La parola, il corpo, la comunità. Tre termini che costituiscono l'impianto della edizione di Biennale Donna (fino al 30 giugno), rassegna storica legata a Ferrara che quest'anno celebra quarant'anni di attività con il titolo Yours in Solidarity - Altre storie tra arte e parola, a cura di Sofia Gotti e Caterina Iaquinta, e presenta il lavoro di sei artiste negli spazi di Palazzo Bonacossi: Binda Diaw, Amelia Etlinger, Bracha L, Ettinger, Sara Leghissa, Muna Mussie e Nicoline van Harskamp.
Biennale è un progetto che nasce nel 1984 e incarna quell'arte necessaria, urgente, orizzontale che si fa gesto politico e civile, riflessione collettiva, strumento di formazione critica. Una Biennale dedicata alle artiste, ma che attraverso loro parla anche della parità di genere come diritto universale. Una questione che non riguarda solo le donne, ma che in loro trova figura simbolica. La storia della Biennale, infatti, nasce dalla volontà tenace dell'UDI, Unione Donne in Italia, associazione femminile tra le più importanti in Europa, nata dalla volontà nel 1944, celebrata in mostra con documenti d'archivio, pubblicazioni, stendardi e fotografie. Biennale Donna rappresenta un caso unico in Italia, un progetto che ha continuato il lavoro iniziato da figure come Mirella Bentivoglio, Carla Lonzi e Romana Loda, e da collettivi tra cui Rivolta Femminile, Il Gruppo del Mercoledì, la Cooperativa del Beato Angelico. Se oggi le artiste hanno conquistato una certa cittadinanza e voce nel mondo dell'arte, negli anni Ottanta non era così, e il mondo di arte femminista, dopo la propulsione degli anni Settanta, sembrava aver perso energia e forza. Nel tempo la Biennale ha invitato artiste appartenenti a geografie lontane, ha aiutato nel riscoprire figure meno note ma fondamentali come Ketty La Rocca, ha dedicato omaggi a icone come Carol Rama, Patti Smith e Mona Hatoum.
Anche in questa edizione le artiste sono molto diverse tra loro per generazioni, linguaggi e tecniche ma le lega l'obiettivo di sviluppare forme di solidarietà e di mettersi in gioco sempre in prima persona. La pratica della statunitense Amelia Etlinger (1933-1987) si basava sulla stesura di lettere in busta chiusa indirizzate a figure come Mirella Bentivoglio e Betty Danon. Parole insieme a brandelli di stoffa, materiali organici e naturali residui del quotidiano. Bracha L. Ettinger, artista ma anche teorica femminista psiconalista e filosofa, dipinge su carta e tieni quaderni nati da processi di scrittura/ pittura psico-visiva. Muna Mussie, invece italiana di origine eritrea, indaga quelle parti di memoria collettiva escluse dalla narrazionì ufficiali, collaborando con gruppi di migranti con cui realizza ricami collettivi, mentre l'italo-senegalese Binda Diaw esplora l'influenza sull'individuo di fenomeni come la migrazione, il concetto di appartenenza, la questione di genere. Poi Nicolime van Harkamp, che rilegge attraverso opere video quelle utopie politiche vhe credettero nei legami solidali e nell'autodeterminazione, mescolando voci e immagini tratte da epistolari. E per Sara Leghissa, infine, manifesti che affigge sui muri di città da Roma a Marsiglia, che contengono estratti dei suoi dialoghi con comunità marginalizzati: gli studenti, per esempio. La sua parola si fa voce corale e il suo manifesto all'ingresso della mostra, tratto dal testo sacro del femminismo come è Against ordinary language: the language of the body di Katty Acker, si pone come cruciale <<Is the equation between destuction and gruwth also a formula for art?>>.
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