mercoledì 21 ottobre 2020

LEA VERGINE

 

Lea Vergine ed Enzo Mari, la copia dell’arte rapita dal covid.


L’arte “è importante perché non è necessaria. E il superfluo è quello che ci serve per essere un po’ felici” spiegava sicura la grande Lea Vergine con quella voce profonda che sembrava scolpita dal fumo delle sue mille sigarette. E aggiungeva sarcastica: non ti aiuta a risolvere i problemi della vita, ma è un rifugio, in questo senso è un po’ come una benzodiadepina”.


Un lavoro lungo sessant’anni alla ricerca dei perché dell’arte, sempre profonda, eversiva, tagliente, aveva fatto di lei una delle voci più autorevoli, intelligenti e innovative nel campo della critica.

Il coronavirus unito ad altri malanni se l’è portata via in un soffio, una manciata di ore dopo Enzo Mari, l’amore della vita. Una copia dell’arte fatta di opposti (“Siamo agli antipodi e la nostra storia ha funzionato in modo misterioso” confessava lei qualche anno fa in una bella intervista a Repubblica) e forse proprio per questo unitissima pur nella sfida e nel conflitto continuo.


Origini borghesi e partenopee lei, modesta famiglia piemontese lui, Enzo Mari e la bellissima Lea Vergine (ma il vero nome era Buoncristiano) si erano conosciuti a Napoli su invito di Giulio Carlo Argan. Lavorarono fianco a fianco per un anno alla creazione di una rivista d’avanguardia, la scintilla scoppiò ad incarico concluso. Un rapporto da amanti – entrambi si erano sposati giovanissimi – che costò loro non poche difficoltà nell’Italia pre divorzio degli anni Sessanta e persino l’arresto per concubinaggio. A Milano, dove si erano spostati a vivere in zona Magenta e dove è nata la figlia Meta, avevano amici d’eccellenza, da Gillo Dorfles a Ettore Sottsass (“Una persona straordinaria al di là di quello che ha fatto” lo ricordava lei) da Alessandro Mendini a Silvana Otteri, Fabrizio Dentice, Camilla Cederna.


<<Come si chiude un grande amore>> dice Luciana Castellina e ripensa agli anni d’esordio, frequentando la redazione di via Tomacelli a Roma, vicina a via del Corso, dove si riunivano Luigi Pintor, Valentino Parlato, Rossana Rossanda. Le sue prime recensioni alle mostre uscirono accanto ai pezzi del critico letterario Franco Fortini e a quelli che Umberto Eco firmava con lo pseudonimo di Dedalus.


Con Castellina e Rossanda (<<una di quelle rare persone che ti segnano>> ripeteva spesso) s’era creata un’amicizia autentica, fatta di militanza e femminismo, <<ma orfana di fantasmi e luoghi comuni>> precisava Lea, alle donne dell’arte le regine del Novecento nascoste dalla stanza ingombrante dei loro mariti egoisti, dedicò una mostra epocale, finita sui manuali dell’università, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1914, curata per Palazzo Reale a Milano nel 1980 e poi trasferita a Roma e a Stoccolma.


Erano gli anni tumultuosi e complicati della contestazione e del fervore politico e mentre Enzo disegnava gli oggetti “utili” che gli valsero una collezione di compassi d’oro, lei si fece notare per gli studi sulla fisicità e l’azione performativa nell’arte confluiti nel 1974 in un saggio che ha fatto epoca “Il corpo come linguaggio” (Preraro editore).


Elegantissima e fascinosa, raccontava con fastidio di aver lottato per una vita, soprattutto nella sua Napoli, contro gli stereotipi sessisti: “Mai che ti riconoscessero quello che tu eri o facevi – diceva- e tutta questa esteriorità è riduttiva, umiliante, offensiva”. Eppure l’autorità nel mondo dell’arte, non le è mai mancata, i sui testi da “L’arte in trincea. Lessico delle tendenze artistiche 1960-1990”, pubblicato da Skira nel 1996 a Body art e storie simili (2000 Skira) a Interrotti transiti (2001 Rizzoli) fino a L’arte non è facenda per bene (2016 Rizzoli) l’autobiografia in cui racconta la sua vita controcorrente, fatta di incontri straordinari, grandi amori, battaglie e utopie, sono stati tutti molto importanti e seguiti. Come le tante mostre che ha firmato da curatrice, chiamata anche nel 1990 a fare il commissario della Biennale.


“Scrivere era quello che mi piaceva di più”, raccontava, per poi aggiungere con quel tono mordace che la caratterizzava, “perché gli artisti sono noiosi, ignoranti, pieni di sé…mi riservavo un certo distacco. Tant’è, con Enzo Mari Lea Vergine condivideva la critica feroce ai tempi attuali, all’ignoranza “devastante” dell’oggi, un tempo al quale contestava “la mancanza di dignità, di decenza, di vergogna”. E bollava decisa anche il mutamento dei ruoli e le trasformazioni del mercato dell’arte (oggi ci sono curatori manager, i critici sono rarissimi”).

La morte li ha colti praticamente insieme, 88 anni lui, 82 lei, ammantando di struggente romanticismo la fine di un’unione lunga oltre 50 anni. Restano le opere. E quelle di Lea Vergine, come sottolinea nel ricordo anche il ministro della cultura Franceschini, lasciano un segno.


M.P.F.

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