venerdì 31 maggio 2019


Henri Foucault. Corpi Splendenti






Corpi splendenti porta a Palazzo dei Diamanti le opere di Henri Faucault, affermato scultore e fotografo francese.

La mostra, curata da Dominique Paini, si pone in dialogo con Boldini e la moda, l’esposizione dedicata al pittore ferrarese che è stato uno dei più celebri ritrattisti della Belle Ėpoque. Il progetto rientra infatti nella programmazione della rassegna d’arte contemporanea Offside, ideata da Maria Luisa Pacelli, che mette in relazione il lavoro di artisti contemporanei con l’opera di maestri del passato per offrire uno sguardo attuale su temi e movimenti storicizzati.


Henri Foucault riflette sulla luce e sulla relazione tra superficie e materia, fondendo linguaggi espressivi diversi. Egli infatti interroga la scultura a partire dal mezzo in apparenza ad essa più lontano: la fotografia. L’immagine fotografica nasce quando la luce colpisce una superficie e, al contrario delle arti plastiche, il supporto sul quale essa si fissa è quasi ininfluente. Ed è proprio a partire dalla traccia luminosa che Foucault si dedica alla ricostruzione del modellato, del volume.


Abolendo ogni intento aneddotico, l’artista si concentra sul suo soggetto prediletto, il corpo femminile, che diviene una forma pura, una sorta di planimetria che non ha nulla di decorativo. Solo in un secondo momento Faucoult interviene sul fotogramma e decora le immagini con materiali tratti dalla couture, come cristalli Swarovski o punte di spillo.


I corpi splendenti nascono, quindi, dal paziente lavoro con cui l’artista veste con una miriade di frammenti  scintillanti diafane silhoutte femminili, che diventano volume, materia. In contrasto con l’atto scultoreo per eccellenza – la –  sottrazione, - Foucault dà forma all’atto fotografico grazie agli elementi aggiunti alla pellicola: ciò che brilla e luccica crea volumi mutevoli, variazioni cristalline, palpitazioni della carne rivelate grazie alla luce. Il suo processo creativo ha una tangenza ideale con la pittura di Boldini, impegnato anch’egli a plasmare le pose delle sue “divine” e a creare una relazione dinamica con lo spazio e lo spettatore, attraverso la raffigurazione di sete scintillanti, di vortici di colore, i vibranti pennellate in cui i corpi sembrano scomparire.
Tra le opere in mostra a Ferrara, è presente anche una produzione originale ispirata ad un dipinto di Boldini esposto a Palazzo dei Diamanti, l’Amazzone (c. 1879-80), Milano, Galleria d’Arte Moderna), un quadro la cui composizione ha una valenza quasi fotografica ‘congelata’ rispetto ad altre opere del ferrarese in cui il movimento sembra essere inarrestabile. Ed è proprio questa fissità ad avvicinare il lavoro certosino di Foucaul al turbolento pennello di Boldini: per entrambi in ultima analisi il corpo non ha più confini, liberato in un caso dalla luce, nell’altro dal movimento.

giovedì 30 maggio 2019


L’Eterna Musa.


L’universo femminile tra ‘800 e ‘900

Quaranta donne normali, di famiglia o della porta accanto. Mai dive, se non- forse- tra le mura di casa.

A formare una smagliante e cangiante galleria di personalità, ognuna a suo modo protagonista in una frazione di tempo e in un angolo di spazio. Di questa galleria di tipi femminili, la Fondazione Matteucci presenta dal 2 giugno al 3 novembre – un’affascinante selezione che muove dal primo Ottocento e approda al Novecento, con affondi internazionali e suggestivi nei due dopoguerra, entrambi forieri di grandi mutamenti. Opere sceltissime, talvolta mai prima esposte, di Fattori e Lega, Induno, Favretto, Casorati e Sironi, tra gli altri. In questa parata di donne ritratte o idealizzate, nessuno dei modelli prevalenti manca all’appello: l’eterna Eva si presenta di quadro in quadro in condizioni mutevoli di status e umore, angelo della famiglia o sirena ammaliatrice, popolana o borghese, lavoratrice o padrona di casa della buona società, lieta o malinconica, operosa o riflessiva. In esse si riconosce in filigrana non solo la Musa ispiratrice, ma anche gli infiniti altri prototipi stratificati nell’immaginario culturale dell’Occidente. La purissima Maria Vergine e la peccatrice Maddalena, Lia e Marta simboleggianti la vita attiva con Rachele e Maria allegorie della vita contemplativa, la carnale Venere e la materna Giunone, Salomè la seduttrice e Circe la maga.


“Una galleria d’istantanee tratte da un ideale album di famiglia che è andato formandosi nelle stagioni più diverse della vita”, anticipa Giuliano Mateucci.


“Figure che non ambiscono ad un posto nel Parnaso e che, al di là di ogni metafora, offrono della donna il volto più autentico, sofisticato e attraente. Immagini che, seppur condivise, si direbbero segretamente carpite, per la facilità con cui l’artista ha conferito al modello una personale dignità, facendone emergere il celato fascino”. Sbaglierebbe chi immaginasse una parata di persone dimesse, di figure di contorno. Al contrario le donne protagoniste di questa esposizione sono fiere del loro essere, perfettamente consapevoli del loro valore, ricche di una sensualità che, proprio perché non platealmente esibita, cattura sguardo e sentimento.


Donne che oggi si potrebbero definire come “realizzate”, nonostante il loro non volersi porre al centro del palcoscenico.


“Una galleria di antidive, nella quale si troverebbe certamente a disagio la determinata femminilità di una Marie Curie o di una Coco Chenel, poiché a prevalere è un altro tipo di donna che non ha difficoltà a confermarsi moglie e madre, in quei ruoli, insomma che nella routine del quotidiano ne nobilitano i sentimenti e lo spirito”, evidenzia ancora il curatore.


“Anche due artisti come Hayez e Boldini, che sul modello della Venere senza veli, carnale e sensuale, messa in posa da Tiziano, Fragonard, Goya o Courbet, hanno costruito gran parte della loro fortuna, figurano qui con opere che non lasciano spazio all’immaginazione. Lo stesso dicasi dei nudi di D’Ancona e Casorati, tanto casti che più non si può”.

“Ciascuna di loro sollecita la nostra fantasia, parlando di stagioni più o meno felici”.

“Spetta a noi farle rivivere, nella loro trattenuta e schietta espressività, come protagoniste di storie ed esperienze, successi e delusioni, cogliendo nella semplice naturalezza del carattere, degli umori, delle passioni, dei sentimenti quanto d’insondabile è in ogni donna”.

martedì 28 maggio 2019

Lygia Pape


LYGIA PAPE

Una sensuale geometria

La Fondazione Carriero di Milano presenta la prima antologica realizzata in Italia sul lavoro di Lygia Pape

(Rio de Janeiro 1927 – 2004), artista tra i più rappresentativi del Neoconcretismo brasiliano. La mostra, a cura di Francesco Stocchi e realizzata in stretta collaborazione con l’archivio dell’artista (Projeto Lygia Pape), pur presentando un’ampia selezione di lavori che copre quasi mezzo secolo di ricerca (1952 – 2000), non ha tuttavia ambizioni retrospettive, ma invece tematicamente in diversi ambienti che assecondano l’architettura delle sale espositive, ciascuno deputato all’approfondimento di un aspetto specifico del lavoro della Pepe, che è così posto in dialogo con l’unicità degli spazi architettonici della fondazione, nella storica Casa Parravicini, uno dei pochi edifici privati di Milano risalenti al Quattrocento, i cui interni sono stati riadattati da Gae Aulenti negli anni Novanta.

La ricerca di Lygia Pape rielabora criticamente e in maniera autonoma la lezione del modernismo europeo. La figura umana acquisisce nel suo lavoro una rinnovata centralità mentre il linguaggio si apre alla sensualità, in una sorta di sincretismo in cui convivono istanze diverse: il rapporto con la sua terra natale, il Brasile, incontra lo studio del Costruttivismo russo, assorbito e riformulato in un linguaggio multiforme e originale.
Appena ventenne, Lygia Pape aderisce al Movimento arte concreta, che compare in Brasile per il tramite della Biennale di San Paolo del 1951, e ispira la formazione di due gruppi autoctoni di Arte concreta: il Ruptura a San Paolo e il Gruppo frente  a Rio de Janeiro, cui Pape aderisce, condividendo il rifiuto per la figurazione e per l’arte brasiliana di matrice nazionalista, oltre a un interesse generico per le forme geometriche. Successivamente, Pepe mette in discussione i fondamenti dell’arte concreta, optando per una modalità espressiva più organica. Ne deriva una sintesi personale di istanze artistiche diverse, confluenti in un progetto estetico votato a uno spregiudicato eclettismo espressivo, che spazia con disinvoltura tra disegno, scultura, video, installazione, fotografia e performance.
Alla fine degli anni Cinquanta, Lygia Pape aderisce, con Lygia Clark, Hélio Oiticica, Reynaldo Jardim, Franz Weissman, gli artisti de Camargo, al gruppo degli artisti neo-concretisti (1950-1961), movimento che si oppone ai fondamenti estetici dell’astrattismo alla base dell’Arte concreta Negli anni Sessanta e Settanta, Pape produce soprattutto video e installazioni, in cui inscena metafore sarcastiche della dittatura in Brasile. Negli anni Ottanta, queste metafore diventano progressivamente più sottili. Al crepuscolo del secolo scorso, il suo lavoro assume una dimensione decisamente ambientale.

La mostra parte dai primi, preziosi Desenhos degli anni Cinquanta, realizzati a inchiostro nero su carta giapponese, che restituiscono forme geometriche ispirate a pentagrammi musicali, illuminati da lampi improvvisi di linee, tagli, griglie e rotture.
I Desenhos sono un chiaro esempio del desiderio precoce di Pape di liberarsi della bidimensionalità della superfice piana. Dopo questi primi esperimenti, alla fine degli anni Cinquanta l’artista inizia a sviluppare la serie dei Tecelares (tessiture), incisioni su legno in cui si fondono tradizione popolare brasiliana e ricerche costruttiviste di matrice europea.
Pape, tuttavia, sovverte concettualmente il procedimento xilografico, utilizzanto per la creazione di opere d’arte uniche: “L’incisione, in quanto tecnica utilizzata dagli incisori, non ha mai realmente definito l’esatto significato del mio lavoro, che si riferisce in particolar modo all’indagine spaziale” precisava al riguardo l’artista. Guidato soltanto dall’intuizione, al tempo stesso il rapporto tra le varie sequenze di forme geometriche che Pepe utilizza in questa serie illustra il suo concetto di “magnetizzazione”, in doppiamenti e spazi negativi interagiscono per attivare le superfici delle sue tessiture. Le sculture della serie del 1965
Livro del tempo, sono invece investigazioni sulla forma-quadrato e hanno la facoltà di generare nuove forme, potenzialmente all’infinito Livro noite e dia, 1963 – 76 e Livro da Criaçao (libro della creazione), 1959-60, sono considerati tra i suoi lavori più importanti. Qui, la forma-libro è intesa come oggetto con cui entrare in relazione, una forma che condensa esperienze mentali e sensoriali. I disegni che Pape realizza negli anni Ottanta con pastelli a cera su cartone da un lato riflettono il suo controllo geometrico ma anche l’espressività e la spontaneità della cultura brasiliana.

Le opere più iconiche di Lygia Pepe, tuttavia, sono senza dubbio le Ttéias (reti). Nella sala al secondo piano, Ttéia 1, C, 2000 è un’istallazione ambientale immersiva, abitata da trame geometriche intessute di fili d’oro tesi tra gli angoli della stanza. Le Ttéias possono essere considerate trasposizioni tridimensionali dei lessici geometrici presenti nelle sue Tecelares.
Così realizzate, le reti intessute da Pape suggeriscono volumi “magnetizzati” di spazio tridimensionale e conferiscono a ciascuna installazione una sensazione di eterea immaterialità. Questa importante antologia alla Fondazione Carriero si inserisce del contesto di un rinnovato interesse internazionale nei confronti dell’artista brasiliana, a partire dalla retrospettiva organizzata dal Museo Reina Sofia di Madrid, poi ripresa alla Serpentine Gallery i Londra e alla Pinacoteca Statale di San Paolo (2911). Più recentemente, i lavori di Lygia Pape sono stati esposti in due importanti antologiche: al Metropolitan museum di New York (2017), che ha proposto la prima mostra di grande respiro dell’artista negli Stati Uniti, e al Moderna museet di Stoccolma,   

sabato 25 maggio 2019

RAFFAELLINO DEL COLLE


Da Raffaello.

Raffellino del Colle




Il Comune di Urbino, con il contributo della Regione Marche e il comitato nazionale per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio, dedica una importante mostra monografica a Raffellino del Colle, pittore colto, che elaborò una delle più originali ed autentiche espressioni del manierismo fuori Firenze.


L’esposizione “Da Raffaello. Raffaellino del Colle”a cura di Vittorio Sgarbi, ospitata dal 17 maggio al 13 ottobre a Palazzo Ducale – Sale del Castellare e fa da apripista alle celebrazioni urbinati del 2020 per il quinto centenario della morte di Raffaello Sanzio (1483 – 1520), del quale Raffaellino (1494 – 1520) fu uno dei più fedeli e intelligenti seguaci. Sarà questo l’evento di apertura del nuovo ciclo di mostre diffuse tra Urbino, Fano e Pesaro in programma tra primavera ed estate, dal titolo “Mostre per Leonardo e per Raffaello”, nell’ambito delle celebrazioni promosse dal Mibac per i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci nel 2019 e di Raffaello Sanzio nel 2020.


La mostra di Urbino intende ripercorrere l’attività del maestro biturgense discepolo del “divin pittore” che, pur essendo stato largamente attivo nelle Marche, necessita ad oggi di una rivelazione storica e di una maggiore divulgazione. A Urbino, per la prima volta, si possono ammirare riunite alcune delle sue opere più significative provenienti da chiese e musei di Roma, Cagli, Mercatello sul Metauro, Perugia, Piobbico, Sansepolcro, Sant’Angelo in Vado, Urbania, Urbino. Il percorso è introdotto da due opere di Raffaello custodite nell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma: una tavoletta pressochè inedita con la Madonna con il Bambino e l’affresco con Putto reggifestone.
In estate apriranno le esposizioni di Fano che celebra Leonardo riscoprendo il legame con Vitruvio con la mostra, a cura di Guido Beltramini, Francesco Borgo e Paolo Clini, “Leonardo e Vitruvio”. Alla riscoperta dell’armonia. I leggendari disegni del CodiceAtlantico”, al Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano, Sala Morganti

Dall’ 11 luglio, e a Pesaro dove l’artista Agostino Iacurci sperimenterà una visione contemporanea del De Architectura di Vitruvio con un progetto originale. Dal 13 luglio, a Palazzo Mosca – Musei Civici “Agostino Iacurci Tracing Vitruvio. Viaggio onirico tra le pagine del De architectura”a cura di Marcello Smarelli. Tutte le mostre saranno visibili fino al 13 di ottobre.




Raffaellino del Colle (Sansepolcro 1496 circa – 1566) fu uno dei più fedeli seguaci di Raffaello. Artista colto e raffinato, il pittore biturgense elaborò una delle più originali ed autentiche espressioni del manierismo italiano: tra i favoriti della corte urbinate dei Della Rovere già dagli anni trenta del Cinquecento, fu attivo in molte località del Ducato, come Urbino, Urbania, Sant’Angelo in Vado, Mercatello, Lamoli, Cagli e Piobbico.

Dopo la prima formazione con Giovanni di Pietro detto lo Spagna, Raffaello di Michelangelo di Francesco detto Raffaellino del Colle (frazione di Sansepolcro, nella quale si credeva fosse nato), si recò a Roma, entrando nella bottega di Raffaello (1517 – 1518). Alla morte del maestro divenne collaboratore di Giulio Romano, partecipando alla decorazione della Sala di Costantino in Vaticano. Successivamente rientrò a Sansepolcro (1524), dove licenziò i suoi primi lavori (come la Resurrezione di Cristo nel duomo), ispirati ai modelli di Raffaello e di Giulio studiati nell’Urbe. Databili attorno al 1528 e l’Annunciazione di Città di Castello, opera che inaugurò un lungo impegno tra Umbria e Marche.
Dal 1530 Raffellino lavorò alla Villa Imperiale di Pesaro assieme a un gruppo di pittori convocati da Girolamo Genga su commissione di Francesco Maria I della Rovere e sua moglie Eleonora Gonzaga. Successivamente, oltre a Sansepolcro, fu attivo a Urbania (decorazione dell’oratorio del Corpus Domini), Bibbiena (cenacolo affrescato nel refettorio di Santa Maria del Sasso), Gubbio (decorazione di una cappella nella chiesa di San Pietro), Cagli (Sacra Conversazione in San Francesco) e Sant’Angelo in Vado (Sacra conversazione nella chiesa dei Servi).


Nell’aprile del 1536 Raffaellino giunse a Firenze per coadiuvare Giorgio Vasari negli apparati effimeri per l’ingresso della città dell’imperatore Carlo V. Tra il 1543 e il 1544 si spostò a Perugia, chiamato a decorare, assieme ad altri pittori, la cappella e l’appartamento del castellano nella Rocca Paolina (oggi non più esistente). Successivamente Raffaellino soggiornò prima a Napoli, dove affiancò Vasari nella decorazione del refettorio del monastero di Monteoliveto, e della Cancelleria. Nel 1548 Bronzino, già suo compagno di lavoro all’Imperiale, lo convocò a Firenze perché lo aiutasse nella realizzazione dei cartoni per gli arazzi con Storie di Giuseppe destinati al salone del Dugento in Palazzo Vecchio. Nel suo ultimo decennio di attività il maestro biturgense licenziò notevoli opere per Città di Castello, Sansepolcro e San Giovanni.

Come hanno chiarito gli studi recenti Raffaellino del Colle occupa un ruolo non secondario nel panorama artistico italiano di pieno Cinquecento, così come nel processo di aggiornamento stilistico degli ambienti umbro-marchigiani del tempo.


M.P.F.

giovedì 23 maggio 2019

FRANCESCA WOODMAN


Francesca Woodman




“Io da piccola leggevo sempre al contrario e adesso sono un po’ così…contraria” (Francesca Woodman).


6x6 cm, è il formato prediletto da Francesca Woodman per i suoi scatti, piccoli riquadri in bianco e nero, fotogrammi discreti che sembrano voler dissolversi nello spazio. Inquadrature imprecise, immagini sovrapposte, sfocate o mosse, sono il risultato di una realtà fluttuante o mosse, sono il risultato di una realtà fluttuante e imperscrutabile, ricreata meticolosamente dall’artista. E qui inizia il gioco, <<Non bisogna pensare a Francesca come a una sognatrice. Francesca era qualcuno che sapeva e voleva esattamente ciò che aveva in testa.>> Le immagini di Francesca Woodman inquietano e disorientano, sono fortemente perturbanti non solamente a causa dei soggetti e delle atmosfere misteriose che rappresentano, per quella loro vertiginosa essenza eterea ed evanescente forzatamente evocativa della biografia della loro autrice lanciatasi nel vuoto da un edificio di New York a soli ventidue anni; Le opere della giovane artista confondono innanzitutto perché creano un subitaneo gioco ambiguo con chi le guarda, sussurrando agli occhi ed esigendo un ruolo attivo dell’osservatore che si trova inaspettatamente a essere complice e illecito testimone di intime fantasie e stranianti sperimentazioni. In Francesca Woodman l’occhio si posa sull’obiettivo come sulla serratura di una stanza dimenticata, svuotata e appena chiusa a chiave. Una stanza anonima che è una voragine, universale metafora dell’inconscio.
L’artista vede l’interiorità come un pericolante non-luogo composto da porte scardinate o mai aperte, pareti scorticate, antiche specchiere. Ė li che libido, memoria, sogno e immigrazione si mescolano in un gioco infantile, messo in atto da Francesca Woodman in maniera innocente e provocatoria. Tutto è arcano nella sua sapiente messa in scena: il corpo, lo spazio, gli oggetti, il tempo e la relazione tra questi e la psiche. L’artista disegna spesso dei bozzetti preparatori per le sue immagini, da dove parte e poi sperimenta, interroga se stessa e l’altro, si mostra nuda con l’audacia della sua giovinezza e un’ossessione per l’introspezione. Le sue opere sono quasi esclusivamente autoritratti, eppure il volto vi è spesso celato e soprattutto si ha l’impressione che in una frastornante sovversione delle parti, l’osservatore si trovi dietro l’obiettivo trasformandosi, suo malgrado, nell’autore delle stesse opere che sta fissando, in tal modo le sente proprie mentre non gli appartengono affatto. Si instaura così un sentimento di disagio. Francesca Woodman, divertita, interagisce con chi la osserva: si svela, si nasconde, lacera l’essere e la carne, la sua bellissima, levigata, insopportabile involucro che ingabbia l’anima, varco da valicare. Nelle foto l’artista svanisce e ricompare, impalpabile, fragile, proveniente da un ignoto altrove, vicino e domestico, eppure talmente avulso da provocare un brivido nel guardarla.


Francesca Woodman nasce a Devner, in Colorado, il 3 aprile 1958, in una famiglia d’artisti: il padre George, pittore (si cimenterà nella fotografia dopo la morte della figlia), la madre Betty ceramista e il fratello maggiore, Charlie, videoartista. Francesca Woodman cresce in una dimensione di confronto e riflessione tra diverse espressioni artistiche.
Appena adolescente riceve una macchina fotografica dalla quale non si separerà più: <<Francesca era semplicemente smaniosa di scattare foto>>. Nel suo primo autoritratto ha tredici anni, il volto coperto dai capelli, in mano camuffa un bastone che funge da prolungamento per premere l’autoscatto e che con un effetto sfocato forma un raggio di luce; il cavo dell’apparecchio è ben evidente al centro dell’immagine, sovrapposto alla maniera di un rayogramma di Man Ray, è un cordone ombelicale tra il corpo dell’artista e la macchina fotografica. Tra il 1975 e il 1979 l’artista frequenta la Rhode Island School of Design a Providence (Stat Uniti), inizia a sperimentare con l’immagine, a provocare, il suo corpo nudo, statuario, risalta come un’incisione nel bianco e nero della pellicola e per l’artista diviene un oggetto, una geometria di luce con la quale scandalizzare. Sono gli anni Settanta: il femminismo, i movimenti studenteschi, la rivoluzione sessuale, ma nei lavori di Francesca Woodman giunge solo l’eco di ciò che accade all’estero, è piuttosto l’interiorità, l’inconscio che le interessa. Le sue foto hanno un sapore antico, non politico; le sue immagini enigmatiche trascinano verso gli abissi della psiche, di quel <<mistero in pieno giorno>> che teorizzava André Breton. Nelle foto di Francesca Woodman i rimandi al surrealismo sono numerosi, alcuni vere e proprie citazioni: Dorotea Tanning, Claude Cahun, Man Ray e soprattutto Hans Bellmer di cui riprende diversi aspetti come il corpo femminile deformato dalle legature dello spago, i nudi con i collant a righe, le pose disarticolate della sua famosa “bambola”. A differenza di Bellmer, però Francesca Woodman fa del suo stesso corpo l’oggetto dell’<<anatomia dell’inconscio fisico>>.


Afferma l’artista: <<Ė una questione di convenienza, fotografo me stessa perché sono sempre disponibile>> e in questa parola disponibile si nasconde tutta la giocosità del suo giovane pensiero, del perché il suo essere <<sempre disponibile>> vuol dire essere sempre pronta, non tirarsi mai indietro, spingersi oltre il conosciuto ed esplorare, attraverso il corpo e lo spazio, il visibile e ancor più l’invisibile.


Francesca Woodman scopre il surrealismo negli Stati Uniti ma è nel suo lungo soggiorno a Roma, tra il 1978 e il 1979 per proseguire all’estero gli studi, che la fotografa si immerge in un ambiente artistico e intellettuale che l’entusiasma. Conosce bene l’Italia, con la sua famiglia passa le vacanze all’Antella (una frazione di Bagno a Ripoli, Firenze), e frequenta la seconda elementare a Firenze, imparando a leggere in italiano. Giunta a Roma nel triste periodo degli  “anni di piombo”, Francesca trova negli artisti del gruppo San Lorenzo tra cui Gallo, Nunzio, Gianni Dessì, Cecobelli, poi Pizzi Canella e Tirelli, un gruppo di elezione.


I pittori si riuniscono nell’ex panificio Cerere nel quartiere di San Lorenzo, ognuno porta avanti un proprio percorso individuale, condividendo i grandi spazi dell’edificio abbandonato. Lì Francesca Woodman ambienterà diverse sue foto e qualche video che risentono di una particolare composizione geometrica influenzata dall’arte italiana, dalla prospettiva rinascimentale, da Giotto a Piero della Francesca. Tra queste una delle sue immagini più note in cui simula una crocifissione sullo stipite di una porta chiusa e ancora le serie Angel Fish Calendar – 6 Days, Yet Another Leaden Sky. A Roma l’artista scopre la libreria Maldoror e vi passa pomeriggi e serate in compagnia deli proprietario Paolo Cassetti alla scoperta di introvabili testi surrealisti, dada e futuristi. Il 20 marzo 1978 nello scantinato di Moldoror adibito in galleria è allestita una mostra di Francesca Woodman. L’artista realizza realizza gli inviti con una cartolina nella quale incolla un suo provino a contatto originale: << Se consideri che le sue foto hanno il formato di poco più grande di quello di un provino a contatto, ti rendi conto che Francesca in pratica spedì le sue opere. Che generosità!>> (Paolo Cassetti).


Per l’inaugurazione l’artista non si presenta. Francesca Woodman rimarrà molto legata al suo periodo romano; tra gli scaffali della libreria Maldoror scopre un giorno un insieme di quaderni di esercizi scolastici dove annotati a penna in bella calligrafia vi si trovavano gli appunti di diverse materie scientifiche e letterarie. L’artista se ne appropria e nelle pagine ingiallite dal tempo applica su carta trasparente perché si confondano con la scrittura precedente, una serie di foto e delle brevi ed ermetiche frasi: << Vorrei che le parole avessero con le mie immagini lo stesso rapporto che le fotografie hanno con il testo in Nadja di Andrè Breton.
Egli coglie tutte le illusioni e i dettagli enigmatici di alcune istantanee abbastanza ordinarie ed elabora delle storie. Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagii complete nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dello spettatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza>>. Uno di questi quaderni romani nel 1981 diviene la sua unica pubblicazione:
Some Disordered Interior Geometry (Alcune disordinate geometrie interiori): l’ossimoro “disordinate geometrie” esplica bene “l’interiore” di Franncesca Woodman, ironica, complessa, sensibile e decisa, giocosa e solitaria, convulsivamente misteriosa.



Rientrata negli Stati Uniti nel 1979 si diploma a Providence, successivamente vive a Washington e New York dove prova diversi lavori tra cui la fotografia di moda le sue immagini tormentate sono poco comprese.

Tra le sue ultime serie Swan Song, dedicata a Proust, e delle nuove immagini sul tema dell’osmosi tra il corpo e natura. Come svaniva tra le pareti, adesso Francesca Woodman svanisce tra le cortecce degli alberi, la terra, l’acqua in un desiderio di fusione totale con la realtà per penetrarla oltre l’involucro del visibile, oltre il tempo e lo spazio materico, oltre ancora l’immaginazione e la sua fragilità.

Nel 1981 Francesca Woodman decide di svanire per sempre. La sua arte conserva intatta la perturbante purezza dell’utopia dell’addentrarsi “oltre lo specchio” attraverso il gioco, innocente e proibito, e in un desiderio infantile di essere almeno in due: << Non ero (sono?) unica ma speciale. Questo è il motivo per cui avevo deciso di essere artista. Stavo inventando un linguaggio affinchè le persone vedano la quotidianità che io vedo e per mostrare loro qualcosa di diverso. []. E non per
insegnare alle persone una lezione. Semplicemente dall’altra parte>>.


mercoledì 22 maggio 2019

LESSICO FEMMINILE


Lessico Femminile – 70 anni di emancipazione in mostra a Palazzo Pitti




Tra l’iscrizione di alcune lavoratrici all’associazione Fratellanza nel 1861, e il premio Nobel conferito a Grazia Deledda per il suo Canne al vento, nel 1926, corre una storia descritta da opere d’arte e fotografie che celebrano il riscatto dell’immagine femminile e del ruolo pubblico delle donne nel periodo post-unitario. Palazzo Pitti racconta questi 70 anni di emancipazione attraverso una mostra realizzata in collaborazione con Advancing Women Artists, aperta fino il 26 maggio.


Come sul palcoscenico di un teatro, le protagoniste emergono dalle collezioni della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti che custodisce una delle più significative raccolte sul tema del lavoro delle donne nei campi fra Ottocento e Novecento. Accanto a queste non mancano capolavori in prestito da collezioni private.

Da un lato ci sono le contadine, dedite alle pratiche agricole collegate al ciclo delle stagioni, che, nei momenti di sosta dal lavoro più duro, rammendavano, lavoravano a maglia o intrecciavano la paglia, come emerge da numerosi dipinti di Silvestro Lega esposti in galleria.

Dall’altra, le donne borghesi, che potevano studiare e intraprendere una carriera scolastica, diventare artiste e perfino autrici di libri di scuola, o di articoli sull’economia domestica, sull’etichetta e le buone maniere.


Intanto nell’apparente quiete dei salotti – dove aveva luogo unna fervida vita intellettuale – attecchivano pensieri rivoluzionari e patriottici.

Erano gli anni in cui Firenze diventava luogo d’incontro per figure di spicco nel mondo femminile non solo della letteratura e dell’arte, ma anche dell’impegno sociale e politico, su scala internazionale e dove vissero donne del calibro della poetessa Elizabeth Barret Browing, della scrittrice e patriota Jessie White Mario, della poetessa inglese Theosia Garrow Trollope.

“nell’arco cronologico di poco più di mezzo secolo considerato dalla mostra – commenta il dirattore degli Uffizi Elke Schmidt – maturano i presupposti per il riscatto sociale e per una nuova autonomia della donna, non più solamente ancorata al ruolo di angelo del focolare. Le opere esposte raccontano una realtà in cui si affaccia la questione femminile, quando l’impegno nel lavoro, gli interessi politici, la vita intellettuale e l’indipendenza erano ancora un privilegio, o il risultato di una lotta”.


Attraverso oggetti e opere di artisti – dal Ritratto di Grazia Deledda di Plinio Nomellini all’acquarello su carta intitolato ‘In posa’ di Giuseppe De Nittis, dalle fotografie dei Fratelli Allinari alla bandiera in seta con ricami in oro della Fratellanza Artigiana d’Italia – il percorso documenta le molteplici espressioni del talento femminile nel campo dell’arte della fotografia, dell’insegnamento della scrittura, della politica.


“Le artiste internazionali – spiega Linda Falcone direttrice di Advancing Women Artists, l’organizzazione statunitense con sede a Firenze, dedita alla ricerca, restauro ed esposizione di opere d’arte di donne storiche, nei musei e depositi museali della Toscana – sono ben rappresentate in questa mostra, visto che le donne straniere godevano di un certo livello di libertà in Italia, cosa che non avveniva nei loro paesi di origine. Ne sono alcuni esempi la simbolista tedesca Julia Hoffmann Tedesco, che condivideva lo stesso interesse per la sfera femminile di suo marito esponente dei Macchiaioli, o l’artista francese Elisabeth Chaplin, la più giovane e prolifica tra quelle rappresentate nella collezione della Galleria degli Uffizi”.



Maria Paola Forlani