lunedì 31 agosto 2015

GIOTTO, L'ITALIA

Giotto, l’Italia


“Credette Cimabue nella pittura
Tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido
Si che la fama di colui oscura”
(Purgatorio – Canto XI)


Si è aperta la mostra Giotto, l’Italia allestita a Palazzo Reale di Milano fino al 10 gennaio 2016 a cura di Pietro Petraroia e Serena Romano, grande evento espositivo che conclude il semestre di Expo 2015.

Intorno alla figura di Giotto di Bondone (Colle di Vespignano, Firenze, 1266 c. – Firenze, 1337) sono fiorite, fin dal XIV e XV secolo, molte leggende, fra le più note delle quali è quella che narra come Cimabue avrebbe scoperto casualmente le doti innate di Giotto, giovane e povero pastore sui monti del nativo Muggello, scorgendolo mentre era intento a ritrarre una pecora su un sasso e conducendolo poi con sé in città per istruirlo.

L’aneddoto, pubblicato per la prima volta da Lorenzo Ghiberti nel 1455, riflette le idee della storiografia antica, perché, come altri anteriori, sottolinea la facoltà, del pittore di essere, secondo quanto dirà Vasari, <<buono imitatore della natura>> ancor più di Cimabue e, per questo, precursore delle teorie rinascimentali, senza che nessuno potesse averglielo insegnato, data l’epoca in cui – lo afferma un autore del Seicento - <<ancor bambina avvolta in fasce se ne stava la pittura>>.

Questa valutazione di Giotto, la cui importanza è vista solo in funzione degli artisti successivi, è antistorica. La sua pittura non deve essere giudicata come preparazione, ma di per se stessa, nell’ambito dell’età in cui è nata.
Il valore del pittore non consiste certo nel saper imitare la natura, ma nel riuscire a esprimere la propria concezione del mondo e quella della sua società. Questa è la grandezza di Giotto: egli è interprete della collettività borghese, laica e religiosa al tempo stesso, una collettività che crede nell’importanza del lavoro attraverso il quale elabora la materia, che crede nell’importanza del lavoro attraverso il quale al servizio dell’intelligenza si può dare forma alle cose, costruire città, chiese, case, ornarle con affreschi e con sculture.

Giotto, sceso dai monti del Mugello nella vicina Firenze, sarebbe stato dunque allievo di Cimabue, secondo l’antichissima tradizione, che si è voluta talvolta negare, ma che è invece accettabile perché egli eredita dal maestro proprio questa concezione e il senso del volume, realizzato con il chiaroscuro ed enucleato con la linea di contorno.
Se accettiamo l’alunnato presso Cimabue, dobbiamo ritenere che il giovane allievo si sia recato, con tutti gli altri discepoli e collaboratori, ad Assisi per aiutarlo nella decorazione dell’abside e nel transetto della Basilica Superiore. Qui la sua cultura, a contatto con pittori romani che decorano la navata, si amplia; si giustificano così gli elementi romani che si trovano nelle sue opere future e che hanno talvolta generato perplessità nella critica, senza con questo voler negare le possibilità di un soggiorno a Roma, dove deve aver conosciuto Arnolfo di Cambio e, più tardi, Pietro Cavallini.

La mostra <<Giotto, l’Italia>> procede per tappe, o nuclei, la cui sequenza cronologica disegna anche lo svolgimento della vita dell’artista, della sua prima formazione e giovinezza, ai grandi successi della maturità, ai fasti della parte finale della vita.
Le prime due opere lo vedono giovanissimo ma già autonomo e attivo per chiese fiorentine o della cintura di Firenze: sono le due Madonne di Borgo San Lorenzo e di san Giorgio Costa, in cui lo stile del pittore si mostra vicinissimo a quello degli affreschi a cui egli stesso, contemporaneamente o di li a pochissimo, lavorò nella basilica di San Francesco ad Assisi, nelle storie del Vecchio e Nuovo testamento e soprattutto nelle celebri ventotto storie di san Francesco nella chiesa superiore.
Il lavoro per i francescani dovette “lanciare” Giotto, mettendolo a contatto con cerchie di committenza ad altissimo livello che già superavano, e di molto, i confini della natia Firenze e che certamente gli conferirono grande notorietà anche in patria.
In mostra, questo consolidarsi della fortuna di Giotto a Firenze è esemplificata dal nucleo di opere della Badia Fiorentina, la chiesa del governo cittadino che sorge vicino al Palazzo del Podestà e spesso ospitava le riunioni dei rappresentanti del governo e dei Priori delle Arti. È il Polittico restaurato di recente e generosamente prestato dagli Uffizi: eccezionalmente ricongiunto, in mostra, a quanto è sopravvissuto degli affreschi che Giotto aveva eseguito nell’abside, attorno al polittico stesso situato sull’altare. Per quanto mutilati in parte anche lacunosi, sono una testimonianza preziosa e relativamente poco conosciuta del grande cantiere che Giotto mise in piedi per questo luogo-chiave della sua città.

Il “salto” di Giotto nel nord-est dell’Italia, con il grande lavoro per il ricco Enrico Scrovegni, è testimoniato dalla tavola con il Dio Padre, che originariamente chiudeva un vano situato al centro dell’Arena di Padova. Questa collocazione anomala, e lontana dallo sguardo, aveva in certo modo limitato il giudizio del dipinto, che ora è pienamente riconosciuto all’autografia di Giotto: era un’invenzione stupenda, con la figura del Padre Eterno dipinta su tavola, in grande evidenza, nel contesto della scena in cui Dio affida all’arcangelo Gabriele la missione dell’Annunciazione.
La tappa successiva della mostra allinea una dopo l’altra tre opere davvero straordinarie. Sono i due polittici a due facce, che Giotto dipinse per la cattedrale di santa Reparata di Firenze, e per la basilica di san Pietro in Vaticano: mai accostati tra di loro in una mostra.

Il Polittico Stefaneschi di Giotto è senza dubbio uno dei dipinti su tavola più insigni del Trecento, ed è tra le opere più documentate del pittore in antico.
Commissionato dal cardinale Jacopo Stefaneschi per san Pietro, faceva in origine parte di un ampio programma decorativo che comprendeva gli affreschi della Tribuna e il mosaico della Navicella in Vaticano. Di questo complesso sono sopravvissuti pochi frammenti, uno dei quali, esposto in mostra per la prima volta in assoluto.
 La tavola è a due facce, il che le conferisce una straordinaria imponenza, tuttora percepibile, ma ancor di più quando era sull’altare maggiore di san Pietro, in posizione sopraelevata, sì da essere ammirata dal basso.

Dopo Roma, e mentre organizza e controlla altri cantieri pittorici – a Firenze, di nuovo ad Assisi, e chissà in quanti altri luoghi di cui oggi noi abbiamo perso notizia – Giotto è ormai uomo anziano, ricco, possidente terriero, ricercato dal re di Napoli (che lo “sequestra” per quattro anni), celebrato ovunque. I ricchi banchieri fiorentini lo fanno lavorare, continuamente: in mostra, ne è testimonianza il polittico proveniente dalla cappella dei banchieri Baroncelli in Santa Croce a Firenze, ricongiunto per l’occasione con una sua parte, una cuspide, da cui è stato separato in epoca rinascimentale e che si trova oggi al museo di San Diego in California.
Il Polittico Baroncelli reca la firma di Giotto, e così pure è firmata l’ultima opera della mostra: il polittico oggi conservato alla Pinacoteca di Bologna, che Giotto molto probabilmente dipinse per la residenza preparata per il progettato ritorno del papa, da Avignone a Bologna, attorno il 1330. La residenza fu subito distrutta dai bolognesi inferociti e ostili.

L’opera della vecchiaia del grande artista, precede di poco il momento in cui Giotto, osannato in patria, fu mandato dal governo fiorentino presso Azzone Visconti a Milano. Era il 1335 o 1336. La mostra aperta il 1° settembre nel capoluogo lombardo è ospitata nello stesso palazzo dove Giotto lavorò ad opere ormai purtroppo perdute, e ne celebra l’anniversario a Milano.




Maria Paola Forlani


  

domenica 23 agosto 2015

Cento Lumi per Casale Monferrato Lampade di Chanukkah

Cento lumi per Casale Monferrato

Lampade di Chanukkah:
una collezione tra storia, arte e design


In occasione di Expo la città di Casale Monferrato presenta una mostra unica e inedita: la collezione completa di oltre centosettanta Chanukkiot d’arte contemporanea della Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale.

Un’occasione irripetibile per apprezzare I lumi di Chanukkà realizzati da artisti di livello mondiale, ebrei e non, che hanno interpretato e reinterpretato il simbolico candelabro a nove bracci utilizzato, appunto, per accendere i lumi, uno per ogni sera, durante la celebrazione della festa di Chanukkà (la festività ebraica che commemora la consacrazione di un nuovo altare del tempio di Gerusalemme dopo la libertà conquistata dagli ellenici).

Arman, Topor, Recalcati, Pomodoro, Mondino, Palladino, Del Pezzo, Luzzati, Colombotto Rosso, Nespolo sono solo alcuni degli artisti che hanno reso la collezione casalese tra le più importanti a livello internazionale, esposta nelle sale del secondo piano del Castello del Monferrato (fino al 1 novembre 2015).

La ricorrenza di Chanukkah (inaugurazione), nota anche come Chag ha-Orot
(festa delle luci) cade nella stagione invernale, il 25 del mese di Kislev, e dura otto giorni. Essa rievoca il periodo altamente drammatico della storia del popolo ebraico, allorché, nel II secolo avanti Era Volgare, gli abitanti della Giudea, politicamente assoggettati al regime seleucide della Siria, ne subivano ancor più la forzata assimilazione della cultura ellenistica dominante.

La precettistica religiosa era stata drasticamente limitata, la circoncisione e l’alimentazione rituale (Kasherut), in particolare, severamente vietate, il Santuario
di Gerusalemme profanato, il popolo sconvolto e demonizzato. È in questo contesto
di disperazione che inizia a manifestarsi una reazione di riscatto, inizialmente attivata dai membri di una famiglia sacerdotale di Modi’in: il padre Mattatia e i suoi cinque figli. Costoro, noti come Asmonei e, più tardi, anche come Maccabei, sotto la guida del Yehudah, condurranno il popolo ebraico alla vittoria sui suoi oppressori e, quindi, alla liberazione materiale e spirituale del paese. Due sono i principali elementi
istitutivi della festa di Chanukkah: il miracolo dell’olio, avvenuto nel Santuario, con la sua riconsacrazione al culto; il miracolo della vittoria “ dei pochi sui molti, dei deboli sui forti, dei giusti sui malvagi”.

Il primo, evidente come tale per la sua umana imprevedibilità, consistette nel fatto che un piccolo quantitativo di olio, trovato nei locali del tempio, che avrebbe potuto alimentare la lampada perpetua a sette bracci (menorah) solo per un giorno, ne durò invece otto, il tempo, cioè necessario ai sacerdoti per prepararne di nuovo, in stato di purità. Il secondo miracolo di per sé non si apparenta come tale, ma, in un ottica umana, altrettanto straordinario e inatteso, consistette nell’esito favorevole agli ebrei dello scontro armato con le soverchianti forze nemiche.

Per ricordare questo duplice ordine di miracoli e per tramandarli alla posterità, venne istituito, dai Maestri dell’epoca, un rituale particolare: l’accensione per otto giorni consecutivi di una speciale lampada a otto becchi chiamati chanukkià o hanukijah
o hannukkiah.

Questa lampada viene accesa, durante la festa, in ogni casa ebraica dopo il tramonto, negli otto giorni seguenti il giorno corrispondente al 25 di Kislev,
con la seguente modalità: un lume la prima sera, due lumi la seconda e così via sino all’ottava sera, allorché la chanukkiah apparirà accesa con tutti i suoi lumi.

È prassi che la chanukkiah venga accesa ovviamente dopo il tramonto, preferibilmente nell’ora in cui tutta la famiglia è riunita. Nella liturgia del periodo, oltrechè la lettura di appositi brani della Torah, la Bibbia ebraica, è prescritta la recitazione, nell’ambito della ‘Amidah, una delle preghiere fondamentali dell’ebraismo e, privatamente, della preghiera di ringraziamento dopo i pasti, del passo iniziale con le parole “Per i miracoli, per gli atti di valore, per le vittorie…” e dopo la ‘Amidah segue l’Hallel, preghiera contenente inni e lodi al Signore che viene recitata nei giorni festivi. È altresì prescritto che, durante l’accensione dei lumi, non ci si possa “servire” della loro luce, ma esclusivamente contemplarli, meditando con ciò sulla presenza salvifica di D-o nella vita del suo Popolo.

Le chanukkiot del Museo dei Lumi di Casale sono 115. Più una. La prima. Che non c’è. Perché è stata inviata in Israele dove ancora oggi viene accesa con le altre nella Sinagoga italiana di Gerusalemme. Questa collezione dei Lumi di Chanukkà, per la prima volta dalla sua nascita, avvenuta nel 1994 si può ammirare in un’unica sede espositiva, un evento, per la rilevanza degli artisti e per la bellezza delle opere, unico ed affascinante.

Gli artisti hanno tutti sentito l’impulso di dare prova alla loro creatività per inventare una forma per quell’oggetto che una forma già ce l’ha. Ed è la sua sostanza. Un oggetto così pregnante e carico di contenuti, simbolo del legame tra il popolo ebraico e la luce; un oggetto dal design millenario così identificante da essere tutt’uno con il suo significato religioso e da imporre precisi vincoli formali e funzionali.
Chanukkiah è per definizione il candelabro con otto bracci più lo shammash, il servitore che non deve essere uguale agli altri, ma più alto, o più basso, e comunque fuori allineamento.


A leggere le testimonianze di Aldo Mondino, Antonio Recalcati, Giosetta Fioroni, Lucio Del Pezzo e tutti gli artisti presenti si coglie sempre la precisa intenzione di partire dalla storia antica, per trovarvi nuovi significati, senza mai piegarli o manipolarli, ma intersecandoli ai valori del proprio credo – religioso e artistico – e ampliandoli a comprendere valori universali di pace e poesia.


Maria Paola Forlani