Giotto, l’Italia
“Credette Cimabue nella pittura
Tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido
Si che la fama di colui oscura”
(Purgatorio – Canto XI)
Si è aperta la mostra Giotto, l’Italia allestita a Palazzo
Reale di Milano fino al 10 gennaio 2016 a cura di Pietro Petraroia e Serena Romano,
grande evento espositivo che conclude il semestre di Expo 2015.
Intorno alla figura di Giotto di Bondone (Colle di Vespignano,
Firenze, 1266 c. – Firenze, 1337) sono fiorite, fin dal XIV e XV secolo, molte
leggende, fra le più note delle quali è quella che narra come Cimabue avrebbe
scoperto casualmente le doti innate di Giotto, giovane e povero pastore sui
monti del nativo Muggello, scorgendolo mentre era intento a ritrarre una pecora
su un sasso e conducendolo poi con sé in città per istruirlo.
L’aneddoto, pubblicato per la
prima volta da Lorenzo Ghiberti nel 1455, riflette le idee della storiografia
antica, perché, come altri anteriori, sottolinea la facoltà, del pittore di
essere, secondo quanto dirà Vasari, <<buono imitatore della
natura>> ancor più di Cimabue e, per questo, precursore delle teorie
rinascimentali, senza che nessuno potesse averglielo insegnato, data l’epoca in
cui – lo afferma un autore del Seicento - <<ancor bambina avvolta in
fasce se ne stava la pittura>>.
Questa valutazione di Giotto,
la cui importanza è vista solo in funzione degli artisti successivi, è
antistorica. La sua pittura non deve essere giudicata come preparazione, ma di
per se stessa, nell’ambito dell’età in cui è nata.
Il valore del pittore non
consiste certo nel saper imitare la natura, ma nel riuscire a esprimere la
propria concezione del mondo e quella della sua società. Questa è la grandezza
di Giotto: egli è interprete della collettività borghese, laica e religiosa al
tempo stesso, una collettività che crede nell’importanza del lavoro attraverso
il quale elabora la materia, che crede nell’importanza del lavoro attraverso il
quale al servizio dell’intelligenza si può dare forma alle cose, costruire
città, chiese, case, ornarle con affreschi e con sculture.
Giotto, sceso dai monti del
Mugello nella vicina Firenze, sarebbe stato dunque allievo di Cimabue, secondo
l’antichissima tradizione, che si è voluta talvolta negare, ma che è invece
accettabile perché egli eredita dal maestro proprio questa concezione e il
senso del volume, realizzato con il chiaroscuro ed enucleato con la linea di
contorno.
Se accettiamo l’alunnato
presso Cimabue, dobbiamo ritenere che il giovane allievo si sia recato, con
tutti gli altri discepoli e collaboratori, ad Assisi per aiutarlo nella
decorazione dell’abside e nel transetto della Basilica Superiore. Qui la sua cultura, a contatto con pittori
romani che decorano la navata, si amplia; si giustificano così gli elementi
romani che si trovano nelle sue opere future e che hanno talvolta generato
perplessità nella critica, senza con questo voler negare le possibilità di un
soggiorno a Roma, dove deve aver conosciuto Arnolfo di Cambio e, più tardi,
Pietro Cavallini.
La mostra <<Giotto,
l’Italia>> procede per tappe, o nuclei, la cui sequenza cronologica
disegna anche lo svolgimento della vita dell’artista, della sua prima
formazione e giovinezza, ai grandi successi della maturità, ai fasti della
parte finale della vita.
Le prime due opere lo vedono
giovanissimo ma già autonomo e attivo per chiese fiorentine o della cintura di
Firenze: sono le due Madonne di Borgo
San Lorenzo e di san Giorgio Costa, in cui lo stile del pittore si mostra
vicinissimo a quello degli affreschi a cui egli stesso, contemporaneamente o di
li a pochissimo, lavorò nella basilica di San Francesco ad Assisi, nelle storie
del Vecchio e Nuovo testamento e soprattutto nelle celebri ventotto storie di
san Francesco nella chiesa superiore.
Il lavoro per i francescani
dovette “lanciare” Giotto, mettendolo a contatto con cerchie di committenza ad
altissimo livello che già superavano, e di molto, i confini della natia Firenze
e che certamente gli conferirono grande notorietà anche in patria.
In mostra, questo
consolidarsi della fortuna di Giotto a Firenze è esemplificata dal nucleo di
opere della Badia Fiorentina, la chiesa del governo cittadino che sorge vicino
al Palazzo del Podestà e spesso ospitava le riunioni dei rappresentanti del
governo e dei Priori delle Arti. È il Polittico restaurato di recente e generosamente
prestato dagli Uffizi: eccezionalmente ricongiunto, in mostra, a quanto è
sopravvissuto degli affreschi che Giotto aveva eseguito nell’abside, attorno al
polittico stesso situato sull’altare. Per quanto mutilati in parte anche
lacunosi, sono una testimonianza preziosa e relativamente poco conosciuta del
grande cantiere che Giotto mise in piedi per questo luogo-chiave della sua
città.
Il “salto” di Giotto nel
nord-est dell’Italia, con il grande lavoro per il ricco Enrico Scrovegni, è
testimoniato dalla tavola con il Dio
Padre, che originariamente chiudeva un vano situato al centro dell’Arena di
Padova. Questa collocazione anomala, e lontana dallo sguardo, aveva in certo
modo limitato il giudizio del dipinto, che ora è pienamente riconosciuto all’autografia
di Giotto: era un’invenzione stupenda, con la figura del Padre Eterno dipinta
su tavola, in grande evidenza, nel contesto della scena in cui Dio affida
all’arcangelo Gabriele la missione dell’Annunciazione.
La tappa successiva della
mostra allinea una dopo l’altra tre opere davvero straordinarie. Sono i due
polittici a due facce, che Giotto dipinse per la cattedrale di santa Reparata
di Firenze, e per la basilica di san Pietro in Vaticano: mai accostati tra di
loro in una mostra.
Il Polittico Stefaneschi di
Giotto è senza dubbio uno dei dipinti su tavola più insigni del Trecento, ed è
tra le opere più documentate del pittore in antico.
Commissionato dal cardinale
Jacopo Stefaneschi per san Pietro, faceva in origine parte di un ampio
programma decorativo che comprendeva gli affreschi della Tribuna e il mosaico
della Navicella in Vaticano. Di questo complesso sono sopravvissuti pochi
frammenti, uno dei quali, esposto in mostra per la prima volta in assoluto.
La tavola è a due facce, il che le conferisce
una straordinaria imponenza, tuttora percepibile, ma ancor di più quando era
sull’altare maggiore di san Pietro, in posizione sopraelevata, sì da essere
ammirata dal basso.
Dopo Roma, e mentre organizza
e controlla altri cantieri pittorici – a Firenze, di nuovo ad Assisi, e chissà
in quanti altri luoghi di cui oggi noi abbiamo perso notizia – Giotto è ormai
uomo anziano, ricco, possidente terriero, ricercato dal re di Napoli (che lo
“sequestra” per quattro anni), celebrato ovunque. I ricchi banchieri fiorentini
lo fanno lavorare, continuamente: in mostra, ne è testimonianza il polittico
proveniente dalla cappella dei banchieri Baroncelli in Santa Croce a Firenze,
ricongiunto per l’occasione con una sua parte, una cuspide, da cui è stato
separato in epoca rinascimentale e che si trova oggi al museo di San Diego in
California.
Il Polittico Baroncelli reca la firma di Giotto, e così pure è firmata
l’ultima opera della mostra: il polittico oggi conservato alla Pinacoteca di
Bologna, che Giotto molto probabilmente dipinse per la residenza preparata per
il progettato ritorno del papa, da Avignone a Bologna, attorno il 1330. La
residenza fu subito distrutta dai bolognesi inferociti e ostili.
L’opera della vecchiaia del
grande artista, precede di poco il momento in cui Giotto, osannato in patria,
fu mandato dal governo fiorentino presso Azzone Visconti a Milano. Era il 1335
o 1336. La mostra aperta il 1° settembre nel capoluogo lombardo è ospitata
nello stesso palazzo dove Giotto lavorò ad opere ormai purtroppo perdute, e ne
celebra l’anniversario a Milano.
Maria Paola
Forlani
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