La grande Madre
Donne, maternità e potere nell’arte e
nella cultura visiva, 1900-2015
Si è aperta a Palazzo Reale
di Milano, sotto l’insegna di Expo 2015, la mostra
La
grande Madre, fino al 15 novembre 2015. L’evento promosso dal comune di Milano, è stato ideato
e prodotto dalla Fondazione Nicola Trussardi, insieme a Palazzo Reale, curato
scientificamente dal quarantenne Massimiliano Gioni, direttore artistico della
fondazione e del New Museum di New York .
La mostra vuole raccontare la
maternità, il suo potere, il suo rifiuto, il suo sfruttamento, il suo essere
prigione, limitazione e gioia, obbligo sociale, colpa e virtù, assoggettata
alla legge e usata dalla politica: attraverso i movimenti artistici, e le opere
d’arte di oltre cento artisti e numerosi documenti e immagini provenienti dalla
storia degli ultimi cent’anni.
La mostra sceglie come punto di partenza la data simbolica del 1900 per giungere fino ai giorni nostri, ma questa periodizzazione non segue un percorso strettamente cronologico, soffermandosi invece su una serie di nuclei e snodi tematici attraverso i quali la storia dell’arte si sovrappone ad altre manifestazioni e testimonianze della cultura visiva dell’ultimo secolo.
L’immagine della maternità
che traspare da questa mostra è assai distante da quella zuccherosa alla quale
ci ha abituato la retorica visiva dei media e della pubblicità, o da quella
ancora più consolatoria della propaganda nazionalista dei regimi totalitari.
Paradossalmente, infatti,
quando si parla di madri e di maternità nel Novecento, si finisce sempre per
parlare di padri – troppo spesso padroni – e di stato, di nazioni e di
religioni. Analizzare l’iconografia della maternità nel corso del Novecento
vuol dire quindi inevitabilmente assistere a un processo di usurpazione per il
quale la rappresentazione del materno e del suo immaginario sono affidati
all’uomo e solo in rari e controversi casi alla donna.
Raccontare l’iconografia
della maternità dunque significa innanzitutto domandarsi chi ha il diritto di
decidere del proprio corpo e dei propri desideri e chi ha il diritto di
presentarli: significa cercare di capire e ridefinire la posizione
dell’individuo rispetto agli altri.
La mostra racconta il
desiderio di molte donne di non essere solo madri e nulla più. Per molte delle
artiste del primo Novecento incluse in mostra, la maternità infatti appare come
un problema al quale sfuggire, una sentenza alla quale sottrarsi, una
responsabilità da rifiutare.
L’immagine più devastante di
questo desiderio di fuga dal clima soffocante della tradizione è il disegno di
Meret Oppenheim intitolato Votivbild (Vürgeengel) [immagine votiva
(Angelo strangolatore)], nel quale una donna regge in braccio un bambino
sgozzato. Oppenheim concepisce quest’opera come talismano al quale l’artista
aveva affidato il suo desiderio di restare senza figli, così da potersi
dedicare totalmente all’arte.
La mostra sfila davanti a
veneri paleolitiche per raggiungere le”cattive ragazze” del post femminismo,
passando per la tradizione millenaria della pittura religiosa con le sue
innumerevoli scene di maternità, la storia dell’arte e della cultura hanno
spesso posto al proprio centro la figura della madre, a volte assunta a simbolo
della creatività e metafora della definizione stessa di arte. La madre e la sua
versione più familiare di “mamma” sono anche stereotipi intimamente legati
all’Italia.
Il titolo dell’esposizione, La grande Madre, deriva dallo studio di
Erich Neumann, un adepto di Jung che a sua volta partì da una raccolta
iconografica sul tema condotta da Olga Frobe-Kapteyn. La sua serie di 350
figurazioni sui possibili volti delle dee madri esposta nel 1938 a New York e ad Ascona,
centro di ricerche spiritualistiche e psicoanalitiche. I testi a cui si è
ispirato il curatore coprono comunque uno spettro più largo, toccando anche
momenti del femminismo come Germane Gree o Simonie de Beauvoir.
Qualche
decennio prima gli scritti di Sigmund Freud e le sue osservazioni sul complesso
di Edipo avevano trasformato i rapporti familiari e le relazioni tra madri e figli
in un dramma di desideri sessuali e tensioni represse che avrebbero segnato
l’intero Novecento. Queste atmosfere ritornano trasfigurate nei disegni e nelle
incisioni coeve di Alfred Kubin ed Edvard Munch. Le prime sale della
mostra alternano queste visioni
allucinate all’immagine didascalica della maternità divulgata a fine Ottocento
attraverso le fotografie dei Gertrude Käsebier e i film della
prima regista cinematografica donna Alice Guy-Blachè.
Un’importante sezione della
mostra è incentrato sulla partecipazione della donna alle avanguardie storiche
e, in particolare, ai movimenti futurista, dadaista e surrealista.
Giustapponendo il lavoro di
artiste e artisti, la mostra mette in evidenza gli aspetti più contrastanti
della modernità, analizzando le radicali trasformazioni dei ruoli sessuali che
hanno accompagnato i profondi cambiamenti economici e sociali di inizio
Novecento. Lo studio della posizione della donna all’interno del futurismo –
con opere di Benedetta, Umberto Boccioni, Giannina Censi, Valentina De
Saint-Point, Mina Loy, Filippo Tommaso Marinetti, Marisa Mori, Regina, Rosa
Rosà e altre – rivela lo scontro tra energie riformatrici e forze repressive
nell’Italia di inizio secolo.
Le sale dedicate al dadaismo
si concentrano sulla nascita del mito della donna meccanica e automatica – “la
figlia nata senza madre” come la battezza Francis Picabia –collocandola nel
panorama sociale in rapidissimo mutamento degli anni Dieci e Venti, sia in
Europa sia in America. Passando dalle macchine celibi di Marchel Duchamp,
Piccabia e Man Ray, alle bambole meccaniche di Sophie Taeuber-Arp, Emmy
Henningse, Hanna Höch, fino alle performance irriverenti della Baronessa
Elsa von Freytag-Loringhoven.
Il culto della donna nel
Surrealismo è analizzata attraverso la straordinaria presentazione di cinquanta
collage originali da La donna 100 teste di Marx Ernst, esposti accanto a opere
e documenti di André Breton, Hans Bellmer, Salvator Dalì e altri. Esplorando le
implicazioni estetiche ed etiche della fascinazione surrealista nei confronti
del femminile, la mostra porta in primo piano le opere di artiste che
abbracciano e al contempo rifiutano la retorica del surrealismo, all’interno
del quale trovarono strumenti per l’emancipazione femminile ma anche opprimenti
stereotipi sessuali. Questa sezione include capolavori e opere celebri di Leonora
Carrington, Frida Kahlo, Dora Maar, Lee Miller, Meret Oppenheim, Dorothea
Tanning, Remedios Varo, Unica Zürn e altre artiste.
L’arte di Luise Bourgeois,
presente con molti capolavori in mostra, ruota attorno alla “distruzione del
padre” – per usare il titolo di un’opera che l’artista ha scelto come riassunto
della sua intera poetica.
Castrazione ed evirazione
ritornano in molte delle sculture dell’artista, che ha più volte descritto la sua
esperienza familiare come un susseguirsi di scontri, soprusi e violenze
psicologiche. Il pantheon di Louise Bourgeois è colmo di divinità pagane
gravide e di idoli di fertilità: tra i suoi feticci abbondano soprattutto
creature androgine o accoppiate in estenuanti abbracci in cui si mescolano
senza soluzione di continuità protuberanze maschili e rotondità femminili.
Dalle opere in mostra emerge
un’immagine molteplice e complessa della madre, lontana dagli stereotipi più
frusti e rassicuranti: è il lato più oscuro, umbratile, quasi lunare della
maternità che molti degli artisti e delle artiste del Novecento hanno descritto
nelle loro opere. Come nello straordinario ciclo fotografico di Lennart Nisson
– il primo ad avere fotografato un feto in endoscopia in vivo – la maternità vista attraverso le testimonianze figurative
di cento anni di storia si trasforma in uno
spettacolo di vastità cosmica
ma immerso in un’atmosfera straniante, in cui si mescolano sentimenti opposti,
affetti profondi e rifiuti spietati.
Maria Paola Forlani
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