mercoledì 7 aprile 2021

Lavinia Fontana

 Lavinia Fontana nasce a Bologna nel 1552. Apprende i primi rudimenti dell'arte nella bottega del padre, Prospero Fontana, pittore di successo che aveva lavorato anche a Roma e a Firenze. Fin dall'infanzia Lavinia può ammirare dal vero i capolavori di Raffaello e Parmigianino, ha accesso a importanti collezioni e conosce personalmente i protagonisti della scena artistica del tempo.


Seppure la produzione di Lavinia spazi tra i più vari soggetti artistici - tra i quali anche quello religioso, che le donne assai raramente avevano l''onore di poter dipingere - il genere che l'ha resa celebre è quello del ritratto femminile.


Lavinia è abile nel ritrarre le gentildonne del tempo in modo aggraziato e lusinghiero per il soggetto. Ama rappresentare i propri modelli in pose naturali, raffigurandoli mentre fanno qualcosa: mentre leggono un libro, per esempio, o mentre accarezzano un cane, un clchè, quest'ultimo, assai fortunato che la pittrice eseguirà in più versioni, con grande successo.

Si osservi, per esempio, il Ritratto di dama con cagnolino, conservato alla Walters Art Gallery di Baltimora o quello, dello stesso titolo, del National Museum of Women in the Art di Washington. Lavinia imposta questo tipo di ritratti su un preciso modello di composizione: il busto girato di tre quarti, la mano destra allungata verso il cagnolino, quella sinistra che tiene un oggetto (una stola o un fazzoletto, a seconda delle occasioni). L'espressione delle dame è pensierosa e assorta, lo sguardo quasi assente, perso in chissà quali pensieri. Gli abiti sono ricchi, descritti con attenzione.

La pittrice ama soffermarsi sulle stoffe, i pizzi, i gioielli, le acconciature...creando immagini di sicuro effetto che riscuotono ampio successo, diffondendo il nome di Lavinia ben al di là dei confini della propria città natale. Lavinia riceve molte proposte di matrimonio ma decide di accettare quella di Gian Paolo Zappi, un alunno del padre che non esita a trascurare la propria carriera per gestire gli affari e seguire le committenze della moglie. Nel contratto di matrimonio d'altronde, il padre aveva posto come condizione che Lavinia potesse continuare a dipingere anche dopo le nozze.

La coppia, secondo il costume del tempo, continua a vivere presso la casa della famiglia della sposa e a lavorare nella bottega di Prospero. Alla morte del padre Lavinia, ormai celebre in tutta Italia, decide di trasferirsi a Roma portando con sè tutta la famiglia - composta da undici figli, solo tre dei quali sopravviveranno. Nella città capitolina, Lavinia diventa pittrice di corte del papa e ha l'onore di essere membro dell'Accademia. Tale è la fama che nel 1611 viene coniata in suo onore una medaglia che rappresenta, su una faccia, l'artista al lavoro e sull'altra il suo profilo. I suoi committenti sono aristocratici, rappresentati dell'alto clero, professori. Abilissimi nel curare i rapporti sociali, Lavinia e il marito gestiscono la bottega come una proficua azienda famigliare, badando a muovere le pedine giuste, stringendo rapporti d'amicizia con le persone che contano, frequentando l'alta società. Protetta prima dal padre e in seguito dal marito,

Lavinia propone di sè un'immagine degna della gentildonna ideale decantata da Castiglione: colta, attenta a ostentare una falsa modestia "timorata di Dio e onestissima vita" e "di belli costumi" come la descrive il suocero, Severo Zuppi, in una lettera del 1577. Con rare eccezioni, Lavinia è lodata e incensata: Lucio Faberio, nella sua Orazione funebre per Agostino Carracci, trova una legittimazione del suo ruolo di pittrice donna nel paragonarla alle grandi artiste dell'antichità: Malvasia racconta come venisse accolta ovunque come una principessa; persino l'ambasciatore del re di Persia, invaghitosi della pittrice, la blandisce con un lusingante madrigale a lei dedicato. Lavinia morirà nel 1614, a Roma..

martedì 6 aprile 2021

Pittrici bolognesi


 Nell'età rinascimentale Bologna detiene un interessante primato, quello di aver dato i natali a un gran numero di donne artiste di una certa fama: tra il XVI e il XVII secolo i registri della città ne annoverano più di una ventina. L'importanza in città dell'istituzione università, con libero accesso per le donne, è certo uno dei fattori che hanno dato origine a questo fenomeno. Si conoscono nomi "dottoresse" in giurisprudenza, filosofia e medicina: si tratta di figure spesso avvolte di un'aura leggendaria, come quella di Novella d'Andrea, costretta a insegnare coperta da un velo per non distrarre gli studenti con la sua conturbante bellezza. A influenzare il corso dell'arte al femminile in città è una monaca, Caterina de' Vigri, che verrà canonizzata soltanto nel 1712 ma già i suoi contemporanei la considerano degna di santità.

Caterina non è l''unica donna bolognese a essere resa oggetto di culto mentre è ancora in vita: ricordiamo , per esempio, anche Elena Duglioli Dall'Olio, nota per aver commissionato a Raffaello l'Estasi di Santa Cecilia (Pala oggi conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna), dedicata alla santa con la quale la gentildonna amava identificarsi. Caterina de' Vigri riceve la sua educazione presso la corte di Ferrara, nota per essere uno dei centri di diffusione del pensiero umanista. La creazione artistica è vissuta da Caterina de'Vigri come un fatto spirituale, un mezzo per comunicare con Dio, ma ciò non le impedisce di essere eletta a simbolo delle donne impegnate in arte.

Nativa di Bologna è anche Properzia de' Rossi, scultrice di grande successo, che avrà l'onore di poter lavorare nel cantiere del Duomo di San Petronio ma che sarà ricordata soprattutto per la sua abilità nell'intagliare scene complesse su noccioli di ciliegia. Se Vasari cerca di presentarla come giovane virtuosa non solamente nelle cose di casa, come l'altre, ma infinite scienze", documenti dell'epoca ce ne mostrano un aspetto più irrequieto e assai meno edificante. Nel corso della sua vita subì anche due processi: uno insieme ad Antonio Galeazzo Malvasia, secondo alcuni il suo amante, per aver danneggiato i terreni di un tale Francesco da Milano, un altro per aver aggredito il pittore Vincenzo Miola. Secondo Vasari le voci su di lei nascevano spesso dall'invidia: pare che Amico Aspertini

si prodigasse per screditarla, geloso del suo talento nell'arte della scultura.


A metter fine a questa vita inquieta sopraggiunse la peste del 1530, ma nella letteratura ottocentesca si diffonde l'immagine di una Properzia eroina romantica che si uccide per amore di un ufficiale di Carlo V, promesso sposo a un'altra donna. Bologna da' i natali anche a un'altra artista Lavinia Fontana. Suo padre, il pittore Prospero Fontana, difenderà sempre l'operato della figlia. Abile nel nascondersi dietro  a un'apparente umiltà e nell'ostentare modestia. Lavinia è in realtà assai orgogliosa del proprio ruolo di artista e dei successi ottenuti.

Sua coetanea è Barbara Longhi, anch'essa figlia d'arte. Non di Bologna, ma della vicina Ravenna, Barbara è lodata dai contemporanei: "Né tacerò", scrive Vasari, "che una sua figliuola ancor fanciulletta, chiamata Barbara, disegna molto bene, ed ha cominciato a colorire alcuna cosa con assai buona grazia e maniera". Molto interessanti sono i due presunti autoritratti nella veste di Santa Caterina d'Alessandria, nei quali Barbara si identifica con la figura della santa, aristocratica e colta per eccellenza, proponendosi come nuovo modello di donna educata secondo i dettami di Baldassare Castiglione. La Felsina Pittrice, opera del Malvasia, biografo bolognese, si chiude con il ricordo di Elisabetta Sirani, pittrice nata nel 1638 e scomparsa in giovane età, che il letterato aveva eletto a propria protetta. Malvasia celebra questa talentuosa pittrice, molto apprezzata anche dalla committenza del tempo, con tono solenne e lirico per investire la giovane artista, morta con sospetto di avvelenamento (probabilmente si sia trattato di ulcera) di un'importanza particolare.

Non è credibile che la Sirani, come si tramanda, abbia dipinto più di duecento opere in ventisei anni di vita, ma è vero che anticipando notevolmente i tempi e dando prova di una certa indipendenza, la pittrice aprì uno studio personale e una scuola bolognese, Elisabetta Sirani propone uno stile personale, molto morbido e grazioso, di sicuro successo.

M.P.F.

giovedì 1 aprile 2021

I Macchiaioli a Forte di Bard

 

I Macchiaioli.  Una rivoluzione en plein air


Se le piste di sci restano chiuse, l’arte è pronta a ripartire in alta quota. E quest’anno tocca alla suggestiva pittura dei Macchiaioli aprire la stagione espositiva del Fort di Bard, monumentale fortezza ottocentesca incastonata tra le montagne della Valle d’Aosta. Fino al 6 giugno ottanta dipinti raccontano l’avventura dei pittori toscani che, in anticipo sugli impressionisti, rovesciarono i clichè dell’accademia per catturare dal vero le immagini del mondo sperimentando con la luce e i colori. Dalle cannoniere del Forte lo sguardo scorre fino al centro di Firenze, al Caffè Michelangelo, dove a metà del XIX secolo i giovani artisti ribelli stabilirono il loro quartier generale.

Curato da Simona Bartolena e realizzato da VID – Visit Different, l’itinerario della mostra ricostruisce l’epopea dei Macchiaioli a partire dalle origini, con le opere del precursore del movimento Serafino Tivoli, per poi esplorarne evoluzioni e sfumature: il purismo di un Silvestro Lega colto nella fase giovanile; le espressioni mature di Telemaco Signorini, Vincenzo Casabianca, Raffaello Sernesi, Odoardo Borrani, Cristiano Banti, ormai distanti dalla tradizionale pittura di paesaggio italiana, ma anche dall’influenza della scuola francese di Barbizon; i dipinti storici di Giovanni Fattori, che strizzano l’occhio alle atmosfere del Forte con scene tratte dalla vita militare. Avanzando lungo il percorso, lo stile aspro degli esordi, quando il termine dispregiativo “macchia” diede al movimento, si stempera in una atmosfera più distesa, aperta a quella pacata tendenza verso il naturalismo che andava diffondendosi in Europa. Infine una sezione dedicata alle eredità dei Macchiaioli evidenzia come il gruppo toscano abbia gettato le basi per la pittura moderna in Italia.


La mostra instaura un interessante gioco di rimandi con la storia e il paesaggio del Forte di Bard. Se la natura è di casa fuori e dentro la cornice, fermenti e memorie del Risorgimento riecheggiano tra le mura possenti della fortezza così come nelle biografie degli artisti. “Questa mostra offre molti spunti per rileggere la storia risorgimentale e quegli anni complessi”, spiega la direttrice del Forte, Maria Cristina Ronc: “anni rivoluzionari, costellati di nomi e personaggi da riscoprire e da rileggere nella prospettiva del tempo che è intercorso. Il Forte di Bard non è solo un luogo espositivo, ma prima ancora è un edificio storico e come tale, in questa occasione più che in altre, amplia e dialoga con l’esposizione dei Macchiaioli e con le vite e le opere di questi pittori soldati.

Tra questi, Nino Costa, arruolato nel reggimento dei Cavalleggeri d’Aosta a Pinerolo, che dopo varie peregrinazioni si sposta a Firenze e frequenta il Caffè Michelangelo, Lì conosce Giovanni Fattori, certamente il nome più noto tra i Macchiaioli, e che lo stesso Costa rammenterà come colui che “gli aprì la mente e lo incoraggiò”.



 

M.P.F.

martedì 30 marzo 2021

Lisetta Carmi

 Lisetta Carmi


Lisetta Carmi nasce a Genova da una famiglia borghese di origini ebraica.

Nel 1934 inizia a studiare pianoforte, frequenta la terza ginnasio ma viene espulsa dalla scuola perché ebrea. Così si dedica totalmente alla musica, in quanto ritrova lo strumento come “il suo unico compagno”. Nonostante le leggi razziali, riesce a seguire lezioni e a sostenere esami di livello presso il Conservatorio di Genova.

Con l’inizio della seconda guerra mondiale, la sua famiglia è costretta a spostarsi in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni razziali. Lì Lisetta Carmi continua lo studio presso il conservatorio di Zurigo.

Finita la guerra, torna a Genova per riprendere a suonare con il maestro, Alfredo They, e nel 1946 si laurea in pianoforte presso il conservatorio di Milano.


Inizia presto a fare concerti in giro per il mondo e riceve apprezzamenti in recensioni su giornali quali il Nürnberger Zeitung e il Main Echo. Procede con l’attività di concertista in Svizzera, in Italia e infine in Israele, proponendo un repertorio classico, comprendente musica di artisti come Beethoven, Scarlatti, a cui accosta brani di musicisti italiani del Novecento quali Luigi Dallapiccola, Luigi Cortese e Tito Aprea.


Nel 1960, grazie all’amicizia con Leo Levi, torna in Israele per intraprendere, in varie città, una lunga turnée che si conclude con un’esibizione nel Kibbuz a Nethanya.

Si esibisce con il maestro They riproducendo la Suggestione diabolica, opera 4 e la toccata, Opera 11 di Prokofiev presso il Centro siderurgico Oscar Sinigaglia dell’Italsider di Conegliano e nelle Ferriere della Fiat a Torino, per il documentario L’uomo, il fuoco, il ferro di una collaborazione fra Kurt Blum e il fratello della donna, Eugenio Carmi.


Il 30 giugno del 1960 vuole prendere parte allo sciopero di protesta indetto dalla Camera del Lavoro di Genova. Il suo maestro è fortemente in disaccordo, perché spaventato dalla possibilità che una lesione impedisca alla donna di continuare a suonare.

<<Ricordo benissimo di avergli risposto che se le mie mani erano più importanti del resto dell’umanità avrei smesso di suonare il pianoforte>>

(Giovanna Calvezzi, Le cinque vite di Lisetta Carmi, Bruno Mondadori, 2013, p.24)

In quel momento, Lisetta Carmi sceglie di smettere di suonare rifacendosi ai suoi ideali a al bisogno di libertà che la musica e l’attività di concertista non le danno.

Inizia così la sua carriera da fotografa che porterà avanti solo fino al 1984, producendo però un vastissimo archivio.


Durante il suo secondo percorso lavorativo intraprende diversi viaggi verso l’Oriente i quali culminano nell’incontro con il maestro Babaji, avvenuto il 12 marzo 1976, data che segna la seconda svolta della sua vita. Nel 1979 fonda Cisternino, in Puglia, l’ashram Bhole Baba, e da quel momento in poi dedica alla diffusione degli insegnamenti del maestro.

In seguito i suoi interessi si sono orientati verso lo studio e la riproduzione di calligrafia cinese.

Le sue fotografie, però, sono rimaste oggetto di grande attenzione sia in Italia che all’estero.

Carriera da fotografa

Lisetta Carmi si avvicina alla fotografia nel 1960 grazie all’amico musicologo Leo Levi, che la invita a partire con lui per la Puglia, dove lo studioso avrebbe registrato i canti della comunità ebraica di San Nicandro Garganico. Per l’occasione la donna acquista la sua prima macchina fotografica, un’Afga Silette con nove rullini, e ritrae in foto esperienze di quel viaggio.


Al suo ritorno a Genova, sviluppa le fotografie e riceve molti apprezzamenti. Rendendosi conto della qualità del lavoro prodotto, decide subito di intraprendere la carriera di fotografa. Così grazie a suo fratello Eugenio, si reca a Berna dove Kurt Blum le insegna a stampare, sviluppare le fotografie e le dà alcuni consigli. Infatti la invita a “guardare sempre cosa c’è dietro” quello che intende immortalare, tecnica che la donna sfrutterà per tutto il suo percorso da fotografa. L’artista impiegherà dunque la fotografia come “strumento per la ricerca della verità.


Nel 1962 il fratello Eugenio le presenta il direttore del Teatro Duse, Ivo Chiesa, che decide di assumerla in qualità di fotografa i scena. Fino al 1965 Lisetta continua a lavorare a teatro entrando così in contatto con vari artisti quali Luigi Squarzina, Giuliano Scabia, Emanuele Luzzati, Carlo Quartucci e Aldo Trionfo. Nello stesso anno realizza un reportage in Sardegna.


Contemporaneamente crea un’opera grafica dedicata al Quaderno Musicale di Annalibera di Luigi Dallapiccola stampato e rilegato da maquette. In questo progetto accosta il lavoro musicale del compositore a un corrispettivo “segno fotografico” per ognuno degli 11 brani presenti nel quaderno: procede infatti stampando un negativo, esponendolo alla luce per farlo diventare scuro e quindi graffiandolo. Infine verrà pubblicato dalla casa editrice Sedizioni solo nel 2005.

Inoltre viene assunta dal Comune di Genova per alcuni servizi fotografici in vari luoghi della città quali l’anagrafe, gli ospedali Gaslini e Galliera, il centro storico e le fogne cittadine.

Nel 1963 inizia a frequentare la Galleria del Deposito, fondata dal Gruppo Cooperativo di Boccadasse, dove entra in contatto con le avanguardie artistiche del tempo.


Nel 1964 l’amica Enrica Basevi, allora dirigente della Società Cultura di Genova, le propone di aderire al progetto Genova porto: monopoli e potere operaio riportando un servizio fotografico che testimonia le condizioni di lavoro dei camalli. Le fotografie vengono diffuse attraverso una serie di mostre. Prima fra tutte quella alla Casa della Cultura di Genova-Calata del Porto organizzata dalla FILP-CGIL, che vede partecipare anche Giuliano Scabia, che redige le didascalie per le foto; e Aristo Ciruzzi, che collabora con l’allestimento. Molto apprezzata, la mostra viene esposta anche in altre città quali Torino, dove le fotografie vengono presentate presso il Circolo Gobetti di Noberto Bobbio, per finire in Unione Sovietica.


La fotografa collabora con alcune riviste italiane tra cui Il Mondo, Vie Nuove e L’Espresso.

Nel gennaio del 1965 si reca a Piadera, dove fa un reportage sui i luoghi e i personaggi, fra cui il mastro Mario Lodi e il Duo di Piadena, protagonisti di quel “laboratorio culturale”. Le fotografie verranno esposte nel 2018 con la mostra Un paese 50 anni dopo. Lisetta Carni a Piadena: fotografie 1965, a cura di G. B. Martini.

Dal 5 al 19 dicembre dello stesso anno si reca a Parigi, dove effettua un reportage sulla metropolitana. Torna a Genova e crea un volume Métropolitain, libro d’artista composto dalle sue fotografie e alcuni testi di Instantanés di Alain Robbe-Grillet, che l’anno successivo vince il secondo posto al Premio per la cultura della Fotografia di Fermo.



Il 31 dicembre, grazie all’amico Gasparini, Lisetta incontra la comunità di travestiti che occupava l’ex ghetto ebraico di Genova. Da qui nasce un vero e proprio legame alimentato attivamente per sei anni, in cui la donna fotografa la realtà di quella comunità. Le foto dei travestiti, inizialmente presentate solo in bianco e nero e in seguito ristampate a colori, oltre a essere del tutto insolite e percepite come scandalose dal sentimento comune dell’epoca, vanno nuovamente a mettere in luce il sentimento di vicinanza di Lisetta Carmi verso figure emarginate dalla società, riscontrabile nella maggior parte dei suoi reportage. Le fotografie accompagnate dai testi delle interviste dello psichiatra Elvio Fachinelli, verranno raccolte in un libro I travestiti pubblicato nel 1972 da Sergio Donnabella, che fonda appositamente la casa editrice Essedi. Inizialmente il volume viene rifiutato dai canali di vendita ufficiali per contenuti ritenuti scandalosi, ma nel corso del tempo acquisisce sempre più successo. L’11 febbraio del 1966 Lisetta va, assieme al direttore dell’ANSA di Genova, a Sant’Ambrogio di Zoagli a fotografare Ezra Pound, allora nella sua residenza ligure.

Nonostante il loro incontro sia brevissimo e privo di comunicazione, la donna riesce a scattare una serie di venti fotografie. Dopo averle sviluppate, selezione le dodici più significative e partecipa all’edizione italiana del Premio Niépece e lo vince. Il servizio su Ezra Pound nel 1967 viene pubblicato sulla rivista Marcatré e nel 2005 raccontato nel libro L’ombra del poeta. Incontro con Ezra Pound..

Successivamente si reca nei Paesi Bassi dove fotografa i protagonisti del movimento di protesta dei Provos.

Tornata a Genova effettua un reportage sulle tombe del cimitero monumentale di Staglieno intitolato Erotismo e autoritratto a Staglieno, che nonostante non sia immediatamente compreso e pubblicato, contribuisce a far conoscere la donna a livello internazionale.

A novembre del 1966 si reca a Firenze dopo l’alluvione che devastò la città, dove realizza vari still-life che fungono da testimonianza sul disastro accaduto.

Dal 10 al 12 giugno del 1967 durante il Convegno di Ivrea ha l’opportunità di eseguire diversi ritratti ai partecipanti, fra cui si ricordano Carmelo Bene, Sylvano Bussotti, Edoardo Sanguinetti, Cathy Berberian, Francesco Quadri e Alberto Arbasino.

Il 19 ottobre 1968 realizza un reportage sul parto naturale nell’Ospedale Galliera di Genova.

Nel 1969 la fotografa intraprende un viaggio in tre mesi in America meridionale, dove visita Venezuela, Colombia e Messico. Qui realizza diversi servizi fotografici sia in bianco e nero che a colori, che più tardi compaiono su vari periodici.

Al suo ritorno in Italia si reca a Roma per assistere al congresso di psicanalisi organizzato da Elvio Fachinelli, dove incontra e fotografa Jacques Lacan.



 

Nel 1970 viaggia in Oriente e con la sua macchina fotografica documenta l’Afghanistan, l’Ind

giovedì 25 marzo 2021

SCRIBENDO ATQUE PINGENDO

 


Scribendo atque pingendo

 

Nei secoli dal nono al dodicesimo, era compito delle badesse copiare e ritrarre i simboli sacri e dipingere i margini dei libri; e l’ornare gli scritti sacri doveva sollevare l’anima e ispirare la mente a Dio. Dipingere in calligrafia costituiva per molte dame sofferenti, una consolazione e un complemento agli esercizi religiosi. Queste artefici fecero molto per preservare l’arte dall’oblio, mentre gli uomini dedicavano il loro tempo e i loro pensieri (trovandovi distrazione) ai clamori delle battaglie o alle dispute delle scuole.


Prima della invenzione della stampa, la scrittura e la pittura erano strettamente collegate, ed essere uno scrivano comportava, frequentemente, il miniare in modo immaginoso il testo, oltre a trascriverlo accuratamente. Redegonda a Poitiers nel sesto secolo, e suor Giovanna Petroni a Siena nel quattordicesimo secolo, dirigevano conventi istituiti al preciso scopo di formare copiste e miniaturiste. Le sante Arlinda e Relinda nell’ottavo secolo divennero anche maestre, e la cronaca della loro storia è narrata in una biografia del nono secolo, tanto altamente erano apprezzate la loro erudizione e produttività artistica.


L’antico biografo racconta che queste due sorelle <<mostrarono una seria inclinazione sin dalla prima età>> e furono educate in un convento a Valeciennes, dove vennero istituite <<in quel che ai giorni nostri stimasi meraviglioso, nella scrittura e pittura (scribendo atque pingendo), opera invero faticosa sinanche per gli uomini>>. Ritornate dalla scuola conventuale, Relinda e Arlinda fondarono un centro a Maaseyck, cui si unirono molte giovani donne, le quali seguirono l’esempio delle loro maestre che <<aborrivano la pigrizia ed erano dedite al lavoro>>. A prescindere dai loro doveri amministrativi, le due sorelle portarono a termine molti arazzi ricamati in modo ricercato con oro e gemme, trascrivendo e miniando nel contempo libri di salmi ed evangeli. Frammenti di queste opere rimangono ancor oggi nella chiesa di Maaseyck, a testimonianza delle loro fatiche.


Adelarda, S. Gisella, S. Ratrude, e numerose altre monache divennero famose come miniaturiste e il nome d’una di loro Diemud, divenne sinonimo di produttività. Lavorando assiduamente nel monastero di Wesobrun dal 1057 al 1130. Diemud produsse circa quarantacinque manoscritti <<di rara bellezza>> contraddistinti da lettere iniziali estremamente ornate e da una scrittura minuscola di <<grande eleganza>>. La sua penna straordinariamente prolifica indusse il suo biografo a tributarle il complimento, sincero seppure ambiguo, che la sua opera <<superava quella che avrebbe potuto fare numerosi uomini>>.


L’argomento del manoscritto – la fine del mondo, tema prediletto del decimo secolo- ha senza dubbio stimolato l’immaginazione della pittrice. Coloratissimi draghi, demoni, angeli, animali e santi riempiono le pagine della sua opera, <<non superata da nessun’ altra del decimo secolo>>. Le sue composizioni fortemente accentrate danno un senso di equilibrio teologico ed estetico, e le ampie fasce di colore in alcuni sfondi danno ordine alla complessità della visione


I nomi di donne di questo periodo che di solito vengono registrati sono quelle di badesse potenti come Aelflaed, badessa di Whitby; Aethalthrith di Ely; Cristina di Mergate; Eustadiola di Bourges; Hitda di Meschede; Agnese di Quedlinburg; Ada sorella di Carlomagno; Uta, badessa di Regensburg. Talvolta erano esse stesse

le artiste, talvolta erano le patrone di opere d’arte cui legavano i loro nomi. Queste donne esercitarono una influenza importante sulla Chiesa nel suo insieme (come narra Joan Morris nel suo libro, intitolato The Lady was a Bistratrici ed educatrici attivissime.


 Sant’Ildegarda di Bigen (1096-1179) fu una tra le più notevoli di queste badesse. Conosciuta principalmente come mistica, si occupò anche di scienza naturali e di medicina, del dibattito politico e religioso del suo tempo, di musica e di riforma della lingua (inventò un linguaggio segreto di 920 parole; e il titolo del suo libro di visioni, Scrivias, potrebbe essere una di queste). Nel 1136 fu nominata badessa, e immediatamente fece spostare la comunità in una località nuova, Rupertseberg, presso Bighen, sul Reno.


Fu soltanto dopo il quarantatreesimo anno che le sue visioni interiori si rivelarono in tutta la loro forza:

Ero stata consapevole, sin dalla prima fanciullezza, di un potere di intuizione e di visioni di cose nascoste, sin dall’età di cinque anni, allora e poi sempre d’allora in avanti. Ma non ne feci menzione se non a poche persone religiose, che seguivano la stessa mia regola; lo tenni nascosto nel silenzio, sino a che Dio nella sua grazia non volle che ciò fosse manifesto…Fu nel mio quarantatreesimo anno, mentre fremevo nella trepida aspettativa d’una visione celestiale, che scorsi un grande splendore attraverso cui una voce dal cielo si rivolgeva a me: <<O fragile figlia della terra, cenere delle ceneri, polvere della polvere, esprimi e scrivi ciò che vedi e odi. Tu sei timorosa nel parlare, ingenua nello spiegare, ignorante nello scrivere, purtuttavia esprimiti e scrivi non secondo l’arte ma secondo la abilità naturale, non sotto la guida dell’umano comporre bensì sotto la guida di ciò che vedi e odi lassù, nel cielo di Dio…>>


In verità lo Scrivas è dominato da visioni di luce – stelle, luna, sole e sfere fiammeggianti – che combattono, e infine sopraffanno, un’oscurità potente piena di demoni, draghi e mostri. È interessante confrontare la iconografia originale e il senso di tensione morale trasmesso da queste miniature con l’opera di Ende.


Mentre Ildegarda scriveva, chiaramente, per il mondo esterno alle mura del convento, Herrade di Landseberg, la badessa di Hohenburg nel dodicesimo secolo, si occupava particolarmente della educazione delle monache sotto la sua direzione. Ella intraprese, negli anni fra il 1160 e il 1170, la scrittura e la miniatura di un enorme manoscritto mirante a istruire le sue monache nella <<storia del mondo, dalla creazione agli ultimi giorni>>. Hortus deliciarum (Il giardino delle delizie) era senza dubbio di mano sua, e conteneva 636 miniature, comprendenti figure allegoriche, illustrazioni di scene bibliche, visioni apocalittiche, suggerimenti di giardinaggio e scene di vita contemporanea – una sorta di almanacco ed enciclopedia. Tale manoscritto per secoli custodito con gran cura nella biblioteca di Strasburgo, fu distrutto da un incendio durante il bombardamento della città nel 1870. Fortunatamente gli studiosi del diciannovesimo secolo avevano fatto calchi meticolosi di molte figure del manoscritto – senza l’argento e l’oro, il colore brillante dell’originale. – a comunicare oggi l’ampio respiro e l’audacia della concezione di Herrade.


M.P.F.

 

 

lunedì 22 marzo 2021

La Donna nel Medioevo

 


La Donna nel Medioevo

Esaminando lo status della donna nel Medioevo, si evince che purtroppo, contadina, commerciante, nobile o monaca che fosse, era sempre considerata un essere inferiore per sua specifica natura rispetto all’uomo. Le donne erano considerate non solo deboli fisicamente ma anche moralmente e, quindi, da proteggere dal mondo esterno e da se stesse; le si riteneva non in grado di discernere e quindi “in pericolo”.


La donna nel Medioevo è pressochè svantaggiata sin dalla sua nascita, e le veniva riservata un’esistenza da trascorrere in sudditanza e in totale dipendenza dalla famiglia di origine e poi dalla famiglia del congiunto. Rispetto alla materia giuridica, si assiste a un generale ritorno agli aspetti più arcaici del diritto romano, nel passaggio delle “tutele “paterne a quelle del marito e della famiglia dei suoceri ed a un generale irrigidimento normativo quanto a gestione del patrimonio e tutela filiale.

La vita delle donne in età medioevale era assolutamente limitata: non potevano esprimersi in pubblico e, se dovevano per qualche motivo partecipare ad un processo, un parente stretto doveva parlare al posto loro. Se non trovavano da sposarsi, avevano due alternative: o essere mandate a servizio presso qualche famiglia o recarsi in convento e trascorrervi il resto della propria esistenza.

Per esempio, la vita delle contadine era molto faticosa e richiedeva molte energie: a loro spettava l’accudimento della prole, degli animali allevati di piccola taglia, la gestione del focolare e della pulizia (di casa e di indumenti), alcune mansioni di raccolta (la fienagione e mietitura) in ambito prettamente agricolo e la produzione di latte e derivati. Si sposavano giovani e potevano mettere al mondo anche un numero elevato di figli, da 8 a 10, non necessariamente destinati a sopravvivere, più facilmente soggetti a morte per incidente o infezione di varia natura.

In ambito aristocratico, la vita delle donne non era particolarmente più agevole: per i genitori le figlie femmine erano una maniera per ottenere risorse in termini di alleanze politiche e potere e, a questo scopo, potevano essere concesse in spose anche all’età di 7 anni.


La loro educazione era gestita dalla componente femminile della casa e ad attività femminili venivano educate, perlopiù a dedicarsi alla tessitura e al ricamo.


In realtà, solo ed esclusivamente in casi di matrimoni di un certo livello, le donne potevano sperare di gestire un feudo intero con tutta una schiera di servi, capocuochi, camerieri e maggiordomi, ma anche in quel caso dovevano per prime seguire occupazioni di tipo domestico, quali la salatura della carne, la preparazione dei formaggi, di vini e dei prodotti della terra. Ma di fatto spettavano loro, però, mansioni di carattere amministrativo o di tipo organizzativo che andassero oltre lo spazio domestico.


M.P.F.

 

VELLUSA TESORI

La Donna nel Medioevo