mercoledì 28 ottobre 2020

Le Muse nascoste

 


Le muse nascoste

A lungo prevaricate e messe in secondo piano dagli uomini che transitavano nella loro vita “le donne nell’arte” trovano finalmente la visibilità che meritano nel libro di Lauretta Colonelli “Le muse nascoste”.

A un certo punto le Muse divennero donne. Da divinità eteree si fecero carne e ossa ed entrarono nelle vite vissute. Non c’era più bisogno di invocarle, come ai vecchi tempi dei poeti greci. Erano diventate reali: presenti anima e corpo. Cucinavano, lavoravano, cucivano, facevano figli, erano mogli, amanti, spesso compagne di giorni e avventure quotidiane. Erano anche moltissimo altro. Ma che scrivessero, suonassero o dipingessero meglio di molti uomini, in quel momento, alla storia non interessava granchè. Oggi ci guardano dai quadri, silenziose. Le abbiamo viste mille volte, nei musei o sui libri, senza sapere chi fossero. Attirati dall’opera d’arte e dalla firma dell’autore come se in fondo, anche per noi, fossero solo personaggi in scena e recitassero.

Ha le mani di una bambina, piccole e paffutelle. La faccia grande, di una donna di mezza età, segnata da rughe profonde. È alta poco più di una bambola. Da cinque secoli guarda dall’alto in basso i visitatori fissando nei loro i suoi occhi scuri. Per cinque secoli l’hanno chiamata “la nana del Mantegna”. Perché fu Andrea Mantegna a dipingerla tra il 1465 e il 1474, sulle pareti della Camera degli sposi nel torrione nord orientale del Castello di San Giorgio, a Mantova.


In realtà si chiamava Lucia. Ma il suo nome si era perso. Come quello della moltitudine infinita degli anonimi che Michel Foucault etichettò <<hommes infâmes>>, non perché senza morale, ma perché privi di fama, di voce, di racconto di sé. Tra questi spiccavano i buffoni di corte, segnati dalle più varie disabilità: nani, gobbi, pazzi, stolti che dai tempi più antichi e fino al secolo dei Lumi rappresentarono una delle più sofisticate e crudeli manifestazioni del lusso delle case regnanti. Usati come oggetto di curiosità e di sollazzo, come buffoni e giullari, spesso come compagni di gioco dei bambini, erano ritenuti proprietà privata, e come tale vezzeggiati, nutriti, agghindati, e qualche volta ritratti in seno alla famiglia che li possedeva. Per lungo tempo si è pensato che i Gonzaga avessero costruito per i nani un appartamento in miniatura dentro Palazzo ducale. Ancora nel 1914 la guida rossa del Touring ne riportava la descrizione: quattro salette, scale, corridoietti e camerini minuscoli, dove i visitatori camminavano curvi, a fatica. Finchè non si è scoperto che l’appartamento è in realtà una riproduzione ridotta della Scala santa di Roma, davanti a San Giovanni in Laterano.

C’erano nani alla corte spagnola, come Maribàrbola e Nicolasio Pertusato, al servizio della famiglia reale <<con paga, raciones y cuatro libras de nieve durante el verano>> ritratti da Velàzquez in Las meninas. E nani alla corte di Pietro il grande in Russia e a quella dei Medici a Firenze, dove Morgante fu dipinto nudo dal Bronzino e scolpito dal Gianbologna a cavallo di una lumaca. Spesso venivano chiamati con soprannomi irridenti, come Gigante, Diamante, Bocciolo, Barbino.

Anche la nana di casa Gonzaga diventò Diamantina, nome immaginato nel 2016 dalla storica del Rinascimento Nadeije Laneyrie-Dagen, non per spregio, ma perché la piccola donna è incastonata come una pietra preziosa nella raffigurazione della famiglia regnante. L’abito rosso di Lucia è di scarlatta vermiglia, una delle stoffe più preziose dell’epoca, tessuta con la migliore lana inglese e tinta con il “vemillon”, come veniva chiamata la cocciniglia mediterranea, l’insetto da cui si estrae il colorante. Le maniche sono di velluto pavonazzo, il velo finissimo che copre la fronte e i capelli è pari a quello  della sua padrona ‘madonna Barbara’. Perfino il fazzoletto sfrangiato tra le mani trasmette un messaggio sulla sua intimità con la famiglia Gonzaga: tenere un fazzoletto in mano era, a quel tempo, tipico delle donne che vantavano un titolo di nobiltà. Per i costumi dei nani, come viene confermato dai conti conservati nei fondi dei guardaroba delle corti, non si badava a spese, dato che erano obbligati, come tutti gli altri membri della corte, a seguire il cerimoniale e a valersi in maniera adeguata ai suoi rigidi protocolli.


M.P.F.

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