel teatro NO e nella danza è usato in modo espressivo, come un vero e proprio linguaggio.

In alcune opere presenti in mostra, la pagina del ventaglio, è disposta in verticale anziché in orizzontale e si ripete assumendo un carattere seriale. L’alternarsi delle sue raggiere orientate in direzioni opposte assume un dinamismo che suggerisce lo spostamento dell’aria o il soffio del vento ma anche il movimento di volatili; se disposto in direzione orizzontale, aiutato da una gamma di colori azzurri e blu, assume e suggerisce il movimento ondoso degli oceani. La loro struttura è basata sulla lavorazione contemporanea di due tessuti che a tratti risultano legati a formarne uno solo, altre volte risultano slegati e indipendenti provocando forti tensioni in ordito e trama, tensioni che, con appropriati accorgimenti operativi, possono essere modellate in pieghe. Ne derivano superfici con rilievi ed affossamenti, tutte diverse per consistenza e colore, ma tutte ugualmente in grado di accogliere luci ed ombre in un gioco che il comportamento delle fibre da cui sono composte rivelano conseguenze indeterminate ed imprevedibili in precedenza.

La lezione dell’astrattismo è, fondamentale per il corso e la storia delle arti applicate. Secondo Linda Nochilin “le donne artiste, restando fedeli all’antico ruolo di decoratrici, hanno giovato alla causa dell’astrattismo e allo stesso tempo ne hanno diffuso il messaggio oltre le pareti dello studio, della galleria, del museo, nel regno della vita quotidiana”. Come narra, nella presentazione della mostra, Marina Carmignani, “il lavoro di Graziella Guidotti, si snoda in un ampio arco di anni, sempre diviso tra l’impegno a tramandare alle nuove generazioni la complessa struttura delle stoffe e la creazione di tessuti per interni e per oggetti d’arredo, parti integranti del linguaggio architettonico e di quel vivace ambito del design italiano dei Sottsass, Aulenti o Michelucci.”.

Le opere in mostra non intendono emulare il ventaglio e la sua funzione pratica ma evocarne l’antico fascino attraverso un’interpretazione personale ricca di nuovi valori e significati, strutture, spesso, sospese in una animazione magica come i <<mobiles>> di Calder o le accoglienti scenografie di “favole senza tempo”.


Maria Paola Forlani

martedì 10 luglio 2018

BRUNO ZEVI


Gli architetti di Zevi.

Storia e controstoria dell’architettura italiana
1944 – 2000”


Al Maxxi di Roma si è aperta una mostra dedicata a Bruno Zevi nel centenario della nascita che resterà aperta fino al 16 settembre <<Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000>> a cura di Pippo Ciorra e Jeane-Louis Cohen, realizzata con la Fondazione Zevi.

Bruno Zevi nasce a Roma nel 1918. Frequenta il liceo <<Tasso>> e diventa amico fraterno di Mario Alicata e Paolo Alatri. Dopo la maturità si iscrive alla facoltà di architettura. A seguito delle leggi razziali, lascia l’Italia nel 1939 per recarsi prima a Londra e poi negli Stati Uniti. Qui si laurea presso la Grauduate School of Design della Harvard University, diretta da Walter Gropius, e scopre Frank Lloyd Wright, della cui predicazione a favore di un’architettura organica rimarrà acceso sostenitore per tutta la vita. A New York, affiancato da Aldo Garosci, Enzo Tagliacozzo, Renato Poggioli e Mario Salvadori, dirige i <<Quaderni italiani>> del movimento Giustizia e Libertà: quattro numeri, fra il 1942 e il 1944, distribuiti illegalmente al di qua delle Alpi con la complicità dell’intelligence Service. Seguendo, con forza, l’apostolato dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati a Parigi nel 1937.

Dagli USA, con lo pseudonimo Bruno Archi, scrive nel 1943: <<La tragedia non è tanto che ci sia il fascismo; la tragedia è che ci sia il fascismo, quando i fascisti sono tato pochi. L’indifferenza, l’apatia, l’assenteismo – in tutti noi – sono forse peggiori del male>>. Nel 1944 rientra finalmente a Roma: partecipa alla lotta antifascista nelle file del Partito d’Azione, promuove l’APAO (Associazione per l’architettura Organica) e, l'anno successivo, fonda la rivista <<Metron>>.

Zevi è sempre pronto a spendersi per una ricostruzione non solo architettonica ma culturale che potesse riscattare tutti dall’oscurantismo fascista.
E per fare questo non bastava l’università e la carriera accademica. Zevi da sincero democratico è convinto che la cultura debba arrivare a tutti ed essere divulgata con ogni mezzo. Dai libri a basso costo, che nella sua vita produrrà in maniera incessante come autore ed editore, a mostre rivoluzionarie, fino ai mezzi di comunicazione di massa che lui saprà gestire come pochi.

Con la sua voce scandita e baritonale, i gesti ampi e teatrali, l’immancabile papillon, l’intelligenza prensile unita a una potente capacità retorica, Zevi fu un precursore nel costruire quell’immagine di sé, necessaria a cavalcare radio e televisione per portare il dibattitto sull’architettura nelle case di tutti gli italiani. Fu soprattutto dalle colonne della sua rivista “Architettura – cronache e storia” e dalla storica rubrica
sull’ ”Espresso”, a cui collaborò dalla fondazione fino al giorno della sua scomparsa, che Zevi tracciò la linea della sua lotta politica e pratica contro <<l’architettura della repressione classicista, barocca e dialettale>>. Giudizio categorico contro tutto ciò che riteneva in odor di fascismo. L’Eur : <<Un orrore colossale e mostruoso. L’architettura fascista nella sua edizione più fiacca e balorda>>. Disneyland e i parchi giochi:<< Percorsi obbligati, costruiti sui modelli dei campi di concentramento>>. Il Vittoriano: <<Kitsch, accademico, devitalizzato, glacialmente arcaico, privo di gioia e di flagranza>>. La simmetria:<< Una grave malattia psichica, sintomo di instabilità interiore. Un edificio simmetrico incarcerato in se stesso, è antisociale. Tanti edifici simmetrici formano un discorso autoritario>>.


Sferrò una lotta senza quartiere a ogni architettura coercitiva, ma soprattutto negli anni Ottanta al nemico assoluto, Paolo Portoghesi e il citazionismo post moderno che lui vedeva come una rinascita della monumentalità retorica, schiacciante e nostalgica del passato.

Il suo caratteristico “stile” appassionato e torrenziale si lascia riconoscere anche scorrendo l’elenco dei volumi da lui dati alle stampe nel corso della vita: dove ogni pubblicazione risponde a un’incondizionata adesione, a un pieno coinvolgimento che oltrepassa di gran lunga i semplici doveri accademici. Così, le monografie dedicate a singoli architetti (Franc Lloyd Wright, 1947; Erik Gunnar Asplund, 1948; Richard Neutra, 1954, cui in seguito si aggiungeranno quelle su Erich Mendelsohn, 1970 e Giuseppe Terragni 1980) rivelano in modo trasparente le sue predilezioni, le sue ferventi scelte di campo.

E allo stesso modo, libri come Saper vedere l’architettura. Saggio sull’interpretazione spaziale dell’architettura (1948), così come pure Poetica dell’architettura neoplastica (1953), Architettura in nuce (1960) e Il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico (1973), testimoniano con precisione la concezione zeviana dell’architettura come spazio: spazio interno, e perciò coincidente con il suo utilizzo, o meglio ancora, con l’esperienza di vivere, e non semplicemente con la sua figuratività, appartenente piuttosto a una concezione pittorica, che Zevi ha ben cura di distinguere da quella architettonica.


Dopo la fine del Partito d’Azione, Zevi non aderì ad altri partiti, e per un trentennio si sentì politicamente orfano anche se si mostrò sempre disponibile a contribuire a ogni iniziativa che rendesse democratico e liberale il socialismo italiano di cui condivideva la tendenza riformatrice. Perciò, alla fine degli anni settanta, fu inevitabile l’incontro con i radicali: quando nel 1987 gli fu proposto di candidarsi al Parlamento per il Partito Radicale di cui era diventato presidente, rispose: <<Accetto perché da azionista vedo in voi gli eredi dei Rosselli>>. La sua presenza parlamentare (1987 – 1992) nel gruppo di minoranza fu esemplare per l’intelligenza che non fece mai pesare il prestigio e la fama di cui godeva.


La mostra del Maxxi, racconta la biografia di Bruno Zevi e dei progetti in un doppio binario, caratterizzati da due colori contrastanti, l’arancio vitage e il giallo.
I lavori presentati, come in uno studio, con tavoli, mensole e librerie sono realizzati dai suoi “pupilli”, alcuni più famosi altri meno conosciuti, altri ancora di cui è in atto un processo di revisione critica. Ecco allora Carlo Scarpa e Pier Luigi Nervi, Renzo Piano, Franco Albini, Piero Sartogo e Maurizio Sacripanti, Un omaggio doveroso a un grande intellettuale e alla sua ostinata difesa dei valori liberal-democratici che getta una luce diversa sulla storia dell’architettura.



Maria Paola Forlani

mercoledì 4 luglio 2018

FRITZ KOENIG


Fritz Koenig

1924 – 2017 La Retrospettiva
Il creatore di The Sphere delle Torri Gemelle di New York

“Poi è arrivato l’11 settembre 2001. Il giorno dell’attentato siamo a casa nella Pacific Palisades e seguiamo dal vivo alla televisione come si consuma la fatidica tragedia. Telefono a Koenig. Lui dice: l’unica cosa che ora conta è la catastrofe umana. Chi sono io o il mio lavoro in confronto a tutto ciò. E dopo una lunga pausa. Adesso è polvere. Per 28 anni, dal 1973, la grande cariatide sferica di New York (Grosse Kugelkaryatide N.Y.), conosciuta nel linguaggio popolare come The Sphere, si era specchiata su una superficie d’acqua mentre nuotava in maniera quasi impercettibile. Nella Plaza, tra i due grattacieli alti 400 metri, era diventata il simbolo dell’incontro. Adesso è polvere, il che significa che è stata schiacciata fino a diventare un epitaffio. Tre settimane dopo mi telefona. Fa capolino. E il giorno dopo.
Ė danneggiata. Non distrutta.
Devi andarci gli dico”.


Lo racconta Percy Adlon, regista fra l’altro di Sugar Baby e di Bagdad Cafè e autore di cinque documentari sullo scultore, nel suo testo “Fritz Koenig – come lo conoscevo” che è nel catalogo edito da Sillabe che documenta con molte foto tutta la carriera, la vita, dell’artista bavarese, scomparso novantatreenne, un anno fa.


Fino al 7 di ottobre Firenze celebra Fritz Koenig (20 giugno 1924- 22 febbraio 2017), da molti considerato fra i più importanti scultori del ventesimo secolo, con una grande mostra monografica (sotto il patrocinio del Duca Franz di Baviera, amico e collezionista dell’artista), la prima dopo la sua morte, presentando nei magnifici spazi del Giardino di Boboli e nelle sale degli Uffizi una grande quantità di sue opere, fra sculture e disegni, compresi, per la prima volta, i lavori degli ultimi quarant’anni della sua vita.

I curatori Alexander Rudigier, Eike D. Schmidt, Stefanje Weinmayer hanno messo a disposizione gli spazi più suggestivi per questa occasione straordinaria. Il bronzo, la pietra, il corten delle monumentali sculture di Koenig ritmano gli spazi del capostipite dei giardini all’italiana offrendo alla vista l’intreccio prezioso fra le loro forme, lisce o ruvide, spesso apparentemente instabili e padrone di uno studiato disequilibrio, e lo sfondo di panorami unici e le quinte delle siepi, dei grandi alberi, dei prati.


Personalità forte e complessa Koenig negli anni rifiutò il mondo dell’arte e decise di ritirarsi, con la moglie Maria, nella sua tenuta di Gansiberg, in Baviera, dedicandosi con passione anche ai suoi amati cavalli purosangue arabi dei quali diventò allevatore, ai suoi pavoni, alle galline, ai gatti, insomma alla sua “arca di Noè” come la chiamava circondato dalla sua collezione di arte africana tra le più notevoli al mondo.
“Fritz Koenig aveva occhi blu, attenti.

Aveva anche delle mani bellissime con dita forti e allo stesso tempo affusolate, proprio come lui stesso le ha disegnate. Era un uomo pieno di fascino, subito ammaliava chiunque. Il fascino è, secondo un’ineguagliabile definizione di Albert Camus, ciò che porta una persona a dire sì prima ancora che gli sia stato chiesto qualcosa. Con le donne diventava addirittura un seduttore, e a loro non riusciva a resistere” scrive in catalogo Alexander Rudiger, curatore della mostra. Proprio l’amore, l’eros è stato fra i temi dominanti del suo lavoro, come la morte del resto, gli epitaffi dell’olocausto.

Ci andò a New York, Koenig. La sfera si era miracolosamente salvata dal disastro grazie a due grandi lastre di acciaio che precipitate l’avevano protetta. Si era danneggiata ma non gravemente, l’artista intervenne, la restaurò ed è ancora lì, a Grand Zero.


Maria Paola Forlani

martedì 3 luglio 2018


Pupi Avati

Prepara il suo prossimo film a Rovigo, tratto dal suo romanzo
Il Signor Diavolo


Nella semplicità della cultura arcaica contadina era tutto più definito, così tanto che il Diavolo poteva essere identificato anche con un povero innocente, un ragazzino con problemi fisici e mentali: lo racconta il regista e scrittore nel suo romanzo “Il Signor Diavolo” Edizione Guanda (pagine 202, euro 16,00).
Sulla pagina e col suo cinema, in tanti film come “Balsamus, l’uomo di Satana”, “Thomas e gli indemoniati”, “La mazurka del barone, della santa e del ficofiorone”, “La casa delle finestre che ridono”, “Zeder” e “L’arcano incantatore”, Avati è grande cantastorie degli intrecci fra occulto, credenze popolari e religiose.


Il romanzo: “Il Signor Diavolo”
Anni cinquanta, Italia. Il pubblico ministero Furio Momentè sta raggiungendo Venezia da Roma, inviato dal tribunale per un processo delicato. Un ragazzino di quattordici anni ha ucciso un coetaneo, e la Curia romana vuole vederci chiaro, perché nel drammatico caso è implicato un convento di suore e si mormora di visioni demoniache. All’origine di tutto c’è la morte, due anni prima, di Paolino Osti. Malattia, hanno detto i medici, ma secondo Carlo, il suo migliore amico, Paolino è morto per una maledizione: Emilio lo ha fatto inciampare mentre, in chiesa portava l’ostia consacrata per la comunione. Sacrilegio…E Paolino sul letto di morte avrebbe mormorato “Io voglio tornare”. “Far tornare” l’amico per Carlo è diventata un’ossessione che ha messo in moto oscuri rituali e misteriosi eventi. Fino alla morte di Emilio, ucciso da Carlo con la fionda di Paolino. Almeno così pare…
Pupi Avati punta sui personaggi e sull’ambientazione per catturare il lettore e invischiarlo in una storia torbida che fa leva sulle sue paure ancestrali.
A Lio Piccolo, nel cattolicesimo veneto, paese di poche anime, avvolto nelle nebbie e circondato dalle paludi della laguna veneziana, un ragazzino uccide un coetaneo. Gli anni sono quelli del dopoguerra, ancora pesantemente segnati dalla distruzione e dalle privazioni del conflitto; il caso potrebbe essere di facile risoluzione, vista l’ammissione di colpa dell’imputato, se il giovane assassino non avesse tirato imballo niente di meno che il Maligno in persona, una suora e un sacrestano.
Un omicidio vendetta, istigato da esponenti del clero, perpetuato ai danni di un ragazzo con disturbi fisici e mentali e accusato di essere il diavolo in persona. Un potenziale scandalo in grado di ledere molti interessi, religiosi ma anche (e soprattutto) politici.
A indagare il caso, col compito di calmare le acque, sollevando Chiesa da ogni tipo di sospetto e assicurando il consenso democristiano della comunità, viene mandato, dal Ministero della Giustizia di Roma, l’Ispettore Furio Momentè. Personaggio ambiguo, tormentato e in cerca di riscatto personale e professionale, Momentè è destinato a scontrarsi con le radicali credenze di un mondo contadino chiuso in se stesso, geloso custode dei propri segreti e prigioniero di una religiosità spesso gretta e venata di arcaiche superstizioni.
Pupi Avati ci immerge in una storia intensamente nera, ritratto di una provincia non addomesticata, mai del tutto compresa, un profondo Norest intriso di religione e di superstizione e in cui i confini tra vita e mistero si spostano come l’orizzonte delle paludi. Un mondo dove tutto sembra possibile. Anche l’intervento del diavolo.


Maria Paola Forlani


lunedì 2 luglio 2018

IL CAVALLO NEL TEMPO


A Cavallo del Tempo.

L’arte di cavalcare dall’antichità al Medioevo


Il cavallo figura fra gli ultimi animali ad essere addomesticato.
Solo sul finire del IV secolo a.C., nelle steppe dell’Asia centrale, per la prima volta il cavallo cessò di essere semplicemente una preda da carne per intrecciare sempre più strettamente il suo destino con quello dell’uomo.

Si è aperta nella settecentesca Limonaia del Giardino di Boboli a Firenze la mostra
A cavallo del Tempo. L’arte di cavalcare dall’antichità al Medioevo, a cura di Lorenza Camin e Fabrizio Paolucci, fino al 14 ottobre (catalogo Sillabe). L’evento vuole raccontare proprio questo antico rapporto con selezione di oggetti che, spesso trascurati nell’esposizioni museali a vantaggio di opere più appariscenti, sono invece in grado di narrare le mille sfaccettature di una relazione che coinvolge ogni aspetto della vita quotidiana.

Quale sia stato il luogo in cui sia nata e sviluppata la domesticazione del cavallo è ancor oggi uno degli argomenti di più acceso dibattito nella letteratura scientifica. Sembrerebbe del tutto illogico immaginare che il cavallo abbia iniziato la sua millenaria storia di convivenza con l’uomo in un luogo diverso da quello dell’Europa orientale e delle steppe euroasiatiche. Strumenti necessari al controllo dell’animale (morsi, filetti, speroni, staffe etc.) sono esposti in mostra accanto a una serie di opere scelte per illustrare, nel modo più diretto e realistico, il ruolo primario che il cavallo ebbe nel mondo antico.
I reperti presenti, quasi un centinaio, provengono da decine di musei italiani e stranieri e illustrano un arco di tempo di oltre duemila anni, dalla prima Età del Ferro sino al Tardo Medioevo. Il percorso, incentrato soprattutto sul mondo italico, è articolato in cinque sezioni, ognuna delle quali è dedicata a un particolare momento storico: la Preistoria, il mondo greco e magno greco, il mondo etrusco e venetico, l’epoca romana e il Medioevo.

Fra i numerosi reperti che, per la prima volta, sono restituiti alla curiosità del pubblico figura il carro di Populonia.
Questo rarissimo esempio di calesse etrusco, rinvenuto alla metà del XX secolo della cosiddetta Fossa della Biga, è stato ricomposto a seguito del recente intervento di restauro, eseguito proprio in occasione di questa mostra. L’opera, realizzata in legno, ferro e bronzo e databile agli inizi di V secolo a.C., costituiva un veicolo ad andatura lenta destinato al trasporto di personaggi di alto rango.

Di particolare suggestione sono anche due crani equini rinvenuti durante gli scavi della necropoli occidentale di Himera e oggi conservati presso il Museo Pirro Marconi del Parco Archeologico di Himera. Nel 480 a.C., a Himera, i Siracusani sconfissero i Cartaginesi in un violento scontro che portò alla morte di centinaia di soldati e cavalieri. In prossimità del luogo della battaglia sono state rinvenute fosse comuni e tombe destinate ai corpi dei caduti, affiancate da sepolture equine.
Gli esemplari esposti in mostra presentano morsi ad anello bronzei, un tipo di imboccatura nota prevalentemente in aerea iberica, che sembra confermare la presenza di mercenari ispanici entro le fila dell’esercito cartaginese, come testimoniato anche da Erodoto (VII, 165). Il loro rinvenimento risulta straordinario: infatti, nel V secolo a.C. sono assai rare le attestazioni di sepolture equine nel mondo greco e magno greco, ma la risonanza dell’evento fece si che i soldati e i loro cavalli fossero oggetto di particolari onorificenze.

Vera e propria sintesi del rapporto fra uomo e cavallo può essere considerata la Kylix attica a figure rosse con Atena e il cavallo di Troia, oggi conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. L’esemplare, dipinto dal Pittore di Sabouroff, attivo tra il 470-460 e il 440-430 a.C., presenta sul tondo interno la raffigurazione della dea Atena seduta su trono, intenta ad accarezzare un cavallo di grandiose dimensioni. L'animale è ornato di tainiai niketeriai, le bende in lana rossa simbolo della vittoria. La maggioranza degli studiosi si trova pertanto concorde nell’indentificarvi Atena insieme al Cavallo di Troia, emblema dello stratagemma da lei stessa architettato, che portò alla conclusione della guerra con la vittoria achea.

A questi reperti se ne aggiungono molti altri che affrontano i più diversi aspetti del rapporto fra uomo e cavallo. Nel lavoro quotidiano (esemplificato in mostra da un rarissimo giogo ligneo dai relitti delle navi di Pisa) come nel giogo, nella guerra come nelle celebrazioni religiose i destrieri furono sempre una presenza costante al fianco dell’uomo.
Ultimo fra gli animali addomesticati, il cavallo seppe infatti strappare un ruolo di primo piano nell’arte, nella società e nella letteratura del mondo antico grazie alla sua innata bellezza e nobiltà che, inevitabilmente, finivano con l’irradiarsi anche al suo cavaliere.


L’intero concetto di questa mostra sembra contenuto in una delle opere che vi sono esposte, una splendida coppia di frontali in bronzo e avorio, del IV secolo a.C., destinati a proteggere il muso del cavallo: il perimetro della lamina sagomata e decorata a sbalzo ne segue pertanto l’anatomia allungata, ma al suo interno, invece di una fisionomia equina, racchiude le sembianze di un volto umano con un elmo sul capo. Cavallo e cavaliere diventano una cosa sola.

Dal Paleolitico a tutto il Cinquecento, la rassegna di fatto indaga questo rapporto, di un’attualità spesso insospettata, e che attraversa tutta la nostra storia.

La multivisione “A cavallo del tempo”, ideata e diretta da Gianmarco D’Agostino, completa il percorso espositivo con proiezioni di circa 300 metri quadri. La corrispondenza visiva tra opere in mostra e immagini dal vero, insieme a una colonna sonora immersiva, arricchisce il viaggio alla scoperta dell’amicizia attraverso i secoli tra uomo e cavallo.


Maria Paola Forlani