De Chirico e la Metafisica
Palazzo Blu a Pisa ospita una grande mostra su Giorgio De Chirico (Volo, 1888 – Roma, 1987): intitolata De Chirico e la Metafisica, la mostra aperta fino al 9 maggio 2021 è a cura di Saretto Cincinelli e Lorenzo Canova, e ripercorre la ricerca, in continua evoluzione, dell’artista, padre della Metafisica. De Chirico, dopo aver dato i natali alla Metafisica nel 1910, è tornato costantemente ad alimentarsi alla sua fonte, dando vita, in periodi diversi, alle stagioni riconosciutogli di precursore del Surrealismo: un ruolo prestigioso ma decisamente circoscritto e riduttivo, che mira a riconoscere solo una parte ristretta della sua produzione.
Ma
la mostra di Pisa intende raccontare l’intera carriera di De Chirico
indagandone ogni aspetto.
Uno degli elementi principali del progetto è la scoperta della collezione personale dell’artista, dei “De Chirico di De Chirico” che sono il fulcro di questa mostra, composta soprattutto da un grande numero di opere provenienti da la Galleria Nazionale di Roma, donate nel 1987 dalla moglie del pittore, e da La Fondazione Nazionale Giorgio e Isa De Chirico. Grazie, inoltre, al supporto di istituzioni nazionali d’arte moderna come la Pinacoteca di Brera e il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (MART), il progetto presenta a Palazzo Blu una serie di noti capolavori dell’artista.
Il percorso segue un iter cronologico che attraversa il lavoro di De Chirico in ogni suo sviluppo, fase e nodi tematici: si va pertanto dalle prime opere “böckliniane” della fine del primo decennio del Novecento agli anni Dieci della grande pittura Metafisica; dai capolavori del periodo “classico” degli anni Trenta, alle ricerche sulla pittura dei grandi maestri del passato riscontrabili nelle nature morte, nei nudi e negli autoritratti, realizzati tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, giungendo all’ultima, luminosa fase neometafisica che recentemente ha riscosso un grande interesse internazionale.
De Chirico immagina vedute di città antiche che si sovrappongono a visioni di città moderne riprese da luoghi di vita vissuta, prima a Volos e Atene, poi Monaco di Baviera, Milano, Firenze, Torino, Parigi, Ferrara, New York, Venezia, Roma. Sono luoghi in cui lo spazio pubblico disabitato dall’uomo viene popolato da oggetti (frammenti, rovine, archi, portici, angoli di strade, muri, edifici, torri, ciminiere, treni, statue, manichini) che estraniati dal loro abituale contesto emergono con tutta la loro forza iconica diventando irreali, misteriosi, enigmatici. Un esempio potente lo si trova nel rapporto tra l’uomo e la realtà.
Il mondo, attraverso la metafora della città di Ferrara, è un insieme di cose dominate da una fatalità illogica, un assurdo mistero a guardia del quale stanno controllori severi che solo l’intuizione poetica può penetrare.
La mostra, con l’intento di ribadire il superamento dell’idea di un De Chirico geniale solo nel breve periodo che va dal 1910 al 1923, vuole rileggere l’intero sviluppo della sua lunga ricerca attraverso le sale di una sorta di museo ideale, che dagli esordi classico-romantici, ispirati da Böcklin e Kliger, conduce alla pittura Metafisica, e dal periodo “neo-barocco” del dopoguerra, anche il periodo metafisico assume un significato più organico rispetto alla carriera e diviene perfettamente coerente parlare, come ha ripetutamente fatto Maurizio Calvasi, di una “Metafisica continua”.
In tale contesto si colloca il grande interesse che, a partire dagli anni Sessanta, l’opera di De Chirico ha riscosso nelle giovani generazioni di artisti. Le citazioni e gli omaggi che, in modi diversi, autori del calibro di Giulio Paolini e Andy Warhol hanno dedicato all’artista sembrano avvalorare una nuova e più concettuale visione dell’intera sua opera, riconoscendo nell’autoreferenzialità della sua ricerca una sottaciuta e rigorosa componente programmatica e un premeditato disegno di poetica.
La mostra, infine, vuole anche rimettere in luce quella che oggi possiamo considerare la disseminazine della visione metafisica che, inventata da De Chirico nel 1910, ha poi portato fioriture internazionali che ritroviamo nelle diramazioni di grandi artisti come Carrà, Savinio e de Pisis, ma anche Sironi e Martini. Questi artisti, presenti in mostra grazie ad alcuni prestiti, più che formare una scuola o un movimento, hanno saputo recepire e rielaborare in modo personale la potente influenza di De Chirico che, alla metà degli anni Dieci, aveva già prodotto dei capolavori fondamentali per l’arte del Novecento, come ad esempio le piazze d’Italia, Il Canto d’amore (1914) o Il Vacinatore (1915).
In De Chirico la grafica è gravida di perfezione, come un rigore morale, inclinazione dell’artista verso un movimento di perenne insoddisfazione, un lavorio senza soste, una elaborazione costante fatta di assalti minuziosi che portano inevitabilmente verso “la felicità”, la constatazione di una raggiunta padronanza. E questo è il fine eudemonistico dell’arte, tutto interno alla sua stessa pratica, all’artigianale e nello stesso tempo mentale elaborazione dell’immagine, che contiene la memoria di Piero della Francesca, Raffaello, Rubens, Velázquez, Puvis De Chavannes, Böcklin (Lotta dei centauri, 1909), Klinger. Perché il segno è portatore di una sua storia, di una essenzialità che soltanto l’artista può nuovamente raggiungere, ogni volta, anzi volta per volta, senza mai potersi abbandonare ad un risultato definitivo. La figurazione artistica si può raggiungere soltanto avendo ben chiara la differenza tra la capacità di notare come visibile e quella di far emergere l’invisibile.
M.P.F
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