giovedì 22 ottobre 2020

Vittorio Corcos

 

Vittorio Corcos.


Ritratti e sogni.

Nella Parigi di fine Ottocento, la Villa Lumiére che incantava artisti e intellettuali, per conquistare il passaporto di “pittore di successo” bisognava passare dallo studio del mercante ed editore Adolphe Groupil. Ci arrivò Giovanni Boldini, diventando il ritrattista delle donne più affascinanti della Bella Époque. E altrettanto fece nel 1880 Vittorio Corcos, livornese classe 1859, che contese al collega ferrarese una clientela di dame sofisticate e bellissime disposte a posare per lui. Entrambi provenivano dalla provincia italiana, scalpitanti di lasciarsi alle spalle le polveri di antichi maestri e desiderosi di buttarsi nel vortice di novità che prometteva la capitale francese. Ci arrivarono e frequentarono gli stessi salotti, in primis quello del pittore Giuseppe De Nittis.


Ma l’analogia tra i due finisce qui perché Boldini si lascerà travolgere dall’ efervescenza parigina e delle sue donne che sprigionano una forza dirompente, sensuale e ammiccante, mentre Corcos tornerà in Italia, nel mondo dorato dell’alta borghesia toscana, ed esprimerà una bellezza femminile che si racchiude in una dimensione interiore, intima e composta. Nei suoi dipinti c’è poco posto per una sensualità esibita in incarnati rosei: tutto si concentra in sguardi profondi ed enigmatici, in pose precise che rivelano l’animo e i sentimenti dei suoi personaggi.


Lo si può constatare alla mostra “Vittorio Corcos. Ritratti e sogni” aperta fino al 14 febbraio a Bologna nella sede di Palazzo Pallavicini.


Nel percorso, curato da Carlo Sisi, compaiono una quarantina di opere, provenienti da collezioni private e da importanti musei pubblici quali la Galleria d’Arte Moderna di Roma o gli Uffizi, presentate in sei sezioni tematiche: La famiglia e gli amici. Nel salotto della “gentile ignota”; Gli anni di Parigi; il primato del ritratto; Luce mediterranea; Stati d’animo.



Uomini illustri, giovanotti che amoreggiano con timide ragazze, ma anche donne affascinate che trasmettono una sottile inquietudine popolano l’universo di Corcos che aderisce al naturalismo, al verismo, e solo in parte viene scombussolato da temi saturnini.


È lo specchio della sua biografia. Nel 1886 l’artista lascierà Parigi per rientrare a Livorno, quindi a Firenze dove sposerà Emma Ciabatti, vedova Rotigliano, che lo introdurrà nella scena culturale e intellettuale del tempo, tanto che nel salotto e nell’atelier di Corcos siederanno Giovanni Pascoli, Giosuè Carducci, Pietro Mascagni. E ancora donne aristocratiche e artiste quali Isadora Duncan e la principessa Maria Josè.



Per Corcos arte fa rima con modernità, e tanto basta a conquistare le corti europee: nel 1904 ritrae l’imperatore Guglielmo II, nel 1922 la regina Elena di Savoia. Dalla sua terra la Toscana, prenderà una luminosità che nei suoi dipinti si traduce in una perenne primavera.


Solo a tratti Corcos lascia emergere un lato più oscuro o un atteggiamento più sfumato, come nell’opera “Sogni”, manifesto della mostra. È il ritratto di Elena Vecchi, figlia dello scrittore Jack La Bolina, che venne presentato a Firenze nel 1896 suscitando un “chiasso indiavolato” perché, come riportarono le cronache, quella ragazza era stata ripresa in maniera troppo esplicita intenta a sognare <<ciò di cui non dovrebbero sognare le ragazze>>.


M.P.F.

mercoledì 21 ottobre 2020

LEA VERGINE

 

Lea Vergine ed Enzo Mari, la copia dell’arte rapita dal covid.


L’arte “è importante perché non è necessaria. E il superfluo è quello che ci serve per essere un po’ felici” spiegava sicura la grande Lea Vergine con quella voce profonda che sembrava scolpita dal fumo delle sue mille sigarette. E aggiungeva sarcastica: non ti aiuta a risolvere i problemi della vita, ma è un rifugio, in questo senso è un po’ come una benzodiadepina”.


Un lavoro lungo sessant’anni alla ricerca dei perché dell’arte, sempre profonda, eversiva, tagliente, aveva fatto di lei una delle voci più autorevoli, intelligenti e innovative nel campo della critica.

Il coronavirus unito ad altri malanni se l’è portata via in un soffio, una manciata di ore dopo Enzo Mari, l’amore della vita. Una copia dell’arte fatta di opposti (“Siamo agli antipodi e la nostra storia ha funzionato in modo misterioso” confessava lei qualche anno fa in una bella intervista a Repubblica) e forse proprio per questo unitissima pur nella sfida e nel conflitto continuo.


Origini borghesi e partenopee lei, modesta famiglia piemontese lui, Enzo Mari e la bellissima Lea Vergine (ma il vero nome era Buoncristiano) si erano conosciuti a Napoli su invito di Giulio Carlo Argan. Lavorarono fianco a fianco per un anno alla creazione di una rivista d’avanguardia, la scintilla scoppiò ad incarico concluso. Un rapporto da amanti – entrambi si erano sposati giovanissimi – che costò loro non poche difficoltà nell’Italia pre divorzio degli anni Sessanta e persino l’arresto per concubinaggio. A Milano, dove si erano spostati a vivere in zona Magenta e dove è nata la figlia Meta, avevano amici d’eccellenza, da Gillo Dorfles a Ettore Sottsass (“Una persona straordinaria al di là di quello che ha fatto” lo ricordava lei) da Alessandro Mendini a Silvana Otteri, Fabrizio Dentice, Camilla Cederna.


<<Come si chiude un grande amore>> dice Luciana Castellina e ripensa agli anni d’esordio, frequentando la redazione di via Tomacelli a Roma, vicina a via del Corso, dove si riunivano Luigi Pintor, Valentino Parlato, Rossana Rossanda. Le sue prime recensioni alle mostre uscirono accanto ai pezzi del critico letterario Franco Fortini e a quelli che Umberto Eco firmava con lo pseudonimo di Dedalus.


Con Castellina e Rossanda (<<una di quelle rare persone che ti segnano>> ripeteva spesso) s’era creata un’amicizia autentica, fatta di militanza e femminismo, <<ma orfana di fantasmi e luoghi comuni>> precisava Lea, alle donne dell’arte le regine del Novecento nascoste dalla stanza ingombrante dei loro mariti egoisti, dedicò una mostra epocale, finita sui manuali dell’università, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1914, curata per Palazzo Reale a Milano nel 1980 e poi trasferita a Roma e a Stoccolma.


Erano gli anni tumultuosi e complicati della contestazione e del fervore politico e mentre Enzo disegnava gli oggetti “utili” che gli valsero una collezione di compassi d’oro, lei si fece notare per gli studi sulla fisicità e l’azione performativa nell’arte confluiti nel 1974 in un saggio che ha fatto epoca “Il corpo come linguaggio” (Preraro editore).


Elegantissima e fascinosa, raccontava con fastidio di aver lottato per una vita, soprattutto nella sua Napoli, contro gli stereotipi sessisti: “Mai che ti riconoscessero quello che tu eri o facevi – diceva- e tutta questa esteriorità è riduttiva, umiliante, offensiva”. Eppure l’autorità nel mondo dell’arte, non le è mai mancata, i sui testi da “L’arte in trincea. Lessico delle tendenze artistiche 1960-1990”, pubblicato da Skira nel 1996 a Body art e storie simili (2000 Skira) a Interrotti transiti (2001 Rizzoli) fino a L’arte non è facenda per bene (2016 Rizzoli) l’autobiografia in cui racconta la sua vita controcorrente, fatta di incontri straordinari, grandi amori, battaglie e utopie, sono stati tutti molto importanti e seguiti. Come le tante mostre che ha firmato da curatrice, chiamata anche nel 1990 a fare il commissario della Biennale.


“Scrivere era quello che mi piaceva di più”, raccontava, per poi aggiungere con quel tono mordace che la caratterizzava, “perché gli artisti sono noiosi, ignoranti, pieni di sé…mi riservavo un certo distacco. Tant’è, con Enzo Mari Lea Vergine condivideva la critica feroce ai tempi attuali, all’ignoranza “devastante” dell’oggi, un tempo al quale contestava “la mancanza di dignità, di decenza, di vergogna”. E bollava decisa anche il mutamento dei ruoli e le trasformazioni del mercato dell’arte (oggi ci sono curatori manager, i critici sono rarissimi”).

La morte li ha colti praticamente insieme, 88 anni lui, 82 lei, ammantando di struggente romanticismo la fine di un’unione lunga oltre 50 anni. Restano le opere. E quelle di Lea Vergine, come sottolinea nel ricordo anche il ministro della cultura Franceschini, lasciano un segno.


M.P.F.

martedì 13 ottobre 2020

Dante gli occhi della mente. Le arti al tempo dell'esilio

 


“Dante gli occhi e la mente. Le arti al tempo dell’esilio”

Roma, Arezzo, Verona, Padova, Bologna, Lucca, Pisa, Ravenna, sono alcune delle città che Dante ebbe occasione di visitare in questi anni: quali opere ebbe occasione di vedere? Seguendo le peregrinazioni del poeta, la mostra ravennate intende ripercorrere un ideale itinerario di immagini, una sorta di mappa delle sue conoscenze artistiche.


Nelle opere di Dante e in particolare nella Commedia, infatti, la forza delle immagini e l’esperienza visiva ricoprono un ruolo centrale.

Per la ricostruzione del ‘viaggio’ dantesco attraverso opere d’arte riconducibili ai luoghi dell’esilio, è necessario partire da Firenze, dove tutto ha inizio.


L’origine fiorentina del poeta gli permise, infatti, di conoscere l’incalzante rivoluzione artistica nella sua città natale, che troverà proprio con Giotto, nella scoperta del vero e nella certezza dello spazio misurabile, una dimensione universale e nazionale, così come lo stesso Dante sperimentava in quegli anni con la sua ricerca del “volgare illustre” quale lingua per l’intera penisola italiana.


Il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt dice: “La collaborazione istituzionale tra gli Uffizi e Ravenna, in casi di progetti importanti come questo, pone in primo piano il territorio e la sua storia, ne esalta i valori, promuove la conoscenza e, non ultimo, diventa un ingranaggio fondamentale della ripresa dopo la pandemia.


Il volgare fiorentino è diventata lingua letteraria nazionale grazie a Dante, Giotto ha diffuso in tutta Italia una forma espressiva nuova e radicale, alla base di ogni sviluppo artistico: solo riallacciandoci a quegli esempi coraggiosi di apertura possiamo fare del nostro patrimonio una forza sociale per l’intero Paese”.


Da Firenze a Ravenna per celebrare l’Alighieri: gli Uffizi hanno prestato un celebre capolavoro di Giotto per la mostra Dante gli occhi e la mente. Le arti al tempo dell’esilio “si tratta del Polittico di Badia”.


Il grande museo fiorentino, nell’ambito di un accordo di collaborazione culturale con la città dov’è sepolto il Sommo Poeta, concede anche il “San Francesco riceve le stimmate”, prezioso dipinto del Maestro della Croce 434 e un’opera del 1854 di Annibale Gatti “Dante in esilio”.



Queste opere, custodite a Firenze nella Galleria degli uffizi, sono state concesse in prestito dal museo in occasione del Settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri per il progetto espositivo ‘Dante’.


Gli occhi e la mente: si tratta di tre mostre che vogliono omaggiare il Sommo Poeta attraverso differenti prospettive organizzate dall’Assessorato alla cultura e del MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna.



A testimonianza del profondo legame tra Firenze, città natale del sommo poeta, e Ravenna, la città che fu il suo “ultimo rifugio” e che ne conserva le spoglie, La Galleria degli Uffizi e il Comune di Ravenna hanno infatti firmato un accordo di collaborazione pluriennale: nel 2021 i primi prestiti del museo fiorentino della mostra Le Arti al tempo dell’esilio.



Altri seguiranno con cadenza annuale, in occasione di ogni settembre dantesco, cui si aggiungerà il deposito a lungo termine di alcune opere che saranno parte integrante del progetto Casa Dante.

La mostra Le Arti al tempo dell’esilio, curata da Massimo Medica, direttore dei Musei civici d’Arte Antica di Bologna, rimarrà aperta fino al 4 luglio 2021 nella chiesa di San Romualdo a Ravenna.

Il Polittico di Badia di Giotto, datato intorno al 1300, è originariamente proveniente dall’altare maggiore della Badia di Firenze, una delle chiese più importanti degli Alighieri.


Nell’ideale percorso affrontato dalla mostra, l’opera, sicuramente nota a Dante, è inserita nella sezione della mostra dedicata a Firenze insieme ad un altro prestigioso prestito, sempre della Galleria degli Uffizi: un dipinto a tempera e oro su tavola del maestro della Croce 34, San Francesco riceve le stimmate, databile intorno al 1250.


Le opere presenti in questa prima sezione costituiscono la necessaria premessa per affrontare i temi dell’esposizione, incentrata soprattutto sul periodo dell’esilio del poeta, iniziato come noto nel 1302.

M.P.F.

lunedì 12 ottobre 2020

Il ritratto dell'amore

 

Raffaello


Il ritratto dell’amore

<<Fu Raffaello persona molto amorosa et affezionata alle donne, e continuando i diletti carnali, egli fu dagli amici, forse più che non gli conveniva, rispettato e compiaciuto>>

Con questo celebre passo Vasari sintetizza un atteggiamento nei confronti del genere femminile che alimenterà leggende e racconti sulla personalità del Sanzio, al punto che si finirà addirittura per attribuire la causa della sua morte a un eccesso amoroso. La sensualità delle figure muliebri di Raffaello è una costante di tutta la sua produzione artistica e si ritrova anche in un’esigua, ma significativa raccolta di versi da cui è tratto il passo di questa terzina, tolta da una delle sue cinque poesie: <<Quando fu dolce el giogo e la catena / De’ tuoi candidi bracci al col mio vol(ti), che sciogliendomi io sento mortal pen(a) >>.

Questo slancio poetico, al di là della qualità petrarchesca dei versi appena citati, rivela una sensibilità identica a quella che attraversa alcuni capolavori del maestro, fra i quali i più celebri sono tradizionalmente riferiti all’unico amore che il mito di Raffaello ci abbia consegnato. Per la verità, sappiamo che nella vita del Sanzio ci fu certamente anche un’altra donna. È ancora una volta il solito bene informato Giorgio Vasari che, ricorda come <<avendo Raffaello stretto amicizia con il cardinale Bibbiena, costui lo tormentò per anni per dargli moglie e così accettò per donna una nipote di detto cardinale>>. Dalle parole dell’ecclesiastico aretino, si capisce che l’artista si dispone benevolmente nei confronti di Maria Dovizi, la nipote del porporato, perché, verosimilmente, il rapporto con lei avrebbe facilitato l’ingresso dell’artista nella nobiltà romana. Tuttavia è chiaro che non doveva essere questo il leggendario amore di Raffaello, ossia quella donna che la tradizione ci ha consegnato come “la fornarina”.


Di Margherita Luti, figlia di un fornaio senese, però l’unica notizia certa riguarda una notula pubblicata nel 1897 da Antonio Valeri che riferisce di una tale <<Madama Margherita vedoa figliola del quodam Francesco Luti di Siena>> che, il 18 agosto 1520, venne ospitata nel conservatorio del monastero romano di Santa Apollonia in Trastevere. Il che diede corpo alla leggenda che “la Fornarina” – ammesso che forse Margherita Luti – avrebbe preso i voti dopo la scomparsa di Raffaello. Solo che il fatto stesso che la donna venga definita <<vedoa>> pone seri dubbi sulla possibilità che si tratti della donna di Raffaello; a meno di non supporre un matrimonio tenuto segreto per non dispiacere il cardinal Bibbiena e sfruttare così i vantaggi sociali che potevano derivare dal legame con Maria Dovizi. Certo è che l’dentità dei personaggi ritratti nei due capolavori noti come
La velata, conservata a palazzo Pitti a Firenze, e la cosiddetta Fornarina di palazzo Barberini a Roma che si riferiscono, per tradizione, a Margherita Luti, è del tutto aleatoria. Del resto – a ben guardare – le due donne non si somigliano neppure, ma se la prima è assai vicina alla modella che prestò il volto alla Madonna Sistina (il che lascia presupporre un forte interesse per la donna), della seconda non si potrà negare una sensualità e una carica erotica che sono davvero prorompenti e da riferirsi, incontestabilmente, alla sfera sentimentale di Raffaello che appone la sua firma sul ricco bracciale “alla schiava” indossato dalla “fornarina”. Schiava d’amore, ovviamente.

Un aspetto che è stato da poco sottolineato nella recente mostra per il cinquecentenario della scomparsa del grande artista, grazie all’accostamento dell’opera con la bella
Venere accovacciata degli Uffizi (I secolo d.C.) che esibisce in modo sensuale il bracciale che fascia l’omero destro. In definitiva, però, al di là dell’identità delle due donne, che rimane comunque un mistero, i due capolavori si possono considerare un doppio “ritratto dell’amore” che rappresenta gli ideali erotici del grande maestro.

Quasi si trattasse delle immagini dei due concetti speculari dell’eterno femminino: la Venus Urania e la Venus pandemones; ossia, rispettivamente immagine di amore spirituale (
La Fornarina) e carnale (La velata).

 

M.P.F.

sabato 10 ottobre 2020

Lee Krasner. Living colors

 


Lee Krasner. Living Colors.

Nel 1942 in American and French paintings, una mostra alla McMillen gallery di New York, un quadro di Lee Krasner (1908 – 1984) è esposto tra un Matisse e un Braque. La donna conosce ed ammira tutti gli artisti americani che sono stati invitati, tranne uno: Jackson Pollock. Pochi mesi dopo andranno a vivere insieme, al 46 East dell’8th Street:<<Ho resistito, in un primo momento, ma devo ammettere di aver ceduto quasi subito. Ero terribilmente attratta da Jackson e m’innamorai di lui – fisicamente, mentalmente – nel vero senso della parola>>.


Tra gli espressionisti astratti della prima generazione, Lee Krasner è la sola a non avere una cifra stilistica unica, immediatamente riconoscibile come Pollock, Rothko, Kline, De Kooning, Clyfford Still e Barnett Newman. Non ci crede, pensa che si tratti di un modo di fare arte troppo rigido. Così, per più di quarant’anni, lavora per serie e continua a reinventare senza sosta la sua pittura, esplorando sempre nuove strade: vuole che ogni suo dipinto descriva fino in fondo quel che la sua anima, il suo cuore e la sua mente provano in quel momento, senza naturalmente dimenticare quel che ha messo sulla tela in precedenza:

<< Non mi libero mai del passato. Il passato fa parte del presente, che diventa parte del futuro>>.

Nonostante tutti la conoscano e molti apprezzino la sua arte, Lee Krasner è protagonista della sua prima retrospettiva a New York solo nel 1973. Il mese prima ha compiuto 65 anni: il Whitney museum espone 18 lavori di grande formato realizzati nel corso degli ultimi vent’anni. Quasi mezzo secolo dopo quella mostra, fino al 10 gennaio 2021 il Guggenheim di Bilbao mette in scena Lee Krasner. Living colors, una rassegna che ripercorre la lunga carriera e variegata produzione dell’artista.


A partire dai primi autoritratti della fine degli anni Venti, compreso quello del 1928 nel quale cita apertamente Van Gogh, ma colloca la scena in un bosco: lo dipinge, racconta molti anni dopo, appendendo uno specchio al ramo di un albero. In un emozionante rincorrersi dei capolavori dell’artista, la retrospettiva mette in scena, accanto alle tele monumentali degli anni Sessanta e Settanta, anche le Little images della fine degli anni Quaranta e i sofisticati, grandi collage degli anni Cinquanta.

Aveva un carattere forte e ribelle: Lee Krasner ha passato tutta la vita in prima linea, per essere riconosciuta come una pioniera dell’Espressionismo astratto in anni in cui per una donna non era semplice essere accettata, ma anche per far dimenticare di essere la moglie, e poi la vedova, di un genio come Pollock, il rivoluzionario cui la rivista Life, nel 1949, aveva dedicato un articolo dal titolo significativo: È il più grande pittore vivente negli Stati Uniti?>>. Ma le sue battaglie Lee Krasner le combatteva giorno per giorno: il 15 aprile 1940 partecipò con altri artisti a una protesta davanti al Musum of modern art, che non presentava alcuna attenzione all’arte astratta. Vennero distribuiti dei volantini, disegnati da Ad Reinhardt, sui quali campeggiava una domanda apertamente provocatoria: <<Quanto è moderno il Museo d’arte moderna? >>. Pochi mesi dopo cacciò dal suo studio lo scrittore Tennessee Williams e il giovane pittore Fritz Bultman, protagonisti di un’accesa discussione sui versi di una poesia di Rimbaud tracciati su una parete: Hanno litigato così tanto che li ho messi alla porta. Non mi piaceva quel che stavano dicendo così ho detto: fuori!>>.  Più di trent’anni dopo, Lee Krasner, che considerava il movimento femminista come <<la più importante rivoluzione del nostro tempo>>, in una lunga intervista pubblicata su Vogue disse chiaro e tondo quel che pensava su un argomento che le stava particolarmente a cuore: <<Sono un artista, non una donna artista, un artista americana. Un artista>>.

Nell’autunno del 1945 Lee e Jackson si trasferiscono a Springs, Long Island, in una fattoria che hanno acquistato con l’aiuto di Peggy Guggenheim. L’immersione nella natura porta a un deciso cambiamento nell’ iconografia dei quadri della Kraner: nascono le Little images, piccole ma vibranti astrazioni. È di questi tempi anche il Mosaic table che l’artista realizza utilizzando la vecchia ruota di un carro trovato nella fattoria, incorporando nella pittura frammenti di gioielli, chiavi, monete e pezzi di vetro. Nel 1951 la sua prima personale da Betty Parsons ottiene buone critiche, ma nessuna opera trova un acquirente. Quattro anni dopo, per una personale alla Stable gallery, fondata nel 1953 da Eleanor Ward, userà frammenti di quei lavori in una serie di grandi collage nei quali mette anche suoi disegni sminuzzati, carta di giornale, foto e perfino brandelli di diversi disegni scartati da Pollok, rifinendo il tutto con colpi di pittura: Bald eagle e Bird talk, entrambe del 1955, sono le opere più famose di questa serie. Nel frattempo, nel 1952, Harold Rosemberg utilizza per la prima volta utilizza, in un articolo pubblicato su Art News, la definizione di Action painting per quella pittura che fece di New York la capitale mondiale dell’arte contemporanea. Non cita il nome di un solo artista, ma nel gruppo c’è anche lei, Lee Krasner, e le parole del critico americano descrivono in modo puntuale anche la sua poetica: << A un certo punto la tela apparve come un’arena dove agire, invece di uno spazio in cui riprodurre, ridisegnare, analizzare o esprimere un oggetto, reale o immaginario. Chiamate questa pittura astratta, o espressionista: quel che conta è il particolare movente a eliminare l’oggetto>>. Lee Krasner accusò Rosenberg di essersi appropriato, senza neppure nominarlo, di alcuni concetti di Pollock.


Nell’estate del 1956 dipinge Prophecy, uno dei suoi quadri più famosi: con le sue forme sinuose e carnose è diverso da tutto quel che ha messo sulla tela fino a quel momento. È un periodo complicato del suo rapporto con Pollock, parte per Parigi, da sola. Il 12 agosto riceve una telefonata: Jackson è morto in un incidente d’auto. Torna immediatamente a casa e realizza quadri che, come Prophecy, sembrano animati da oscure forze psicologiche. A chi le chiede come ha fatto a dipingere anche nei mesi del lutto risponde sicura:<< La pittura non è separata dalla vita. È la stessa cosa. È come domandare: voglio vivere? La mia risposta è sì. Così dipingo>>. Si appropria dello studio di Pollok e inizia a produrre dipinti di grande formato, i Night jurneys, la Primary series, le Eleven ways e, nel 1971, quel capolavoro che è Polingenenis.


M.P.F.

Divine Avanguardie

 Divine Avanguardie.


La donna in Russia.

Dalle icone a Malevich e alle amazzoni dell’avanguardia


Zarine, imperatrici, sante, contadine, artiste: è una storia tutta al femminile quella di Divine Avanguardie. La donna in Russia. Dalle icone a Malevich e alle amazzoni dell’avanguardia. Aperta a Milano nella sede di Palazzo Reale fino al 05 aprile 2021, la grande mostra è stata realizzata con la collaborazione dell’Ermitage di San Pietroburgo, con 100 capolavori del museo russo, molti dei quali mai esposti prima in Italia. Fulcro del progetto curato da Evgenia Petrova e Joseph Kibitsky è l’evoluzione della figura femminile in Russia dal Rinascimento alla Rivoluzione dell’Ottocento e oltre: un viaggio che intreccia le trasformazioni della società e gli sviluppi dell’arte spaziando  tra generi, stili e linguaggi artistici, dalle icone sacre alla scultura, dalla pittura modernista alle opere grafiche e a preziose porcellane d’epoca. In primo piano, i lavori dei più celebri protagonisti dell’arte russa, come Vasili Kandinskij, Kazimir Malevic e Marc Chagall.


Due macro sezioni scandiscano il percorso espositivo. La prima alle donne come soggetti dell’arte e muse ispiratrici, si fa specchio delle vicende e dei cambiamenti socio-culturali che hanno segnato il passato della Russia. Si rivivono, così, da vicino intellettuali raffinate e donne di potere come Caterina la Grande, senza la quale l’Ermitage non sarebbe mai nato, ma anche sante e madonne, madri, mogli e serve della gleba, ciascuna portatrice di un’immagine e di una storia. La mostra ripercorre le vicende delle femministe russe nella seconda metà dell’Ottocento, l’apertura dell’istruzione alle donne, corsi d’arte compresi, fino all’emancipazione all’alba dell’Unione Sovietica.


Qui, nella realtà come nel racconto della mostra, inizia un nuovo capitolo: quello delle donne artiste, che finalmente prendono in mano tele e pennelli per descrivere il mondo dal proprio punto di vista e agire sulla realtà. Natalia Goncharova, Olga Rozanova, Zinaida Serebrjakova, Ljubbova Popova sono quelle che il poeta cubo-futurista Benedikt Livśic definì le “amazzoni” dell’avanguardia, autentiche “cavallerizze scite” capaci di rompere con gli stereotipi culturali e con le convenzioni estetiche del passato per fondare l’arte della Rivoluzione. Il tramonto della ideologia non ha scalfito la potenza delle loro creazioni: i capolavori raggisti, neoprimitivisti, suprematisti,, costruttivisti, cubo-futuristi cui hanno dato vita appaiono oggi come potenti contributi alla stagione delle avanguardie europee.


M.P.F: