Per sogni e per
chimere.
Giacomo Puccini e le arti visive
Si è aperta
a Lucca nelle sale della Fondazione centro Studi Ragghianti, la mostra “Per sogni e per chimere. Giacomo Puccini e le arti”a cura di
Fabio Benzi, Paolo Bolpagni, Maria Floria Giubilei, fino al 23 settembre.
La mostra è
la prima, completa presentazione del mondo figurativo che accompagna Puccini
nel corso della sua vita. I risultati sono estremamente innovativi, assai più
vasti e modulati di quanto solitamente i curatori pensassero di riscoprire. Le
ricerche hanno portato a nuove possibilità di interpretazione della stessa
musica pucciniana evidenziando un tessuto di scambi e una dialettica assai
peculiare del musicista con i fatti artistici del proprio tempo.
Puccini non
sembra portato nella sua giovinezza toscana per i rapporti artistici. Il suo
carattere inquieto e incostante non lo induce inizialmente ad approfondire le
relazioni tra le arti: negli studi classici è pigro, non ama leggere libri, e
tantomeno s’interessa d’arte. Una vera maturazione “visiva” dovette però
avvenire a Milano, quando conobbe il suo librettista Ferdinando Fontana nel
1883 (aveva allora venticinque anni). Fontana era uno scrittore della
cosiddetta Scapigliatura milanese, e suo fratello Roberto era un pittore vicino
allo stesso movimento.
Questo
contesto scapigliato milanese (Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Luigi
Conconi, Eugenio Gignous e altri), più indotto da conoscenze incrociate che
scelte per vocazione profonda, permea tuttavia il clima delle sue prime opere,
da Le Villi, a Manon a Tosca, e agì
sull’immaginario pucciniano come corrispondenza di sentimenti espressi
attraverso un impressionismo romantico, toni sfumati ma di pregnanza veristica
mai scivolati nell’indecisione della “sensibelerie”.
Abbandonata
Milano, che non lo soddisfaceva, Puccini iniziò a gravitare su Lucca e infine
Torre del Lago (nel 1891) nella stessa provincia. Il ritorno nella nativa
Toscana, pur tenendo i logici contatti con Milano, fu l’inizio di una nuova
stagione, che portò alla composizione di Manon
(1893). Qui frequenta in maniera più assidua artisti come Edoardo Gelli e
Giovanni Muzzioli, assai diversi da quelli della Scapigliatura milanese:
esponenti di una ritrattistica alto borghese, levigata e accademica, nonché di
scene di genere alla Fortuny, oppure storiche e all’antica alla Alma-Tadema; o
ancora come Cipriano Cei, pittore di realismo borghese decisamente commerciale,
e il tardo macchiaiolo Ferruccio Pagni (che Diego Martelli inserì nel gruppo
degli “impressionisti livornesi”).
Ė una parentesi apparentemente discordante con gli indirizzi degli esordi
e, al di là della gittata dei singoli artisti, questa nuova visione di eleganza
anche formale e tecnica, forse più intimamente condivisa di quella milanese
scapigliata, aprì il mondo pucciniano alla sua propria e grande affermazione
personale di stile che condurrà il compositore alla composizione della Boème (1896) e di Tosca 1900). Probabilmente quella pittura aveva per lui anche un
valore di una scelta artistica più spontanea e autonoma, conquistata presso i
suoi conterranei.
I rapporti
con Giovanni Verga, di cui progetta di mettere in scena La lupa, contribuiscono a sottolineare gli accenti di verismo che
ancora a lungo rimarranno nella sua sensibilità, anche se trasfigurati da un
lirismo profondo e melanconico che costituisce una sua vena peculiare,
crepuscolare.
Un balzo di
qualità, una ricerca più complessa d’intellettualità nell’espressione
artistica, avviene intorno al 1900. In quel periodo Puccini aveva conosciuto
Plinio Nomellini, uno dei primi pittori in Italia ad applicare il metodo
divisionista nelle sue opere.
Questa amicizia determina certamente uno scarto
estetico in Puccini. Le sue frequentazioni si aprono ad Antonio Discovolo,
Galileo Chini, Libero Andreotti, Edoardo De Albertis, Duilio Cambellotti, Carlo
Bugatti, Paolo Troubetzkoy, Alberto Martini, determinando un evidente mutamento
del gusto e di ispirazione estetica: più ampia e più “moderna”. Il risultato
musicale è la Butterfly.
Il suo
interesse reale sembra ormai indirizzarsi a quei pittori e scultori
d’avanguardia, tra divisionismo e Liberty, ma soprattutto di aura simbolista. Ė d’altra parte il momento in cui
sembra dover collaborare con D’Annunzio: non solo perché considerato il maggior
poeta italiano del tempo, ma evidentemente anche perché portato a condividerne
la flessione decadentista (anche se la collaborazione, protratta nell’arco di
molti anni, non vedrà mai una conclusione.
Dall’amicizia
con Nomellini, discende la conoscenza tra il compositore e Galileo Chini, che
rivestirà un ruolo forse maggiore di Nomellini per l’opera di Puccini. Pure
l’amicizia per il <<grande artista>> Gaetano Previati aveva il
valore di un’apertura avanguardistica verso dimensioni non più eminentemente
“realistiche” dell’espressione, ma in cui il lirismo si tende in un simbolismo
dalle linee innervate al limite dell’espressionismo, in collocazioni spirituali
notturne e sonorità oniriche.
Fu comunque
con Galileo Chini che si creò un sodalizio fondamentale, che incise anche direttamente
e significativamente sull’attività pucciniana, al punto che l’artista divenne
il referente principale per la messa in scena delle opere di Puccini, a partire
dal 1918.
Ciò che
sedusse Puccini fu indubbiamente il materiale eccezionale che Chini aveva
riportato dall’Oriente, dove tra il 1911 e il 1913 aveva affrescato il salone
del trono del Palazzo reale di Bangkog.
Quello di Chini è un Oriente
interiorizzato, reinventato, non privo di connotazioni acutamente
antropomorfiche, intellettuali; era la medesima direzione intrapresa da Puccini
con la sua musica aperta a innovazioni tonali extraeuropee. Chini fu coinvolto
nel Trittico (1918) e infine nella
meravigliosa messa in scena di Turandot (1924),
l’ultima e più sperimentale opera del musicista.
Questa
scelta “alta” di collaborazione aveva un valore consapevole di trasformazione
dell’opera lirica a tutto tondo, che apriva il teatro d’opera italiano verso
una direzione di esperimento artistico “totale”.
Maria Paola
Forlani
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