lunedì 3 marzo 2025

Silenzio parla HAMMERSHOI


 Il Trait-d'union tra una via deserta di Delft dipinta da Johannes Vermeer nella metà del XVII secolo e un'immobile scorcio cittadino colto da Edward Hopper negli anni '30/40 del Novecento è un'ovattata veduta di Copenaghen, popolata al più da uno stormo d'uccelli che attraversa un celo plumbeo, silenziosa come tutte le opere di Vilhelm Hammershoi (1864-1916).

Il suo quotidiano sobrio e solitario è protagonista sella sua prima mostra in assoluto in Italia: Hammershoi e i pittori del silenzio, a cura di Paolo Bolpagni, è in corso a Palazzo Roverella di Rovigo fino al 29 giugno.

Assorta Immobilità.


Un divano Biedermeier si staglia su una parete grigia, interrotta solo da un ritratto maschile e da una fredda lama di luce. In un altro dipinto una figura femminile è assorta nella lettura di un libro, immobile in una stanza spoglia. E poi ritratti enigmatici, talvolta di spalle, paesaggi danesi dove distese verdi, appena mosse, rivelano un timido mare sullo sfondo o sono "tagliate" da filari di alberi. I dipinti di Hammershoi raccontano una quotidianità silenziosa.


Gli interni che raffigurava erano realmente quelli della sua casa; allestiva dei veri e propri  set spostando un mobile o aggiungendo una ceramica, fino a ottenere un colpo d'occhio desiderato (fu anche a  Roma, dove partecipò alla Quadriennale del 1911 e dove realizzò l'unico dipinto di soggetto italiano, Interno della chiesa di Santo Stefano Rotondo, 1902, esposto a Rovigo),

La Danimarca rimaneva il suo "modello" preferito. Nella mostra di Palazzo Roverella alle sue opere sono accostate quelle di artisti che ne hanno subito il fascino e che hanno fatto dell'intimismo minimalista e della pensosa immobilità la loro cifra, da Umberto Prencipe a Oscar Ghiglia, Vittore Grubecy de Dragon e Sristide Sartorio, da Xavier Mellery e Fernand Khnopff, per citarne solo alcuni.

M.P.F

mercoledì 15 gennaio 2025

PAOLO MANARESI (1908-1991)


Si. è aperta a Bologna la mostra del pittore bolognese Paolo Manaresi (1908-1991),
Nella sala d'Ercole di Palazzo d'Accursio. fino al 2 Febbraio. Palo Manaresiè senza alcun dubbio tra gli artisti, allievi di Giorgio Morandi,  tra i più dotati , fu un autentico <<peintre-graveir>>  - pittore, fra i massimi dell'ambito bolognese, fu anche, grande grafico. Mio maestro all'Accademia di Belle Arti di Bologna, rivelò sempre un aria mite, gentile e affettuosa.

Un'attiviuà grafica che durò esattamente dal 1908 al 1991. Come per altri, gli avvenne ora di trasporre dipinti in acqueforti, ora acqueforti in dipinti; ma non giocò mai d'intrusioni da grafico in pitturaq e, meno che meno, di pittoricismo in grafica. Equivalenze di significato in ben definite diversità di mezzo e del suo impiego.


Primo lavoro, l'acquaforte <<paesaggio bolognese>> del 1912, ispirato da Morandi dove un equilibrio di segno e di legamenti strutturali rendono una splendida freschezza anche se il foglio ha una certa ingenuità, sarebbe dire il cauto incontro con la morsura. Seguono fogli con nature morte dove una memoria cubista, ma sottoposte,ad in riflessivo leggibile ordinamento classico; il  tratto e già più ricco di toni, di finezze dei <<rapporti>> e vario nell'apparente uniformità. Alcune acqueforti su rami (le primissime erano su zinco), sperimentano l'emergere di forme elementaari dai fondi neri, pregni di morditezza che è già uno spessore di tempo; e dell'anno - piuttosto fecondo - s'alternano apparizioni lievissime e concretissime di forme argentate su fondi chiari come <<Natura morta con vaso>>, ed altre in cui nariamente il fondo si infittisce di scuri, o per via di sottili incroci o anche solo di larghi tratti paralleli. Apparente freddo, ma già tutto un programma il  paesaggio dei colli, dal reticolo fitto continuo ma con improvvise mutazioni; mentre la natura morta con bottiglie, è già un compedio è già un compendio di futuri colloqui con uno dei soggetti solitari uscenti dal buio, accostati come esistenze umane. E ci sono anche alcune nature morte con gli oggetti ingigantiti in rapporto al foglio, meno persuasive, ma bene indicative d'una ricerca rinnonata di forma e di segno grafico che non ha mai una debolezza, un cedimento nel minimo punto.


Ecco nella paesaggio più complesso di ponderazioni formali e tonali di <<Figure e cipressi, forse mosesta ma che è un'apertura a nuovo modo di scalar forme geometriche, trovando gli appropriati mezzi neri, mezze tinte, bianchi; così come è apertura di una lunga serie di meditazioni sul fondersi di spazio tempo.

Foglio <<classico>>, di quelli che da soli possano esemplare tutto <<Manaresi>>, è il <<Paesaggio sulla valle>> del '29, strutturato con perfette forme reali divenute stratti di memoria, dominati dal bianco assoluto, vero e fantastico del fiume. Le esperienze si accumolano, sul piano espressivo e sul piano tecnico, senza alcuna materiale di <<sviluppo>>




 

 

 

lunedì 14 ottobre 2024

IL CINQUECENTO A FERRARA - Mazzolino, Ortolano, Garofalo, Dosso


La mostra 
 IL CINQUECENTO A FERRARA, Mazzolino, Ortolano, Garofalo, Dosso costituisce la seconda tappa di un più ampia e ambiziosa indagine del tessuto culturale e artistico intitolato RINASCIMENTO A FERRARA 1471-1598: da Borso ad Alfonso II d'Este, vale a dire la stagione compresa tra l'elevazione della città ducato e il suo passaggio dalla dinastia estense al diretto controllo dello Stato Pontificio.

Naturale prosecuzione  di Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa tenutasi a Ferrara a Palazzo dei Diamanti nel 2023, l'esposizione ripercorre le vicende artistiche del primo Cinquecento, dagli anni del passaggio di consegne da Ercole I D'Este al Figlio Alfonso I (1534) committente raffinato e di grandi ambizioni, capace di rinnovare gli spazi privati della corte come quelli pubblici della città. La scomparsa della generazione di Cosmè Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de Roberti lascia Ferrara alle prese con la difficoltà di adottare un linguaggio più moderno, addolcito e morbido. All'inizio del nuovo del nuovo secolo si sviluppa così una nuova scuola, meno endemica e più aperta agli scambi con  altri centri, che ha come protagonisti Ludovico Mazzolino, Giovan Battista Benvenuti detto Garofalo e Giovanni Luteri detto Dosso.

Mentre Garofalo e Dosso sono noti al pubblico e il loro percorso è stato approfondito in maniera organica in maniera organica in diverse occasioni espositive, per Mazzolino e Ortolano si tratta di un debutto assoluto, e quanto mai necessario per illustrare compiutamente e comprendere meglio il variegato panorama della pittura ferrarese dei primi decenni del XVI secolo.

I due maestri percorrono strade piuttosto diverse: Ludovico Mazzolino (Ferrara, 1487 - 1528), formatosi sui modelli di Ercole de' Roberti e del primo Lorenzo Costa, orienta il  suo linguaggio in senso anticlassico, guardando alla pittura e alle incisioni tedesche, da Martin Schongauer as Albert Durer. Nonostante dimostri di conoscere Boccaccino ela pittura veneziana, come anche Raffaello e la cultura antica, la sua arte è sempre animata da accenti visionari e da una vitalità rumorosa che lo pone a buon diritto tra gli "eccentrici" attivi nell'Italia settentrionali. Si specializza in quadri di impeccabile fattura destinati al collezionismo privato raffiguranti scene gremite di personaggi dai tratti fisionomici caricati, quasi grotteschi, del tutto insofferenti agli ideali di grazia ed equilibrio predicato da Perugino e dai sui seguaci.

L'astro bizzarro di Mazzolino spicca con evidenza ancora maggiore quando lo si confronta con l'atteggiamento di Giovanni Battista Benvenuti detto l'Ortolano (Ferrara, 1487 - 1527), caratterizzato invece da un naturalismo convinto e sincero. Dopo l'esordio influenzato dai modi dolci di Boccacino, Costa e Francesco Francia, Raffaello. Accanto alle grandi pale d'altare eseguite nel terzo decennio, veri e propri  capolavori connotati da un << classicismo>> naturalizzato per via del lume illusionistico >> (Longhi), produce numerosi quadri destinati alla devozione privata dove l'ispirazione raffaellesca  si accende di suggestioni venete, evidenti soprattutto nella resa del paesaggio. Impossibile non rimanere incantati dalla spontaneità con cui l'artista si approccia alla realtà: una luce chiara isola i personaggi e indugia silenziosa sugli oggetti; nella (apparente) semplicità delle composizioni si avverte il senso dell'arcano.

Tra i riferimenti di Ortolano figura certamente Benvenuto Tisi detto Garofalo (Ferrara, 1481 - 1559). Formatosi presso Domenico Panetti e Boccaccino dimostra fin da giovane una grande intelligenza figurativa che gli consente di misurarsi tempestivamente con tutte le novità che andavano nei maggiori centri della penisola. Durante il primo decennio si accosta alla pittura veneziana e a Giorgione, per poi spostare il baricentro dei propri interessi verso l'Italia centrale. Nel corso della sua lunga carriera Garofalo è il principale interprete e divulgatore ferrarese dello  stile di Raffaello, di cui comprende perfettamente la portata e di cui segue lo svolgimento con diligenza. Le sue pale d'altare, dalla maniera pacata ed elegante, popolano le chiese cittadine, mentre i preziosi dipinti da cavalletto sono presenti in gran numero in collezioni private.

Parallelamente a Garofalo si muove Giovanni Luteri detto Dosso (Tramuschio 1487 - Ferrara, 1542), uno degli artisti di punta della corte di Ferrara dove lavora. Nato nel piccolo ducato di Mirandola, esordisce a Mantova e nel 1513 si trasferisce a Ferrara dove lavora, insieme a Garofalo, al celebre polittico Constabili nella chiesa di Sant'Andrea (oggi nella pinacoteca nazionale. Durante la giovinezza la sua pittura risente dell'influenza di Giorgione e Tiziano, dai quali trae una magnifica profondità di colore e una luce tutta veneziana. All'epoca della sua prima opera sicuramente datata, la spettacolare Madonna col Bambino e santi per il duomo di Modena (1518-21), è già avvenuto un contatto con Michelangelo e la cultura romana: da qui in poi Dosso sviluppa uno stile personale, colto e divertito, grazie anche a una particolare sintonia con Alfonso I. Se Garofalo monopolizza le commissioni ecclesiastiche, Dosso è padrone del campo delle imprese ducali, in cui affronta temi allegorici, desunti spesso dall'Ariosto..

La scena della pittura cittadina non sarebbe infine completa senza le opere di Domenico Panetti, Lazzaro Grimaldi, Nicolò Pisano, Il Maestro dei Dodi Apostoli: grazie al contributo si questi maestri, presenti assieme ad altri (Fra Bartolomeo, Romanino, Amico Aspertini, Albrect Durer) 





















venerdì 31 maggio 2024

BIENNALE DONNA, 40 anni dalla parte delle artiste

 La parola, il corpo, la comunità. Tre termini che costituiscono l'impianto della  edizione di Biennale Donna (fino al 30 giugno), rassegna storica legata a Ferrara che quest'anno celebra quarant'anni di attività con il titolo Yours in Solidarity - Altre storie tra arte e parola, a cura di Sofia Gotti e Caterina Iaquinta, e presenta il lavoro di sei artiste negli spazi di Palazzo Bonacossi: Binda Diaw, Amelia Etlinger, Bracha L, Ettinger, Sara Leghissa, Muna Mussie e Nicoline van Harskamp.

Biennale è un progetto che nasce nel 1984 e incarna quell'arte necessaria, urgente, orizzontale che si fa gesto politico e civile, riflessione collettiva, strumento di formazione critica. Una Biennale dedicata alle artiste, ma che attraverso loro parla anche della parità di genere come diritto universale. Una questione che non riguarda solo le donne, ma che in loro trova figura simbolica. La storia della Biennale, infatti, nasce  dalla volontà tenace dell'UDI, Unione Donne in Italia, associazione femminile tra le più importanti in Europa, nata dalla volontà nel 1944, celebrata in mostra con documenti d'archivio, pubblicazioni, stendardi e fotografie. Biennale Donna rappresenta un caso unico in Italia, un progetto che ha continuato il lavoro iniziato da figure come Mirella Bentivoglio, Carla Lonzi e Romana Loda, e da collettivi tra cui Rivolta Femminile, Il Gruppo del Mercoledì, la Cooperativa del Beato Angelico. Se oggi le artiste hanno conquistato una certa cittadinanza e voce nel mondo dell'arte, negli anni Ottanta non era così, e il mondo di arte femminista, dopo la propulsione degli anni Settanta, sembrava aver perso energia e forza. Nel tempo la Biennale ha invitato artiste appartenenti a geografie lontane, ha aiutato nel riscoprire figure meno note ma fondamentali come Ketty  La Rocca, ha dedicato omaggi a icone come Carol Rama, Patti Smith e Mona Hatoum. 

Anche in questa edizione le artiste sono molto diverse tra loro per generazioni, linguaggi e tecniche ma le lega l'obiettivo di sviluppare forme di solidarietà e di mettersi in gioco sempre in prima persona. La pratica della statunitense Amelia Etlinger (1933-1987) si basava sulla stesura di lettere in busta chiusa indirizzate a figure come Mirella Bentivoglio e Betty Danon. Parole insieme a brandelli di stoffa, materiali organici e naturali residui del quotidiano. Bracha L. Ettinger, artista ma anche teorica femminista psiconalista e filosofa, dipinge su carta e tieni quaderni nati da processi di scrittura/ pittura psico-visiva. Muna Mussie, invece italiana di origine eritrea, indaga quelle parti di memoria collettiva escluse dalla narrazionì ufficiali, collaborando con gruppi di migranti con cui realizza ricami collettivi, mentre l'italo-senegalese Binda Diaw esplora l'influenza sull'individuo di fenomeni come la migrazione, il concetto di appartenenza, la questione di genere. Poi Nicolime van Harkamp, che rilegge attraverso opere video quelle utopie politiche vhe credettero nei legami solidali e nell'autodeterminazione, mescolando voci e immagini tratte da epistolari. E per Sara Leghissa, infine, manifesti che affigge sui  muri di città da Roma a Marsiglia, che contengono estratti dei suoi dialoghi con comunità marginalizzati: gli studenti, per esempio. La sua parola si fa voce corale e il suo manifesto all'ingresso della mostra, tratto dal testo sacro del femminismo come è Against ordinary language: the language of the body di Katty Acker, si pone come cruciale <<Is the equation between destuction and gruwth also a formula for art?>>.     



domenica 29 ottobre 2023

Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito

 Palazzo dei Diamanti rende omaggio


a uno dei più originali e sensibili interpreti della temperie artistica della prima metà del Novecento. Achille Funi (Ferrara, 1890 - Appiano Gentile, 1972) ha preso parte ai principali movimenti del moderno classicismo del gruppo "Novecento", fino al muralismo degli anni Trenta.

Innamorato dei miti classici e della cultura rinascimentale,  al punto da essere considerato un novello umanista, Funi ha saputo attingere alla tradizione figurativa antica, ma anche guardare al linguaggio attuale di Cèzanne, Picasso, Derain, de Chirico, per plasmare un originale universo visivo dove s'intrecciano realtà e immaginazione.


Oltre centotrenta opere provenienti da importanti musei collezioni pubbliche e private, illustrano l'intera, complessa parabola creativa di Funi. Il percorso espositivo è scandito dai massimi capolavori dell'artista e propone un affascinante viaggio nell'universo della pittura.


Dagli esordi a Brera alla tarda maturità Funi ha sperimentato tutte le tecniche pittoriche senza stancarsi di ricercare i segreti perduti dei grani maestri. Dipinti a olio e a tempera, su tavola e tela, acquarelli, disegni e cartoni preparatori per i grandi affreschi e mosaici permettono di riscoprire lo straordinario talento di uno dei più grandi maestri del Novecento.

1 Tra Ferrara e l'Accademia di Brera: le opere giovanili (1905-1910)


La prima sezione  della mostra raccoglie alcune delle  rarissime opere del periodo giovanile di Funi. Si tratta di una produzione composta da studi a matita, sanguigna, pastello e meno di una ventina di oli.


Molto singolare è il piccolo e inedito Autoritratto, che raffigura il quindicenni Virgilio secondo i canoni di una robusta pittura realista.


Nell'autunno del 1906 l'artista si trasferisce a Milano e si iscrive all'Accademia di Brera, seguendo il canonico percorso formativo destinato a valorizzare le eccellenti doti del giovane.

Sensibile alla pittura figurativa, Funi realizza Nudo femminile seduto e Nudo maschile di forte consistenza plastica, e alcuni autoritratti di acuta sottigliezza psicologica. Più rari in questo periodo i paesaggi, come Il Ponte del Diavolo, Lanzo Torinese, così come appare inconsueto il decorativismo di gusto vagamente liberty di Ritratto di profilo.

2. IL Futurismo funiano. Il moto e la Forma (1911-1914)


Congedato nel 1910 dall'Accademia di Brera, condivide con i giovani colleghi il bisogno di rinnovamento mantenendosi però distante dagli estremismi del Futurismo di Umberto Boccioni e di Filippo Tommaso Marinetti.


Dotato di vocazione realistica mediata da un'innata visionarietà, già dal 1911 realizza matite ed acquarelli in uno stile cubofuturista caratterizzato da contrasti volumetrici inseriti in un movimento  ritmico e deformante, come in Corso Monforte. Il linguaggio innovativo del ferrarese è lodato dall'amico Boccioni, che ne ammira le fasciature delle forme sull'esempio di Cèzanne.

Questa sezione è dedicata al dinamismo architettonico della realtà e al movimento delle masse deformate sul ritmo delle emozioni plastiche, teorizzate nel 1914 da Boccioni, Figura in scala cromatica (1914) rivela la conoscenza dell'orfismo di Robert Delaunay e del cerchio cromatico di Auguste Macke, Uomo che scende dal tram del Museo del Novecento di Milano e Il motociclista (presente in diverse varianti), entrambe del 1914,


, affrontano il tema del moto in sintonia con Boccioni. La tematica è riproposta anche nel ribaltmento dei volumi e prospettive di Notturni (case+cielo+lampini, paesaggio lunare), visione urbana di un moderato Futurismo.

3 Testimonianze dal fronte (1915-1916)

Nel maggio 1915 l'artista si arruola nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automibilisti con i compagni futuristi Umberto Boccioni, Carlo Erba, Filippo Tommaso Marinetti, Antonio Sant'Elia, Mario Sironi e con Anselmo Bucci, appena rientrato da Parigi e raffigurato nell'incisivo Ritratto di Bucci volontario. Combatte a Dosso Casina, passa nel 1916 al corpo degli alpini e affronta le battaglie di Camposile (1917) e di Grave di Papadopoli (1918).


Con i compagni interventisti vince la vicenda bellica con profondo entusiasmo e scrive dal fronte a Margherita Sarfatti: <<Sto benone>>. Basta leggere il diario di guerra di Boccioni per capire quanto ciò fosse lontano dal vero. Tuttavia nei momenti di pausa dalle operazioni militari gli artisti trovarono il modo per non trascurare la loro passione.


Funi realizza parecchi disegni e acquarelli su fogli di medie dimensioni, in gran parte andati perduti durante gli spostamenti militari e traslochi successivi. Vi ritrae, con abbreviamo sintetismo neo-cèzaniano, le pause dalle operazioni, le attese nel campo, la gavetta, i soldati a riposo, i giochi tra coscritti, la lettura delle missive da casa, brani autentici di quotidianità solo apparentemente serena.


4. Cubofuturismo e recupero di Cèzanne (1911-1918)


Il ventenne Funi non aderisce al Futurismo di Marinetti: non condivide nè l'ideologia, nè la frammentazione della visione. La sua poetica procede piuttosto verso un rinnovamento linguistico alla luce di Cèzanne e di una personale ispirazione cubofuturista che gli consente di mantenersi fedele alle forme, alle forme, alle masse plastiche e al loro moto armonico.


Tra il 1913 e il 1914 partecipa all'eclettico sodalizio denominato Nuove Tendenze versione moderata del Futurismo.

Di evidente ispirazione cubista sono Autoritratto futurista e Giovinetta (Margherita o la sorella), entrambi del 1913, data del suo ritorno al suo ritorno all'attività artistica dopo la crisi vissuta l'anno precedente.



Il riferimento a Cèzanne torna con insistenza in tempere, gouache e inchiostri ispirati a tematiche familiari, anch'essi di impronta cubofuturista: cucitrici sullo sfondo di moderne visioni urbane, bimbe alla finestra, famiglia a tavola. Da notare le singolari frammentazioni architettoniche del dipinto La finestra, soggetto adottato in ambito europeo da Raoul Dufy, Paul Klee, per affinare la pratica della scomposizione dell'immagine.



 5.Tra Cubismo, Cèzanne e Metafisica (1917-1919)


L'epilogo della Grande Guerra segna in ambito nazionale la fine delle avanguardie e l'avvento del clima successivamente definito del Ritorno all'ordine per indicare il ritorno a una classicità riletta in chiave moderna. Nulla di meglio per Funi, dotato di una sostanza classica innata.


Le vie della ricostruzione passano per il pittore, attraverso la sintesi di antico e moderno: da Cèzanne ad Andrè Derain, dal Cubismo Sintetico a una moderata interpretazione della Metafisica. Fedele alla tradizione Ferrarese associa ai linguaggi recenti l'amore per gli antichi maestri, in particolare Leonardo.


Genealogia o La famiglia del Mart di Rovereto è una straordinaria dimostrazione della sintesi tra i riferimenti al Cubismo, a Cèzanne, alla Metafisica e all'Ultima cena di Leonardo. La commistione tra antico e moderno si trova nelle sanguigne eseguite intorno al 1917 e in Margherita Sarfatti con la figlia Fiammetta, sorprendente esempio di realismo visionario.


6.Verso la moderna classicità (1918-1922)

La ricerca di forma e volume si esprime in epoca postbellica in linguaggi spesso disomogenei. In anticipo di almeno un biennio alle poetiche del "Novecento" è lo statuario Autoritratto in riva al mare (1918), mente Eva 1919, pur ancora riferita alla scomposizione volumetrica cubista, mantiene mantiene un impianto neorinascimentale.


La complessità dell'ispirazione funiana degli anni tra il secondo e il terzo decennio del secondo passa attraverso l'influsso di Andrè Derain in Ragazza dormiente (1920 Mart)


e in Paesaggio ligure) e del manierismo del coevo Tema mitologico, Venere e Satiro, eccezionale sintesi tra la pittura tardo cinquecentesca di Simone Petarzano e la Metafisica dechirichiana.


L'artista conferma il legame con Cèzanne, omaggiato dalla XII Biennale del 1020, nel neoplatonico Coni e sfera. Di ispirazione rinascimentale e leonardesca è invece Il bel cadavere (le villeggianti) proviene dal Museo del Nonvecento di Milano.

























    

domenica 17 settembre 2023

American Beauty, Da Robert Capa a Banksy

 


America Beauty è una rosa solida e duratura, come il paese che rappresenta. Ma se i petali rimangono floridi a lungo, il gambo marcisce rapidamente. Da questa metafora prende il via l'esposizione, America Beauty. Da Robert Capa a Banksy, con l'intento di offrire un ampio ritratto degli Stati Uniti, principale potenza globale al cui interno sopravvivono numerose contraddizioni. Il Centro Culturale Altinate / San Gaetano di Padova, fino al 21 gennaio 2024, accoglie 130 opere d'arte a stelle strisce, selezionate per sviluppare una narrazione che illustri le ambivalenze made in USA. L'orgoglio patriottico e la modernità culturale da un lato, il feroce imperialismo militare e le persistenze dei fenomeni di intolleranza razziale dall'altro.

La mostra è organizzata da ARTIKA di Daniele Buso ed Elena Zanoni in collaborazione con con il Comune di Padova e Assessorato alla Cultura.


La mostra si pone l'obiettivo di raccontare alcune delle vicende chiave della storia statunitense negli ultimi cento anni. Come raccontare questa storia? Attraverso gli occhi attenti di decine di artisti che negli anni Quaranta del Novecento si sono posati su questo grande paese, evidenziandone punti di forza e criticità. L'elemento che accomuna questi artisti è l'utilizzo della bandiera americana come elemento iconografico di partenza per la comunicazione del proprio contenuto ideologico e formale. Da Jasper Johns ad Andy Warhol, da Iwo Jima a Banksy, la bandiera è sempre stato uno strumento attraverso il quale inviare un preciso messaggio: dall'esaltazione della denuncia, trasfigurando in positivo o in negativo il ritratto degli Stati Uniti. La stelle e "strisce" ha un valore totemico, rappresenta l'amalgama dei diversi popoli e religioni, che convivono in America.

La bandiera è il simbolo di questo paese e del suo dominio globale caratterizzato dalla diffusione del capitalismo e dalla supremazia militare e tecnologica. In questa mostra sono rappresentate alcune delle tappe fondamentali si questa nazione, da Iwo Jima a Martin Luther King, fino all'11 settembre, passando per la Pop Art e lo sbarco sulla luna, il Vietnam e la Silicon Valley. La mostra ospita una selezione di 120 artisti internazionali. Sono presenti alcune tra le più importanti correnti della fotografia internazionale: come la
 street phouography (Henri Cartier-Bresson, Vivian Maier) e la fotografia documentaria (rivoluzionata dai ritratti di Diane Arbus). La fotografia a colori è bel rappresentata da alcuni mostri sacri del medium come Steve McCurry, Annie Leibovitz e Vanessa Beecroft. La mostra accoglie alcuni movimenti artistici del Novecento che hanno elevato gli Stati Uniti a prima potenza nelle arti. Il primo movimento autenticamente americano, e destinato a diffondersi capillarmente in tutto il mondo, è stato la Pop Art (qui rappresentata da Rosenquist, Indiana e Warhol). La Pop Art ha rivoluzionato il modo stesso di concepire l'arte: accogliendo iconografie extra artistiche (come il fumetto e i prodotti da supermercato) e determinando perciò una compenetrazione tra cultura alta e cultura bassa. Il secondo movimento, che ha preso tra le strade di New York, è la street art.

Dall'opera pionieristica di Keith Haring, la street art si è imposta in tutto il pianeta, sempre in bilico tra l'essere uno strumento di rivolta antiestablisment o un prodotto commerciale ambito dalle gallerie d'arte. La stree art è attualmente la corrente artistica più diffusa a livello internazionale, erede della Pop Art. Banksy, Mr Brainwash e Obey sono i suoi rappresentanti in mostra. L'artista di Bristol, di cui nessuno conosce la vera identità, ci porta nelle periferie americane tra ribellione giovanile e tentativo di rivalsa sociale. Obey (pseudonimo di Shepard Fairey) si è distinto per la fortunata campagna elettorale di Obama. In mostra è presente con due opere iconiche che raccontano il dibattito interno americano sulla difficile convivenza tra  la leadership bianca e le minoranze etiche e religiose

M.P.F