Le muse nascoste
A lungo
prevaricate e messe in secondo piano dagli uomini che transitavano nella loro
vita “le donne nell’arte” trovano finalmente la visibilità che meritano nel
libro di Lauretta Colonelli “Le muse nascoste”.
A un certo punto
le Muse divennero donne. Da divinità eteree si fecero carne e ossa ed entrarono
nelle vite vissute. Non c’era più bisogno di invocarle, come ai vecchi tempi
dei poeti greci. Erano diventate reali: presenti anima e corpo. Cucinavano,
lavoravano, cucivano, facevano figli, erano mogli, amanti, spesso compagne di
giorni e avventure quotidiane. Erano anche moltissimo altro. Ma che
scrivessero, suonassero o dipingessero meglio di molti uomini, in quel momento,
alla storia non interessava granchè. Oggi ci guardano dai quadri, silenziose.
Le abbiamo viste mille volte, nei musei o sui libri, senza sapere chi fossero.
Attirati dall’opera d’arte e dalla firma dell’autore come se in fondo, anche
per noi, fossero solo personaggi in scena e recitassero.
Ha le mani di una bambina, piccole e paffutelle. La faccia grande, di una donna di mezza età, segnata da rughe profonde. È alta poco più di una bambola. Da cinque secoli guarda dall’alto in basso i visitatori fissando nei loro i suoi occhi scuri. Per cinque secoli l’hanno chiamata “la nana del Mantegna”. Perché fu Andrea Mantegna a dipingerla tra il 1465 e il 1474, sulle pareti della Camera degli sposi nel torrione nord orientale del Castello di San Giorgio, a Mantova.
In realtà si
chiamava Lucia. Ma il suo nome si era perso. Come quello della moltitudine
infinita degli anonimi che Michel Foucault etichettò <<hommes infâmes>>, non perché senza morale, ma
perché privi di fama, di voce, di racconto di sé. Tra questi spiccavano i
buffoni di corte, segnati dalle più varie disabilità: nani, gobbi, pazzi,
stolti che dai tempi più antichi e fino al secolo dei Lumi rappresentarono una
delle più sofisticate e crudeli manifestazioni del lusso delle case regnanti.
Usati come oggetto di curiosità e di sollazzo, come buffoni e giullari, spesso
come compagni di gioco dei bambini, erano ritenuti proprietà privata, e come
tale vezzeggiati, nutriti, agghindati, e qualche volta ritratti in seno alla
famiglia che li possedeva. Per lungo tempo si è pensato che i Gonzaga avessero
costruito per i nani un appartamento in miniatura dentro Palazzo ducale. Ancora
nel 1914 la guida rossa del Touring ne riportava la descrizione: quattro
salette, scale, corridoietti e camerini minuscoli, dove i visitatori
camminavano curvi, a fatica. Finchè non si è scoperto che l’appartamento è in
realtà una riproduzione ridotta della Scala santa di Roma, davanti a San
Giovanni in Laterano.
C’erano nani alla
corte spagnola, come Maribàrbola e Nicolasio Pertusato, al servizio della
famiglia reale <<con paga, raciones y cuatro libras de nieve durante el
verano>> ritratti da Velàzquez in Las meninas. E nani alla corte di Pietro il grande in
Russia e a quella dei Medici a Firenze, dove Morgante fu dipinto nudo dal
Bronzino e scolpito dal Gianbologna a cavallo di una lumaca. Spesso venivano
chiamati con soprannomi irridenti, come Gigante, Diamante, Bocciolo, Barbino.
Anche la nana di casa Gonzaga diventò Diamantina, nome immaginato nel 2016 dalla storica del Rinascimento Nadeije Laneyrie-Dagen, non per spregio, ma perché la piccola donna è incastonata come una pietra preziosa nella raffigurazione della famiglia regnante. L’abito rosso di Lucia è di scarlatta vermiglia, una delle stoffe più preziose dell’epoca, tessuta con la migliore lana inglese e tinta con il “vemillon”, come veniva chiamata la cocciniglia mediterranea, l’insetto da cui si estrae il colorante. Le maniche sono di velluto pavonazzo, il velo finissimo che copre la fronte e i capelli è pari a quello della sua padrona ‘madonna Barbara’. Perfino il fazzoletto sfrangiato tra le mani trasmette un messaggio sulla sua intimità con la famiglia Gonzaga: tenere un fazzoletto in mano era, a quel tempo, tipico delle donne che vantavano un titolo di nobiltà. Per i costumi dei nani, come viene confermato dai conti conservati nei fondi dei guardaroba delle corti, non si badava a spese, dato che erano obbligati, come tutti gli altri membri della corte, a seguire il cerimoniale e a valersi in maniera adeguata ai suoi rigidi protocolli.
M.P.F.
Nessun commento:
Posta un commento