mercoledì 4 novembre 2020

MONDRIAN E DE STIJL

 

Mondrian e De Stijl.


Nell’edificio Sabatini, lo spazio principale del Museo Reina  Sofia di Madrid, si è aperta fino al primo marzo 2021 la mostra Mondrian e De Stijl, realizzata col Kunstmuseum dell’Aia. Curata da Hans Janssen, uno dei maggiori specialisti dell’artista, raduna un centinaio di opere di Mondrian e dei suoi compagni di strada, da van Doesburg, Vantongerloo, Rietvelt, ai meno noti Rienks de Boer, van der Leck e van Heemskerck. Illustra cioè l’intera vicenda del Neoplasticismo, una delle più importanti correnti dell’astrattismo del Novecento.



Piet Mondrian (1872-1944) è stato il massimo esponente dell’astrattismo geometrico, cioè di un’arte non figurativa che si fonda sulla geometria o, potremmo anche dire, sulla razionalità. Se pensiamo che il suo movimento, il Neoplasticismo, è nato nel 1917, uno degli anni più terribili della Prima guerra mondiale, che a sua volta è stata il momento più irrazionale dell’intera storia umana (almeno fino a quel momento), c’è da trasecolare.


Eppure il punto era proprio quello: trovare una logica e un’armonia mentre il mondo non ne possedeva più, e mentre la violenza (che, si intende, è sempre esistita, tanto più che il filosofo greco Empedocle diceva che era uno degli elementi costitutivi dell’Universo, come l’aria, l’acqua, il fuoco) aveva raggiunto un’acme insostenibile. Si voleva dipingere un teorema perfetto, insomma, in un Occidente che sembrava correre verso la fine (Il tramonto dell’Occidente del Oswald Spengler è  del 1918).


Mondrian, del resto, aveva tentato fin dai primi anni Dieci di tradurre la natura in geometria. Nelle sue Composizioni dipinte fra il 1912 e il 1915 gli alberi e il “tremolar della marina”, per dirla con Dante, si trasformavano in un mosaico di segmenti verticali e orizzontali. Il procedimento però si approfondisce a partire dal 1918-19, quando il quadro diventa una tavola pitagorica dove compaiono solo rette che, incrociandosi, formano rettangoli e quadrati. Anche i colori si semplificano e si staccano da quelli naturali: sulla tela ci sono, oltre al bianco e al nero, solo il giallo, il rosso e il blu, tinte pure senza sfumature, cangiantismi, chiaroscuri. Intanto nel 1917 Mondrian fonda con un gruppo di artisti, tra cui i più importanti sono Theo van Doesburg e Georges Vantongerloo, la rivista De Stijl (Lo stile).


E nel 1920 pubblica a sue spese un manifesto di poche pagine intitolato il Neoplasticismo, che significa “La nuova forma”, e in cui teorizza una forma pittorica bidimensionale, senza spessore, senza peso, che esprime soprattutto una idea di costruzione. Il movimento, che si estende anche all’architettura di Gerrit Rietveld, rimarrà in vita fino al 1931. Ma vedrà fra i suoi artisti, tanti contrasti aspri. E tutt’altro che razionali.


M.P.F.

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 2 novembre 2020

Orazio Gentileschi. La fuga in Egitto

 






















Orazio Gentileschi.


La fuga in Egitto e altre storie

Per la prima volta, alla Pinacoteca Ala Ponzone di Cremona, si possono ammirare l’una di fianco all’altra due versioni del “Riposo durante la fuga in Egitto” capolavoro di Orazio Gentileschi. In una straordinaria mostra promossa dal Comune di Cremona attraverso i suoi Civici Musei, con la curatela da Mario Marubbi. Accanto alle due magnifiche tele, la prima del Kunsthistorisches Museum di Vienna e la seconda di collezione privata, la mostra propone una selezione di altri dipinti, sculture, avori, incisioni sulla popolare “Fuga” tramandata dal solo Vangelo di Matteo ma protagonista dei vangeli apocrifi.


Due tele eguali, di mano di Orazio Gentileschi, realizzate l’una dopo l’altra, dedicate al racconto del “Riposo durante la fuga in Egitto”. Un tema che, così come splendidamente ricreato da Gentileschi, affascinò diversi committenti. Tanto che, accanto alle due versioni riunite a Cremona, se ne conoscono altre due, l’una al Louvre e al Birmingham Museum la seconda. Dipinti che sono riconosciuti tra i più intriganti del primo Seicento italiano. Le due versioni esposte all’Ala Ponzone risalgono al momento in cui Orazio Gentileschi – forse il più precoce, intelligente e spregiudicato interprete tra i pittori caravaggeschi – godeva di enorme fama accresciuta a Parigi, dove era stato chiamato alla corte di Maria de’ Medici, e ampliata a Londra dove era stato chiamato da George Villiers, primo duca di Buckingham.


La caduta di Re Carlo I d’Inghilterra provocò anche quella del suo potente ministro e la sua “Fuga in Egitto” venne messa all’asta da George Cromwell ad Anversa nel 1646. Finì nella collezione dell’arciduca Leopoldo Guglielmo, per il suo castello di Praga, e infine al Kunsthistorisches Museum di Vienna.


Anche la seconda versione non ebbe pace. Dopo vari passaggi, nell’Ottocento il dipinto finì anch’esso nella collezione dei Duchi di Buckingham, a sostituire il gemello finito a Praga. Riproposto sul mercato, entrò a far parte della collezione di Paul Getty a Malibu e oggi è uno dei tesori di una collezione privata di Mantova. Per la prima volta nella storia, le due versioni “Buckingham” del “Riposo durante la fuga in Egitto” vengono esposte vis a vis, grazie al prestito concesso dal museo viennese che, in cambio, riceverà dai Civici Musei di Cremona uno dei loro capolavori, il “San Francesco” di Caravaggio. E, naturalmente, grazie alla disponibilità del collezionista che conserva l’altra versione del dipinto.


Occasione ghiotta per tutto il pubblico ma ancora di più per gli esperti cui la mostra cremonese offre l’opportunità davvero unica di poter ammirare, affiancate, le due magnifiche tele. Va segnalato come gli studi sin qui condotti abbiano assegnato la primogenitura alla versione conservata nella collezione mantovana,



L’opportunità di una simultanea visione dei due dipinti consente anche di ripercorrere il tema iconografico della Fuga in Egitto e dei molteplici episodi ad esso collegati, mettendo a fuoco una riflessione teologica e soprattutto iconografica sul tema della Storia dell’infanzia di Cristo attraverso i secoli, a partire dal Medioevo fino ai nostri giorni.


In mostra, le due tele vengono affiancate da una selezione molto precisa di avori, sculture, miniature, dipinti e incisioni sul tema nelle sue varie declinazioni che permette di seguire l’evoluzione nell’arte occidentale, dapprima con accenti marcatamente fiabeschi e poi, proprio a partire dalla serie di opere di Orazio Gentileschi, focalizzandosi sulla centralità della Sacra Famiglia.


La presenza di opere di importanti maestri come Martino e Callisto Piazza, Savoldo, Maratta, Rembrandt, Legnanino, Piccio, Sironi e tra incisioni opere di Schongauer, Dürer, Procaccini, Tiepolo Rembrandt rende la mostra particolarmente interessante.



Il racconto della fuga in Egitto, tramandato dal solo Vangelo di Matteo, è tra quelli più amati dagli artisti e dai loro committenti. Un interesse che portò al fiorire di una cospicua letteratura e stimolò una serie straordinaria di invenzione pittoriche, attingendo non solo al breve passo tramandato dall’Evangelista ma anche, e di più, dai Vangeli apocrifi.




La ricchezza dei temi, dei supporti e delle tecniche, unita ad un ampio respiro temporale, fa di questa mostra un momento unico per lo studio e la comprensione di uno dei temi meno conosciuti della vita di Cristo.


M.P.F.

sabato 31 ottobre 2020

GEMITO.

 


Gemito. Dalla scultura al disegno


Il destino di Vincenzo Gemito scultore, pittore e disegnatore di straordinario talento è condiviso da Napoli e Parigi, dove sé già tenuta la mostra al Petit Palais a cura di Jean-Loup Champion, Maria Tamajo e Carmine Romano, con successo non prevedibile per un artista fuori dallo star system dell’Ottocento-Novecento. Ora il maestro torna nella sua città, al Museo di Capodimonte, con un allestimento di felice qualità. Di qui il titolo della mostra ‘Gemito Dalla scultura al disegno ’ (fino al 15 novembre).



Vincenzo fu abbandonato dalla madre il 7 luglio 1852 nella “ruota degli esposti” del convento dell’Annunciata: fu accolto da una famiglia povera e buona: presto mostrò che la sua vita era segnata dal destino dell’arte.


A solo 17 anni scolpisce il
Giocatore e a 23 i busti di Morelli, Verdi e Michetti, che divenne suo amico. Si lega ad artisti sradicati e anticonformisti, ma la sua formazione è nella strada tra i vicoli della città, scoprirà il Museo nazionale Archeologico e lì attinge con una incredibile voracità dall’Antico. La sua prodigiosa attività si snoda su un fil rouge che parte dai presepi della tradizione napoletana dei pastori di San Gregorio Armeno e giunge al prodigio della scultura alessandrina.

Una vera passione che l’accompagna per tutta la vita fino alla tarda terracotta con il busto di Alessandro Magno (1920-25) e alle tante ‘
Meduse’. L’enorme successo del busto di Giuseppe Verdi, realizzato quando il maestro nel 1872 tenne la prima dell’Aida al San Carlo, gli apre le porte di Parigi per l’Esposizione universale del 1878.


Qui presentò il
Pescatore napoletano che porta al petto il pescato ed è tra le più celebri opere di Gemito, con il Fiociniere, il Malatiello, l’Acquaiolo, il Pastore degli Abruzzi, omaggio al suo amico Michetti. La critica non fu favorevole al Pescatore, ma il successo di pubblico gli conferì un alone di celebrità. Sculture “realiste” certo, ma non accademico. In mostra c’è una Ballerina di Degas, che Gemito conobbe a Parigi quando vi giunse con Antonio Mancini, con il quale condividerà lo studio nel convento di Sant’Andrea delle Dame, nei pressi dell’Accademia di Belle Arti dove studia la collezione dei gessi.

Nel 1872 incontra Mathilde Duffaud, modella francese più grande di lui di nove anni. Se ne innamora e la porta al Mojariello. Il ritratto di lei in terracotta resta tra i suoi capolavori. Quando l’artista va a Parigi, Mathilde lo raggiunge malata. Lui fa di tutto per curarla. Rientrati a Napoli, le condizioni di salute della donna precipitano: lei muore nell’aprile del 1881. A sculture e disegni assai intensi di questa bella donna è dedicata una sezione della mostra. Sconvolto dalla morte di lei, l’artista si rifugia a Capri e disegna tanto: è la sua terapia. Nel 1882 incontra Anna Cutolo, che conosciamo anche nel ritratto Donna con ventaglio di un caposcuola come Domenico Morelli.


Dal loro matrimonio nasce la figlia Peppinella, presente in tanti disegni e sculture, poi valida collaboratrice di un padre così strampalato. Anna è soggetto privilegiato: a lei è dedicata una sezione della mostra che fa pendant con quella di Mathilde. Ma il destino è barbaro e Nannina tra atroci sofferenze si spegne nel 1906. Gemito con uno spietato senso della forma la ritrae nella sua lunga agonia.

La salute instabile di Gemito, le sue turbe psichiche lo portano periodicamente in case di cura. Nel 1883, con l’aiuto del barone belga Oscar du Mesnil, di cui farà un busto in bronzo (1885) e tanti ritratti, apre una fonderia a Margellina. La sua opera è testimonianza della consapevolezza di quanto accade nell’arte europea. Si pensi solo allo straordinario
Autoritratto (1915) in terracotta che sembra uscito dal crogiulo dell’Espressionismo, ma tanti sono i rimandi alla modernità, visto che Gemito muore nel 1929.


Nel 1885 il re Umberto I gli commissiona la colossale statua di Carlo V per una nicchia della facciata del Palazzo Reale, ma la sua salute mentale torna a vacillare. Finora lo scultore ha rappresentato solo scugnizzi, le sue donne, gente del popolo e illustri contemporanei, ma mai una statua di soggetto storico di proporzioni colossali in marmo, materiale che non ama. Gemito non è al suo meglio, non è uno scultore cesareo come Antonio Canova.



In mostra ci sono i modelli in gesso e bronzo del Carlo V. Quando il marmo viene collocato nella nicchia, Gemito si avvede di un errore nella posizione dell’indice allungato della mano destra e lo fa correggere: il dito in gesso, nelle dimensioni del marmo, è stato donato nel 2018 al Museo di Capodimonte.


L’artista ha una forte sensibilità autocritica e l’angoscia che segue a questa commissione lo prostra profondamente. Il suo stato mentale è tale che il maestro viene ricoverato in una clinica psichiatrica. Dopo una lunga degenza, si richiude nella casa di via Tasso, in un esilio volontario per vent’anni.

Così scriveva nel marzo 1928: <<Se all’artista manca la cognizione del passato non potrà mai fare un capolavoro>>. Con questo sogno, nel marzo successivo, Gemito chiuse gli occhi: aveva settantasette anni. Con lui con Medardo Rosso, la scultura aveva trovato i sui valori più sicuri, la sua piena libertà espressiva oltre le ultime resistenze dei pregiudizi estetici, ideologici e accademica. Nel più giusto senso della parola era cioè diventata scultura contemporanea.



M.P.F.