martedì 31 gennaio 2017

COMUNICATO STAMPA

Comunicato Stampa
Mostra di


Don Franco Patruno
La Libertà di dire
La Verità di fare

Casa di Ludovico Ariosto
Via Ariosto, 67 – Ferrara
Inaugurazione:
sabato 11 febbraio, ore 18

dall’11 febbraio al 12 marzo 2017

sabato 11 marzo alle ore 16
Concerto per Franco
Del duo Claudio Miotto (clarinetto)
E Paolo Rosini (chitarra)

Orari di visita:
10 – 12,30 / 16 – 18 dal martedì a domenica (chiuso lunedì)

“ …  C’è da dire che questa solerzia quieta, questo controllo messo in campo dai collages, come da quelle forme convenute che giocano sulla materia aliena, si presentano anche come consolidate e progettate avversità che è doveroso interpretare in quanto opposte alle numerose, sovrapposte fasi di liberazione e di confessione che hanno luogo nella mano di Patruno e soprattutto grazie alla forza improvvisa del disegno. Un tratto forte e risentito, oppure morbidamente espressivo, per il cui itinerario – in gran parte spezzato – vale la striscia tenera del colore a cera e della matita pesante. Non c’è da temere, nel rapido segno eloquente che spesso sembra lanciarsi come una freccia, in un’arcata di luce o di vento verso il cielo, Patruno esprime ed evidenzia la sua ferma attenzione verso il mondo delle aspirazioni: delle volontà, dei segni che si levano cercando una metafora nella violenta ascesa, dell’impatto quotidiano che egli cerca con la possibilità di essere e di concentrarsi entro una possibile coerenza, a segnare il margine di un itinerario nuovamente fantasioso, talvolta ironico, inatteso.
Ritengo che la figurazione che Patruno, pur con tante diverse forme e fantasmi, finisce per mettere in atto, sia in prevalenza una meditazione sull’uomo.
La misura ne sostiene l’utilità che è morale, oltre che estetica. Tra le due nozioni si traccia sempre un’alleanza, che rifiuta la condizione del puritanesimo.
 Il nostro  critico d’arte, un narratore talvolta torrentizio, sa bene come condursi con l’onore della prevalente ragione esistenziale.

I segni di una meditazione

di Andrea Emiliani  (Franco Patruno Percorsi 2006)

lunedì 30 gennaio 2017

CARTONI

Cartoni. Disegni smisurati del ‘900 italiano


Poter ammirare una simile raccolta di “cartoni” dei grandi maestri del Novecento italiano è occasione davvero rara, se non unica. Per questo la mostra che Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli hanno proposto a Bologna, allo spazio Sympò, nell’ex Chiesa di Santa Maria di Buon Pastore, durante lo svolgimento di Arte Fiera, ma che continuerà nella loro Galleria del Laocoonte a  Roma, si configura come uno degli eventi di punta di questa stagione culturale.

Cartoni. Disegni smisurati del ‘900 italiano” inanella ben 20 cartoni di maestri come Adolfo De Carolis, Mario Sironi, Duilio Cambellotti, Giulio Bargellini, Achille Funi, Gino Severini, Galileo Chini, Publio Morbiducci, Achille Capizzano, Ottone Rosai (catalogo De Luca).

La scelta di questo spazio espositivo bolognese è legato proprio alla dimensione di questa mostra. Il cartone, come è noto, è un disegno grande quanto l’opera o la parte di opera che l’artista intende realizzare. Debba essere questa un quadro, un affresco, una vetrata, un mosaico o un arazzo, il cartone è una realizzazione necessaria affinchè l’opera sia portata a termine dall’artista stesso o dalle maestranze specializzate che devono materialmente compierla. E poiché questi cartoni spesso si riferiscono a realizzazioni di grandi e grandissime dimensioni, richiedono uno spazio espositivo altrettanto ragguardevole.

Ad essere qui svelata è la preziosissima Raccolta – vera e propria collezione da grande museo – che la Galleria Laocoonte di Roma ha riunito, ricercando queste opere o sul mercato dell’arte o dagli eredi degli artisti. Per costruire una sorta di pinacoteca di “disegni smisurati” che evidenzi l’alto livello dell’esercizio del disegnare nella prima metà del secolo scorso.

Si va dal dannunziano Adolfo De Carolis di cui sono esposte il grande foglio preparatorio del dipinto Primavera (1903) ad una monumentale figura di Mario Sironi che pare scolpita nella roccia a colpi di graffite. Del poliedrico Duilio Cambellotti è esposto il cartone per il rosone realizzato in vetri colorati per la Cattedrale di Teramo, oltre a due disegni preparatori per i manifesti del film Fabiola, peplum cristiano che fu uno dei primi kolossal italiani dell’immediato dopoguerra.

Due maestosi cartoni per gli affreschi dello scalone del palazzo dell’INA a Roma – ora proprietà dell’Ambasciata Americana – sono opera del quasi dimenticato Giulio Bargellini (Firenze 1875 – Roma 1936), frescante instancabile di terme, banche e ministeri dove andò traducendo in italiano le archeologie viventi di Alma Tadema e le bellezze femminili che Klimt aveva trasformato in sontuose carte da parati.

 Di questo artista la Galleria del Laocoonte sta preparando una grande mostra e il catalogo ragionato delle opere di Achille Funi (Ferrara 1890 – Appiano Gentile, Como 1972) non è stato solo un formidabile frescante ma un restauratore in chiave moderna dell’arte di Giotto e Piero della Francesca con l’intento di ridar vita nell’Italia contemporanea alla storia antica, al medioevo e al rinascimento, raccontandola ai contemporanei come una favola mitologica.
Naturale che egli qui abbia la parte del leone, con due schiere di soldati romani disegnati per il Martirio di S. Giorgio per la chiesa omonima a Milano in via Torino, le figure di Didone e della sorella Anna per la sala dell’Eneide, affresco effimero eseguito per la Triennale di Monza del 1930, una Zuffa di cavalieri nella “Battaglia” di Legnano per la Sala Consigliare del Municipio di Bergamo ed infine la Vergine Annunciata, cartone colorato a pastello per la pittura della chiesa di San Francesco a Tripoli, in cui ha raffigurato la propria allieva e amante Felicita Fraj.


Di Gino Severini è presente una Madonna con Bambino per la Cattedrale di Losanna.
Di Galileo Chini una delle virtù, che ornavano il Padiglione delle Esposizioni della Biennale di Venezia. Il cartone di carta lucida, perforato per il trasferimento a spolvero, ha assunto con il tempo l’aspetto di un’antica pergamena, mentre la figura, i cui contorni sono definiti dalla polvere di carboncino rimasta nei fori, ha l’aspetto di un’apparizione irreale.

Publio Morbiducci (1889-1963), l’autore del Monumento al Bersagliere a Porta Pia, è
l’autore di una serie di disegni con trionfi di spoglie militari in cui le armi dell’antichità classica sono commiste con quelle moderne dell’ultima guerra.
Erano per grandi pannelli in vetro smerigliato, ma la sconfitta di quelle armi stesse venne prima della realizzazione finale.
Del calabrese Achille Capizzano, autore tra l’altro di alcuni mosaici del Foro Italico, sono presentate due scene della Divina Commedia ispirate ad antiche xilografie.
Infine di Ottone Rosai è un Giovinetto Crocifisso sospeso quasi a grandezza naturale su un vasto foglio, in cui il rovello del disegno per rendere l’anatomia del corpo si traduce in un’apparenza espressionista di grande pathos, in cui l’immagine sacra è anche sacra rappresentazione della propria tormentata omosessualità.

Non deve stupire che nel ‘900 italiano, legato al ritorno delle tecniche di decorazione antiche e tradizionali, sopravvivano questi grandi fogli su cui l’ispirazione dell’artista, già spesa in studi, schizzi, modelli e bozzetti, ha saputo trovare finalmente la vera misura e le linee definitive della forma del proprio lavoro.
Certo tracciare sull’intonaco o la tela il disegno è solo il principio dell’opera quando essa è pittura, mentre il cartone per mosaico o arazzo è spesso già colorato dal pittore e dunque “finito” per ciò che lo riguarda.

In ogni caso dopo il cartone è raro che l’artista abbia pentimenti e che dunque vi siano grandi differenze rispetto al risultato definitivo. Ѐ dunque il cartone l’ultimo luogo delle incertezze, dei ripensamenti, dei cambiamenti improvvisi in corso d’opera. Sono le cancellature, le correzioni, ciò che rendono il cartone una sorta di sindone di carta di tutta la passione e le sofferenze di un artista nel corso della creazione del proprio capolavoro. Ѐ questa qualità del cartone in cui l’opera d’arte e il documento di lavoro si confondono in un intreccio di espressiva operosità.

 Se imperturbabile nella sua durevolezza è il buon fresco, brillante il mosaico, splendente la vetrata, il cartone invece non mostra solo gli accidenti occorsi durante la lavorazione, ma il tempo anche lo rende fragile come un antico documento autografo. Da qui la sua preziosità, la reverenza con cui va trattato e mostrato.


Maria Paola Forlani


domenica 29 gennaio 2017

PALAZZO FULCIS. UN GRANDE PALAZZO PER L'ARTE

Rinasce Palazzo Fulcis.

Il nuovo Museo di Belluno
Magnifica dimora dell’Arte

Tiziano
Ospite d’eccezione con
La “ Madonna Barbarigo dell’Ermitage”


Tremila metri quadrati di spazio espositivo su cinque piani e articolato in 24 stanze; stucchi e affreschi settecenteschi recuperati, un allestimento rispettoso ed emozionante a Belluno torna a splendere Palazzo Fulcis destinato a nuova sede della collezione d’arte del Museo Civico, dopo attento restauro finanziato da Fondazione Cariverona e costato circa 8 milioni di euro e un accurato progetto museografico.


Bartolomeo Montagna, Domenico Tintoretto, Matteo Cesa, Andrea Brustolon, Marco e Sebastiano Ricci, Ippolito Caffi, ma anche preziose collezioni di porcellane, i rari bronzetti e le placchette rinascimentali, la raccolta di disegni e le incisioni di altissimo pregio hanno ora una prestigiosa dimora.

Oltre 600 opere della collezione dei Musei Civici di Belluno – una delle più antiche di tutta la regione – dal Medioevo al Novecento, sono ospitate nelle rinnovate e funzionali sale di Palazzo Fulcis, uno degli edifici più importanti del Settecento veneto. Belluno si arricchisce così di un nuovo spazio museale, già di per sé un’opera d’arte, destinato a diventare il gioiello culturale delle Dolomiti.

Per celebrare l’apertura di Palazzo Fulcis non poteva tuttavia mancare il grande Tiziano, nativo del Cadore, ed ecco allora l’omaggio alla città di un prestigioso museo internazionale. Direttamente dal Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo – per la prima volta in Italia, dopo oltre centocinquanta anni – è giunto a Belluno fino al 1 maggio 2017 la celebre “Madonna Barbarigo”, opera realizzata dal maestro intorno gli anni Cinquanta del XVI secolo. Dopo un lungo ed eccezionale restauro, che ne ha rivelato la sorprendente qualità originale, il magnifico dipinto, amato da Tiziano tanto da conservarlo in casa propria fino alla morte, è ora affiancato in mostra, da due opere dello stesso soggetto provenienti dal Museo di Belle Arti di Budapest e dalla Galleria degli Uffizi di Firenze.


L’apertura del Museo Civico di Belluno nel restaurato Palazzo Fulcis, segna un
momento particolarmente importante per la città dolomitica, che sta ripensando la cultura e l’identità del territorio e la sua offerta alla luce di una serie di interventi strutturali in atto nel cuore di Belluno, non solo il Fulcis ma anche il restauro in corso di Palazzo Bembo, la futura apertura del Museo archeologico, i lavori di ristrutturazione dell’Auditorium Comunale nell’antico Palazzo dei Vescovi-Conti, a creare un triangolo della cultura assolutamente unico.

Il vero obiettivo del progetto museografico di Palazzo Fulcis è stato quello di inserire in modo adeguato le diversificate collezioni civiche in uno spazio architettonico fortemente connotato. I nuovi ampi spazi museali hanno infatti reso possibile innanzitutto l’esposizione di nuclei collezionistici e di opere prima sacrificate o non esposte, a causa degli spazi limitati del Palazzo dei Giuristi, seguendo uno sviluppo, a partire dal primo piano, il più possibile cronologico o per fondi collezionistici, questi ultimi collocati soprattutto nell’ala nord-orientale dell’edificio.

Qui, il visitatore trova la collezione Zambelli con una delle raccolte di porcellane del Settecento più importante del Veneto, la collezione di gioielli Prosdocimi Buzzoli, le matrici xilografiche della tipografia Tissi e, a rotazione, il materiale delle ricche raccolte grafiche del museo, che ora dispone di uno spazio consono per valorizzare sia i notevoli disegni – dall’eccezionale album di Andrea Brustolon ai lavori di Diziani, fino ai fogli di Demin e Paoletti – sia le importanti stampe della collezione, tra le quali ad esempio, il fondo Alpago-Novello (oltre 1400 fogli).

Il percorso del Museo è modulato in base alla natura e alla consistenza, nei diversi periodi, della collezione civica, che sostanzialmente si è formata attraverso donazioni, a partire dalla raccolta di dipinti del medico bellunese Antonio Giampiccoli nel 1872.
Così gli inizi dell’arte bellunese, nel Quattro e Cinquecento, sono testimoniati dall’opera di Simone da Cusighe (compresi due pannelli di un polittico smembrato recentemente acquisiti sul mercato antiquario) e di Matteo Cesa, con l’importante episodio degli affreschi della Caminata, dalle bellissime tavole della fine del Quattrocento (due eccezionali Madonne con il Bambino) di Bartolomeo Montagna
uno degli artisti più importanti per la diffusione nella terraferma veneta del linguaggio rinascimentale di Giovanni Bellini e Antonello da Messina, dai lavori di
Pomponio Amalteo, Domenico Tintoretto, Bernardino Licinio, Francesco Frigimetica o Palma il Giovane, fino alla raccolta di bronzetti e di plachette di Florio Miari che conserva alcuni degli esemplari più importanti della bronzistica italiana.


Tuttavia è l’arte del Seicento e soprattutto del Sette e Ottocento il cuore delle collezioni della città cantata da Buzzati. Nelle stanze al secondo piano dell’edificio
è possibile seguire il racconto di queste stagioni, nel quale non solo sono state messe in evidenza le personalità più importanti ma anche dove sono stati enucleati alcuni temi conduttori nodali per la storia dell’arte a Belluno: il genere del paesaggio, dove Marco Ricci, Antonio Diziani e Giuseppe Zais prima e Ippolito Caffi e Alessandro Seffer poi hanno creato opere di importanza nazionale, il tema dell’intaglio del ligneo e della terracotta preparatoria per tale produzione, che in

Andrea Brustolon – ricordato da Honoré di Balzac nel Il cugino Pons (1847) come il “Michelangelo del legno” – e in Valentino Panciera Besarel vide due esponenti di primo livello; la scultura dell’Ottocento e le tematiche risorgimentali e del ritratto.
Sempre al secondo piano, in una dei corridoi coperti e affacciati sul cortile, per godere al meglio della luce naturale e nel contempo obbligare a quella visione ravvicinata per la quale erano stati pensati, è pure esposta la raccolta di tavolette votive della chiesa di Sant’Andrea, che consente un vero viaggio nel tempo, dal Cinquecento all’Ottocento, nella devozione e nei costumi del popolo Bellunese.


Maria Paola Forlani

sabato 28 gennaio 2017

Lo Scrigno di Teresa di Gian Luigi Zucchini





LO SCRIGNO DI TERESA



Innanzitutto, chi è Teresa?
Teresa è una pacata signora di ottant’anni, nata a Roma, dove tuttora vive, che nella vita ha fatto molte cose, e che da una decina d’anni si è dedicata totalmente alla scrittura. Dapprima attiva nel mondo della pubblicità, è passata poi al giornalismo, organizzando nel contempo concorsi, premi di vario genere, incontri tra scrittori e poeti, cineasti e registi, per approdare infine alla scrittura, dedicandosi anche alla realizzazione dei parchi letterari insieme allo scrittore Stanislao Nievo, pronipote del celebre Ippolito, autore del Castello di Fratta, poi operando in proprio, e scrivendo romanzi e libri di vario genere, tutti incentrati su problematiche femminili. L’esordio è stato il romanzo La treccia del latte, storia di una barbona, che ebbe notevole successo e che, insieme ad altri due pubblicati in seguito, costituisce una trilogia, intitolata significativamente Trilogia della donna qualsiasi del ‘900. Poi ancora altri titoli, tra cui una recente autobiografia (La santità non si eredita, che parla della sua vita e dei genitori, per i quali è in corso il processo di beatificazione ), ed ora, al compimento dell’ottantesimo anno, un libretto ‘un po’ ironico e un po’ serio’ sulla vecchiaia, detta anche per pudore ‘terza età’ o, con più cromatica delicatezza, ‘anni d’argento’. E così, con sottile discrezione, ha ideato una specie di cordiale vocabolario, che ha intitolato “Il Galateo degli anni d’argento” : Brevi frasi, poche parole a sintetizzare un pensiero, una semplice riflessione, un concetto, il tutto secondo un ordine alfabetico in cui sono elencate le parole che si usano sia per definire pregi e difetti della vecchiaia, sia per richiamare alcuni momenti della vita: quindi, un accostamento soft e molto discreto al più vasto e coinvolgente problema dell’esistenza. Questi modesti e sussurrati consigli contengono tuttavia, nel loro insieme, un significato profondo, scandito goccia a goccia da parole consuete, che tuttavia racchiudono, se ben meditate, saggezza ed esperienza, l’una correlata all’altra, e necessarie entrambe per formulare idee, sostegno poi ad atteggiamenti di pensiero che aiutano a considerare la vita nella sua attualità, nel suo triste o lieto passato e nello sconosciuto futuro.
Filosofia tascabile, potrebbe essere definito il volumetto, elegante anche nel formato e nell’edizione, un vademecum per riflessioni quotidiane, che si apre con la lettera A e si chiude ovviamente con la Z; o, ancora, uno scrigno che contiene il tesoretto di Teresa, gioielli d’anima che la scrittrice vuole offrire agli amici e a tutti quelli che, avviandosi per l’ultimo sentiero della vita, ne possano apprezzare, per quanto possibile, la preziosa fattura.
Teniamo a mente, a chiusura, due brevi spunti di pensiero: bambino: quello che è dentro di noi non facciamolo invecchiare con noi; e vita: ringraziarla non è mai eccessivo.
C’è il lento distacco dalle cose, ma anche la blanda luce della poesia, quasi un essenziale cristianesimo per vivere con accettazione anche il crepuscolo della nostra esistenza umana.

Teresa Amendolagine, Il Galateo degli anni d’argento – per non invecchiare e rimanere preziosi, Gangemi editore, Roma, 2016, pp. 80, € 14.


                                                                                             Gian Luigi Zucchini

lunedì 23 gennaio 2017

FRANCO CARDINI RICORDA DON FRANCO PATRUNO


Franco Cardini ricorda don Franco Patruno
(dal volume “Sugerio e San Bernardo…) di don Franco Patruno
 (gennaio 2010)


Non sapevo tutte queste cose, o non ne sapevo abbastanza, o le sapevo male, quando una trentina d’anni fa e forse qualcosa di più, nella “mia” Ferrara – che amavo da quando l’avevo scoperta adolescente visitando il Castello e Schifanoia; da quando l’avevo visitata studente universitario amando e leggendo i versi dell’Ariosto e del Tasso e le storie di Bacchelli e di Bassani: e infine da quando, nel ’67, vi avevo risieduto lunghi mesi espletando il mio servizio militare come sottotenente d’aeronautica – conobbi don Franco e da allora spesso tornai a visitarlo in Casa Cini o indugiai a suo fianco, per le belle strade volute da Ercole d’Este e qualche volta in auto con amici, per la campagna circostante, magari in cerca di qualche salama da sugo da gustare insieme. Dovrei e vorrei ricordare insieme con Franco, accanto a Franco, tanti amici ferraresi che hanno condiviso quei momenti che ormai cominciano ad avvicinarsi nel tempo ma che restano vivi e presenti nella memoria. Si discuteva di tutto: di storia e di cinema, di arte e di letteratura, di Girolamo Savonarola e di Italo Balbo, magari incontrando talvolta personaggi come Vittorio Sgarbi o Roberto Pazzi e talvolta i tanti amici valorosissimi dell'Università ferrarese alla quale, senza avervi mai insegnato, sono peraltro legatissimo da anni di ricerche comuni e di una serrata attività congressuale. Dovrei elencare molti nomi, alcuni dei quali anche illustri: e certamente ne dimenticherei qualcuno. Preferisco quindi accumunarli tutti in un grazie profondo e sincero: sono tutti parte di quella che davvero è stata, per me e per molti anni, una bella stagione.
Ma stati di grazie del genere sono molto rari: e, quando si presentano, ciò accade perché v’è sempre un fulcro, un centro propulsore e animatore, una presenza che qualifica e che fornisce un senso preciso a esperienze che, altrimenti, resterebbero volatili e disorganiche.
Don Franco credeva nell’arte e nella cultura: credeva nella possibilità di coltivarle, d’incentivarle, di farle amare. Ma soprattutto credeva nella libertà. Una libertà sinceramente e rigorosamente vissuta, nel nome della quale nulla e nessuno doveva mai, secondo lui, venir disprezzato o messo in disparte. Don Franco era coltissimo e sapeva di esserlo, ma proprio per questo non si comportava mai come chi ritiene di aver la verità in tasca o chi vuol far trionfare a tutti i costi il suo punto di vista.
Ѐ per tale motivo che questo prete sempre allegro e sorridente anche nella lunga e pesante malattia, questo critico d’arte che non riteneva alcuna forma d’arte estranea, aliena o indegna d’attenzione, quest’uomo che credeva sempre anzitutto l’umanità in chiunque lo avvicinasse o fosse da lui avvicinato senza badar al sesso,
all’età, alla confessione religiosa, alle convenzioni politiche, finiva col far paura e col suscitare anche inimicizie. Era opinion maker ascoltato e rispettato, scriveva articoli e saggi su organi di stampa prestigiosi: eppure dava sempre l’impressione di restar un marginale non sempre valorizzato e – soprattutto – tollerato a fatica.
Era un uomo pericoloso, uno che faceva paura.
Sì, perché ogni uomo ha un prezzo: e quello di don Franco era vertiginoso. C’è chi si vende per denaro, chi per vanità, chi per amore d’un uomo o d’una donna, chi per vendicarsi di qualcosa. Don Franco Patruno era un venduto alla Verità e alla Libertà: e non esiste prezzo che avrebbe potuto mai riscattarlo dal servizio di quelle due potentissime ed esigentissime signore.
Ѐ difficile rimpiangerlo, perché è quasi impossibile non sentirlo ancora fra noi.
Ma ora che fisicamente non c’è più la sua e “mia” città, d’inverno, mi sembra più nebbiosa, il suo sole d’estate più rovente, le sue zanzare notturne più crudeli, la salama meno saporita, il panpepato meno dolce, gli affreschi astrologici di Schifanoia meno luminosi. Don Franco è stato un’epoca della città di Ferrara e della chiesa di Ferrara. Non sempre, lui vivente, esse hanno dato prova di esser consce del tesoro che egli rappresentava per loro. Ora ch’è sopravvenuto il tempo del ricordo, auguriamoci ch’esso non venga meno.











sabato 21 gennaio 2017

SEGNI PRIMA DELL' ALFABETO

Segni
Prima dell’alfabeto

Viaggio in Mesopotamia
Alle origini della scrittura


      Scripta manent ammonivano gli antichi romani a conferma dell’autorevolezza e del valore nel tempo di un testo scritto,  Maktub “ è scritto”, dicono gli arabi.
La nascita della scrittura, avvenuta quasi contemporaneamente in Egitto e in Mesopotamia verso il 3200 a.C., segna uno dei capitoli più affascinanti e rivoluzionari della storia della civiltà, fondamentale per le dinamiche di trasmissione del sapere e per la conoscenza dell’antichità.

A Palazzo Loredan, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, si è aperta la mostra
‘Prima dell’alfabeto. Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura’ aperta fino il 25 aprile (catalogo Giunti). L’evento è promosso dalla Fondazione Giancarlo Ligabue presieduta da Inti Ligabue, curata dal professore Federick Mario Fales (Università degli Studi di Udine, uno tra i più noti assirologi e studiosi del Vicino Oriente Antico. La mostra conduce il visitatore quasi 6000 anni or sono, nella Terra dei Due Fiumi, in un universo di segni, simboli, incisioni ma anche di immagini e racconti visivi che testimoniano la nascita e la diffusione travolgente della scrittura cuneiforme, rivelando nel contempo l’ambiente sociale, economico e religioso dell’Antica Mesopotamia. Bisogna ricordare che il cuneiforme è durato 3500 anni, mentre i segni alfabetici che noi usiamo, in fondo, ne hanno solo 2500.

Culla di civiltà straordinaria, oggi martoriata e saccheggiata dalla guerra e dal terrorismo che hanno reso inaccessibile il suo patrimonio di bellezza e conoscenza, la terra di Sumeri, Accadi, Assiri e Babilonesi viene raccontata e svelata grazie all’esposizione, per la prima volta al pubblico, di quasi 200 preziose opere della Collezione Ligabue. Si tratta soprattutto di tavolette cuneiformi e di numerosi sigilli cilindrici e a stampo ma anche sculture, plachette, armi, bassorilievi, vasi e intarsi provenienti da quell’antico mondo.

A questi oggetti si affiancano importanti prestiti del Museo Archeologico di Venezia e del Museo di Antichità di Torino: dal primo, bellissimi frammenti di bassorilievi rinvenuti dallo scopritore dell’antica Ninive, Austen Henry Layard, che nell’ultimo periodo della sua vita si era ritirato proprio a Venezia, a Palazzo Cappello Layard (donò i suoi oggetti alla città nel 1875); dal secondo un frammento di bassorilievo assiro fortemente iconico raffigurante il re Sargon II, scoperto nel 1842 da Paul Emile Botta – console di Francia a Mosul – e da lui donato al re Carlo Alberto.

Dai primi pittogrammi del cosiddetto proto-cuiniforme, rinvenuti a Uruk – annotazioni a sostegno di un sistema amministrativo e contabile già strutturato – all’introduzione della fonetizzazione (dai “segni-parola” ai “segni-sillaba”) la scrittura cuneiforme, con le sue evoluzioni, si sviluppò e si diffuse con estrema rapidità anche in aree lontane: dalla città Mari sul medio Eufrate e Elba nella Siria occidentale, a Tell Beydar e Tell Brak nella steppa siro-mesopotamica settentrionale.
Abili scribi verranno formati per redigere documenti grazie a segni ormai classificati e vere e proprie scuole saranno istituite nei diversi centri, per insegnare a nuovi funzionari a leggere e scrivere.

Centinaia di migliaia di tavolette di argilla – La materia prima della terra mesopotamica – hanno dato vita ad autentici archivi e biblioteche, in un mondo che aveva compreso il valore e il potere della scrittura: tavolette con funzioni contabili-amministrative, tavolette giuridiche, storiografiche, religiose e celebrative, o addirittura letterarie, racchiudono le storie, i lavori, i pensieri e i ritratti di uomini e re vissuti tremila anni prima di Cristo: miti e leggende di dei ed eroi.

Fino ad allora – fino alle decifrazioni di Grotefend (1775 – 1853) e all’impresa di Rawlinson (1810 – 1895), che sospeso a 70 metri dal suolo copiò l’iscrizione trilingue di Dario I sulla parete rocciosa di Bisuntun – furono soprattutto la Bibbia, debitrice di tanti racconti e suggestioni dell’antica Mesopotamia, e gli storici greci, Latini e bizantini a trasformare in una luce più o meno leggendaria i nomi di luoghi come “Il Giardino dell’Eden” o le maestose città di Ninive e Babilonia  e quelli di personaggi come Nabucodonosor II, che distrusse Gerusalemme, o la regina di Semiramide.

In mostra le preziose tavolette raccontano di commerci di legname o di animali (pecore, capre, montoni o buoi), di coltivazioni di datteri e di orzo per la birra, di traffici carovanieri tra Assur e l’Anatolia, di acquisti di terreni e di case con relativi contratti e le cause giuridiche; celebrano Gudea signore possente, principe di Lagash, promotore di grandi imprese urbanistiche e architettoniche; prescrivono cure per una partoriente afflitta da colite, con incluso l’incantesimo da recitare al momento del parto, o testimoniano l’adozione di un bimbo ittita da parte di una coppia o, ancora, le missive tra prefetti di diverse città – stato.


Accanto alle tavolette, placchette e intarsi, in osso, in conchiglia, in osso o in avorio, bassorilievi e piccole figure, raffinati oggetti artistici e d’uso comune, ma soprattutto – straordinari per le figurazioni e le narrazioni, per il pregio artistico delle incisioni realizzate da abili sfragisti (bur-gul) e i diversi materiali usati – tanti, importanti sigilli creati per registrare diritti di proprietà e apposti fin dal periodo Neolitico sulle cerule – sorta di ceramica a garanzia della chiusura di merci e stoccaggi – i sigilli, con l’avvento della scrittura, vengono apposti sulle tavolette o sulle buste di argilla (utilizzata fino al millennio) per autenticare il documento, garantendo la proprietà di un individuo, il suo coinvolgimento in una transazione, la legalità della stessa.


Ma il valore intrinseco dei sigilli cilindrici, già sostitutivi di quelli a stampo intorno alla metà del IV millennio, è dato dal fatto che essi erano generalmente realizzati in pietre semipreziose provenienti da luoghi molto lontani.
Nei sigilli cilindrici, in pochi centimetri, accanto alle iscrizioni venivano realizzati motivi iconografici sempre più raffinati, differenziati per periodi e aree geografiche.
Esposti negli ambienti particolarmente suggestivi dell’antica biblioteca dell’Istituto Veneto di Scienze lettere ed Arti – perfetto scenario di questa mostra – si trovano nella Collezione Ligabue, sigilli di inestimabile valore storico e artistico, raffiguranti uomini, eroi e animali, ma anche divinità come il dio solare Samash, quello della tempesta Adad, il dio delle acque dolci Ea, oppure Entil, che assegnava la regalità, massima autorità del pantheon mesopotamico, definito dio del cielo e degli inferi e soppiantato con l’affermarsi della dinastia babilonese da Marduk, ma anche la complessa Ianna (in sumerico) Isthar (in semitico), “costantemente a cavallo della barriera tra donna e uomo, adulto e bambino, tra bene e male, tra vergine e prostituta”: dea della fertilità dell’amore e della guerra ad un tempo.



Maria Paola Forlani