domenica 4 ottobre 2020

Van Gogh. I colori della vita

 


Van Gogh. I colori della vita.



Vincent van Gogh fa parte di quella ristrettissima categoria di artisti che sono assunti a un livello tale di fama nella cultura di massa, da diventare delle icone pop “assolute”, avvolte da una mitica aura senza tempo. Il suo stesso nome è diventato una sorta di “logo”: basta nominarlo che davanti agli occhi di tutti compare la sua inconfondibile figura, quella degli autoritratti più conosciuti, tra le decine da lui dipinti in tutti i periodi della sua vita.



Ci appare come l’avessimo conosciuto di persona, con quella faccia spigolosa triangolare, l’ispida barba rossiccia spigolosa, il profondo sguardo ombroso che ci fissa in modo penetrante.  Con in testa il cappello di paglia o di feltro, oppure senza, o anche (versione più suggestiva) con il colbacco che nasconde in parte la fasciatura bianca sull’orecchio tagliato.

E ce lo immaginiamo nella sua spoglia stanzetta con la sedia di paglia, o mentre dipinge dei paesaggi. Più che i suoi quadri, però, ad appassionare il grande pubblico è soprattutto la sua tragica esistenza, che ha tutte le caratteristiche per incarnare il prototipo perfetto dell’artista “maledetto”, secondo la più convenzionale visione romantica. Una vita nel segno della fatale congiunzione fra genio e follia.

Un solitario disperato visionario che diventa pittore dopo essere stato predicatore tra poveri minatori, che ama derelitte prostitute, che si infligge traumatiche punizioni, che entra ed esce dai manicomi e che infine si suicida con un colpo di pistola a soli trentasette anni. Un pittore totalmente ignorato dal mondo dell’arte del suo tempo che sarà scoperto solo dopo la morte.


Una vita da film. Questa è in sintesi la visione più ampiamente diffusa di Vincent van Gogh (1853 – 1890). Il fatto che sia stato, in realtà, innanzitutto un vero professionista estremamente cosciente dell’originalità della sua ricerca, e in stretto contatto con molti tra i grandi innovatori del suo tempo, ha interessato molto meno la maggior parte degli scrittori e registi, autori di biografie e di film. Per lo più si tratta da un lato di storie eccessivamente romanzate e dall’altro di superficiali spettacolarizzazioni drammatiche, a iniziare da Brama di vivere del 1956 interpretato da Kirk Douglas fino al più pretenzioso Sulla soglia dell’eternità del 2018, diretto dal regista-pittore Julian Schanbel. Ma ci sono, per fortuna anche esempi di alto livello, come il testo Van Gogh il suicidio della società (1947) di Antonin Artaud, il film Vinent e Théo (1990) di Akira Kurosawa, dedicato all’ultimo dipinto dell’artista.



Un esperienza di grande conoscenza dell’artista ci viene proposta dalla rassegna Van Gogh. I colori della vita, organizzata al Centro San Gaetano di Padova da Marco Goldin, che ha un’impostazione divulgativa e che enfatizza tutti gli aspetti stereotipati, ma che ha soprattutto il merito di mettere in scena più di ottanta opere del pittore olandese. Si tratta di una selezione di disegni e di quadri tra cui alcuni molto famosi, provenienti in massima parte dal Museo Kröller-Müller di Otterlo.



Interessante anche il dialogo con dipinti di artisti a lui vicini, come Jean-Franois Millet, George Seurat, Paul Signac e Paul Goguin. Per evidenziare l’influenza delle stampe giapponesi sulla ricerca dell’artista c’è una sezione dedicata alle xilografie di Hiroshige.

A segnare in modo originale l’avvio del percorso espositivo, nella prima sezione intitolata “Il pittore come eroe”, sono esposte tre opere di Francis Bacon del 1957; sono dei magnifici
d’aprés di violenta tensione espressiva direttamente ispirati a Il pittore sulla strada di Tarascona del 1888, ( una tela (purtroppo distrutta nell’incendio del Kaiser Friedrich Museum durante la seconda guerra mondiale) in cui Van Gogh si ritrae carico dei suoi strumenti di lavoro, mentre cammina sotto il sole, segnando con la sua ombra il sentiero tra i campi. In mostra c’è però uno dei più noti autoritratti, quello con il cappello di feltro grigio, dipinto nel 1887 a Parigi con una tecnica ancora parte divisionista.


La seconda sezione è dedicata agli anni della prima formazione. Sono soprattutto dei disegni (minatori, contadini, paesaggi), realizzati durante il periodo passato come predicatore nel Borinage, e negli anni 1880-83 all’Aia e Etten.



La parte centrale dell’esposizione, con una quarantina di quadri e disegni, è dedicata agli anni di permanenza a Neunen nel Brabante, in casa dei genitori, dal 1883 fino all’estate del 1886. Qui Van Gogh continua a sviluppare il suo interesse per la dura condizione di vita dei contadini e degli operai. Tra le opere di questa sezione, oltre a una notevole scena d’interno (Telaio con tessitore del 1884), si possono vedere alcuni paesaggi come La vecchia torre di Neuen e Autunno, Paesaggio al crepuscolo, caratterizzati  da toni piuttosto scuri. La definitiva svolta coloristica di Van Gogh inizia con il trasferimento a Parigi, dove rimane dall’autunno 1886 all’inizio del 1888. Di questo periodo si può vedere in mostra, insieme all’autoritratto citato, una veduta di Montmartre con il Moulin de la Galette del 1887.

La sezione con le opere più belle e conosciute è quella intitolata “Un anno decisivo 1888 ad Arles”. La luce e la natura provenzale impregnano di vita dipinti come Albero da frutta tra cipressi, Mietitori, Il seminatore e Vigneto verde.
Importanti sono anche i ritratti come quelli del postino Roulin, di suo figlio Armand e di Joseph cinoux. Il percorso si chiude con qualche opera dipinta durante la degenza al nosocomio di Saint Rémy (1889 –inizio 1890) tra cui spiccano una veduta di Monte Gaussier, Il buon samaritano (da Delacroix) e un magnifico paesaggio con nuvole visto dalla finestra della sua Stanza.


M.P.F.

Donne e Fotografia tra gli anni '50 e gli anni '80

 


Attraversare l’Immagine

Donne e Fotografia tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80

 


Attraversare l’immagine. Donne e fotografia tra gli anni ’50 e gli anni ’80 è una rassegna dedicata a fotografe che hanno operato in ambito sociale, che hanno focalizzato la loro attenzione sui temi fondati quali il lavoro, l’antropologia, la politica, la guerra, l’architettura, la letteratura, la cultura in senso lato.


La mostra a Palazzina Marfisa D’este aperta fino al 22 novembre a cura dell’UDI – Unione Donne in Italia, per la XVII Biennale Donna “Attraversare l’immagine. Donne e fotografia tra gli anni ’50 e gli anni ‘80” è presentata da di Angela Madesani.


Quello preso in esame è un lungo periodo di impegno politico e sociale, portante nella storia del cosiddetto secolo breve, che ha segnato grandi mutamenti dei quali le donne sono state protagoniste. La mostra parte, da un punto di vista cronologico, delle premesse, da alcune ricerche a sfondo antropologico della fine degli anni Cinquanta per giungere, quindi, agli anni Sessanta, che hanno significato lotte, in nome di un cambiamento radicale della cultura e della società, di un raggiungimento di libertà individuali e di conquiste democratiche.


Raggiungimenti che gli anni Settanta avrebbero estremizzato, animando, sullo sfondo di drammatici conflitti, il rapporto tra politica e cultura. Gli Ottanta poi hanno costituito, in qualche modo, il momento di riflusso. Le grandi battaglie condotte per l’acquisizione dei diritti civili, per l’emancipazione di alcun classi sociali, delle donne, degli emarginati, sono defluite verso modi diversi di avvertire l’esistenza, soppiantando le pratiche collettive delle quali l’arte e la fotografia si erano rese interpreti a favore di una dimensione individuale privilegiata.

Non è preso in esame il solo mondo italiano ed europeo, le ricerche hanno per oggetto mondi altri: dalla Palestina al Sudafrica, dalla Cambogia agli Stati Uniti d’America. Sono in mostra alcuni reportage di guerra e non solo, in cui in modo non trascurabile le fotografie hanno saputo, come innanzi detto, registrare i grandi eventi storici e politici.


La rassegna si apre con le opere di Diana Arbu (1923 – 1971), una delle più interessanti personalità fotografiche della seconda metà del XX secolo, la cui ricerca ha fatto il punto di svolta, rispetto a quanto era stato fatto dal punto di svolta, rispetto a quanto era stato fatto sino a quel momento. Ha iniziato a lavorare nella pubblicità e nella fotografia di moda con suo marito, Alian Arbus, come art director e stylist per i loro servizi. Nella seconda metà degli anni Cinquanta Diane decide di dedicarsi finalmente a quello che le interessa davvero la fotografia. Le sue fotografie hanno come soggetto i mondi paralleli alla normalità, mondi negati, che Arbus riesce a raccontare nella sua verità e crudezza, arrivando a realizzare alcune fra le fotografie più iconiche dei nostri tempi.


Continuando nel percorso espositivo, due sono i lavori che si possono collocare nell’ambito del fotoreportage tradizionale, con una chiara propensione all’indagine sociale e antropologica. Di Chiara Samugheo (1935), alcune fotografie di ambito neorealista, parte della serie dedicata alle tarantate salentine della fine degli anni Cinquanta. Di Lori Sammartino (!924 – 1971), le fotografie tratte da La domenica degli italiani, un volume del 1961, corredato da un testo di Ennio Flaiano, che racconta un’Italia semplice negli anni precedenti il boom economico.


Presente una selezione di opere da Morire di classe di Carla Cerati (!926-2016), pubblicato nel 1969 con Gianni Berengo Gardin per Enaudi. Una delle ricerche più significative e conosciute dell’artista, che ha contribuito a mutare la situazione manicomiale del nostro Paese.



Il nome di Letizia Battaglia (1935) è legato a un importante giornale palermitano progressista e impegnato nella lotta alla mafia, <<L’Ora>>. Tornata da Milano a Palermo, a metà degli anni Settanta, Battaglia, che nel capoluogo lombardo aveva collaborato con <<Tempo>>, <<ABC>>, <<Le Ore>>, porta con sé un nuovo linguaggio legato al fotoreportage con cui apporta una sferzata iconografica – e quindi sociale e politica – a quanto era stato fino allora.



Una sezione della mostra è dedicata al fotoreportage in Medio Oriente, Asia e Africa, con i lavori di Franoise Demulder, Paola Agosti e Leena Saraste.



Franois Demulder (1947 – 2008) è stata la prima donna a vincere il World Press Photo, il più prestigioso premio fotografico del mondo. Lo ottiene nel 1977 con una foto che ritrae, a Beiurut, un’anziana donna palestinese che implora un soldato falangista incappucciato, armato di un vecchio fucile, di smettere di ammazzare.



Paola Agosti (1947) è tra le più acute fotogiornaliste italiane, impegnate nella documentazione del mutamento della condizione femminile; le sue foto vengono pubblicate su <<L’Espresso>>, che aveva ospitato le immagini di Carla Cerati, e su <<Noi donne>>.



Storica dell’arte di formazione, la finlandese  Lena Saraste (1942) è una importante teorica del linguaggio fotografico. Dopo anni di lavoro professionale nell’ambito della moda e della pubblicità, esaurito qualsiasi legame con il modernismo degli anni Cinquanta, come molti fotografi della sua generazione si pone di fronte al mondo con interessi di natura politica e sociale.



Sono di oltre cinquantacinque anni fa le opere di Lisetta Carmi (1924) dedicate al porto di Genova esposte in mostra. Una ricerca che va ben oltre i limiti dei generi fotografici, in cui l’uomo, il paesaggio, l’architettura giocano ruoli precipui.



Il mondo operaio è al centro delle ricerche di Giovanna Borghese (1939) sulle fabbriche di Milano, del suo hinterland e di Torino. Sono immagini di lavoro, di sciopero, di concentrazione, ma anche di fabbriche abbandonate, riprese negli anni Settanta e gli Ottanta.


Una mostra come questa, che si focalizza soprattutto sull’ambito sociale, presenta una ricerca architettonica come quella della tedesca Petra Wunderlich (1954), intelligente allieva di Bernard e Hilla Becher. La sezione di muro da lei fotografate in sintonia con la sua successiva ricerca sulle cave di pietra, in cui la natura con la sua forza costruttiva diviene protagonista assoluta.

La fotografa Mari Mahr (1941) presenta una serie su Lili Brik. Donna del Novecento, musa dell’avanguardia russa, la cui casa è stata un importante punto di incontro del milieu culturale moscovita, Lili, sposata con il critico formalista Osip Brik, è stata il grande amore di Majakovskij, incontrato nel 1915. Una storia, la loro, di passione e rivoluzione, che Mahr ha riportato in una serie di tableaux photographiques assai raffinati.


La mostra si chiude con l’opera di un’altra americana Francesca Woodman (1958 – 1981). Quello che conosciamo della sua vicenda esistenziale e artistica può essere circoscritto nell’interno dell’autoritratto in un momento storico e sociale particolare, gli anni Settanta. Nelle foto di piccolissime dimensioni, l’immagine diventa una presa di coscienza non solo personale, ma sociale del suo essere donna.


M.P.F.

"Marc Chagall. Anche la mia Russia mi amerà"

 


“Marc Chagall”

Anche la mia Russia mi amerà “

Per la prima volta in Italia apre nelle sale di Palazzo Roverella a Rovigo un’importante esposizione, promossa da Fondazione Cariparo, Comune di Rovigo e Accademia dei Concordi, dedicata a Marc Chagall e all’influsso determinante che sulla sua opera ha esercitato la grande tradizione culturale della sua patria russa.


Sono una settantina le opere in mostra, tra cui si annoverano i maggiori capolavori dei musei russi di Mosca e di San Pietroburgo, oltre a una generosa selezione di opere provenienti dalla collezione privata dell’artista. Mentre sono accostati a una scelta di icone, in cui si esprime la vetta più alta della spiritualità russa, e di libki, le vignette popolari così ampliamente diffuse ai tempi di Chagalle. La mostra è curata da Claudia Zevi.


Chagalle arriva a Parigi nel 1910 all’età di ventitrè anni. La sua luce lo folgorerà, lo aggredirà, lo condurrà attraverso meandri della propria memoria fantasmagorica, delle proprie origini: russe orientali, ebree, popolari. Ma si aggrapperà completamente alla “Ville lumimére”, eppure è certo che nessun’altra accademia avrebbe potuto concedergli quello che scopre qua, “mordendo le esposizioni, le vetrine, i musei”. È qua infatti che si stanno giocando i grandi mutamenti artistici del XX secolo. Grazie a Gouguin, Van Gogh e Seurat, Matisse e i Fauves affidano al colore puro il pieno potere dell’espressività pittorica. Mentre il rinascimento della funzione evocativa del piano ad opera di Cézanne porta i cubisti a comporre un linguaggio organizzato all’interno di una struttura compositiva aprospettica.


Lo smarrimento di Chagall invece, incantato dalle vie e dai quadri, dalla libertà che scuote l’aria e la cultura, sentendo per la prima volta su di sé il peso e la responsabilità della parola artistica, entra in campo appropriandosi della nuova superficie figurativa.


Arricchendola attraverso l’incanto di immagini metaforiche e oniriche, fantastiche, di contenuto poetico fino ad allora sconosciuto. Trasponendo nel dipinto gli impulsi del cuore. Unendo in modo singolare l’aspetto più razionale e formale dell’arte occidentale a quello più profondamente passionale, visionario e leggendario, esaltato e mistico dell’universo d’Oriente. Rifiutando, nella loro totalità, sia il cubismo che il fauvismo: il primo perché concepito troppo razionalmente, il secondo perché troppo preoccupato al discorso cromatico in senso formale.


La raffigurazione delle strade, delle case e delle sinagoghe che vediamo in tanta opera di Chagall non vuole raccontare unicamente di Vitbesk o degli anni dell’infanzia, ma indicare con il ritorno al luogo la presenza di sentimenti quali la commozione, la nostalgia, l’affetto.


Nella pittura-poesia di Chagall una contadina, una mucca o un attrezzo agricolo evocano la vita campestre, il venditore ambulante con il sacco sulle spalle l’ebreo errante, i tetti rossi la felicità della fanciullezza. Ma Il gallo rosso che corre nel cielo inseguito da un uomo volante pieno di spavento, del 1940, parla di fuga, di guerra, di angoscia, così come nel Martire si assiste, in uno scenario incendiato dalle fiamme e dalla desolazione, al supplizio di un ebreo davanti alla sposa e ad un vecchio che legge i salmi: un episodio che pur nel suo misticismo vuole con altrettanta verità esprimere gli orrori di cui il mondo è testimone.


Nello stesso modo altri quadri di questi anni rappresentano in chiara metafora, con la medesima pregnanza, visioni apocalittiche di villaggi bruciati, ebrei crocifissi, strane figure metà uomini metà animali che gridano, impazzite, il loro strazio al cielo, alle tenebre, all’infinito.

Mentre il Cristo-Messia che Chagall incomincia a dipingere nella Crocifissione bianca ricomparirà d’ora in avanti sotto varie forme con a fianco il rotolo della Torah o altri attributi appartenenti alla religione ebraica, come simbolo di quel dolore antico che si rinnova nella tragedia umana. Ma anche al di là di qualsivoglia messaggio mistico, e il sentimento che emerge come valore in tutta l’opera di Chagall. Mischiato alle tradizioni, alle sofferenze del suo popolo e al mistero che si lega al destino di ognuno.

M.P.F.

La Villa dei Capolavori

 


L’ultimo romantico

Luigi Magnani il signore della Villa dei Capolavori

Fino al 13 dicembre 2020, la Fondazione Magnani-Rocca, col titolo “L’ultimo romantico”, presenta un ricchissimo omaggio espositivo al suo Fondatore, e lo fa nella dimora che Luigi Magnani trasformò in una casa – museo sontuosa e sorprendente, la ‘Villa dei Capolavori’ a Mamiano di Traversetolo, nel parmense. Uomo di cultura tra i grandi della sua epoca, Magnani può essere legittimamente assunto a testimone di “Parma Capitale italiana della Cultura 2020-21”, sotto la cui egida la mostra si svolge.


Luigi Magnani (1906 – 1984), uno dei massimi collezionisti di opere d’arte del mondo, nella sua casa delle meraviglie realizzò un vero Pantheon dei grandi artisti di ogni epoca, un tempio che si andò animando lentamente con l’acquisizione di dipinti e arredi unici, dai Morandi e i fondi oro degli inizi, poi Tiziano, il Goya, fino a Monet, ai Renoir e al Canova degli ultimi anni della sua vita, in un processo di identificazione spirituale con le opere che giungevano ad abitare la sua dimora presso Parma come la scena intellettuale.



La mostra, con cento magnifiche opere provenienti da celebri musei e prestigiose collezioni, intende raccontare nei saloni destinati alle mostre temporanee – in parallelo alla sua Raccolta d’arte permanente, allestita nei saloni storici della Villa – la figura di Luigi Magnani, che amava il dialogo tra la pittura e la musica, la letteratura, attraverso i suoi interessi e le personalità che frequentò o alle quali si appassionò. Intellettuale di primo piano nella cultura italiana del Novecento, nonché frequentatore dei più esclusivi salotti del suo tempo, fu tra i fondatori di Italia Nostra.


L’esposizione a cura di Stefano Roffi e Mauro Carrera – presenta dipinti, ritratti, autoritratti e documenti autografi dei celeberrimi artisti, critici, musicisti, letterati, registi, aristocratici, capitani d’industria frequentati da Magnani, da Bernard Berenson a Margaret, sorella della regina d’Inghilterra, da Eugenio Montale allo stesso Giorgio Morandi; inoltre omaggi pittorici alla passione per la musica di Magnani, resi dai più grandi artisti italiani del Novecento, da Severini a de Chirico a Guttuso a Pistoletto; importanti strumenti musicali antichi; i segreti della Villa, svelati eccezionalmente al pubblico.


Infine, il sogno di altri ‘capolavori assoluti’ inseguiti da Magnani ma non conquistati, che in occasione della mostra hanno raggiunto la Villa dei Capolavori e, quindi, svelati; il primo grande sogno realizzato è il celeberrimo dipinto Il cavaliere in rosa di Giovan Battista Moroni, capolavoro cinquecentesco, gemma di Palazzo Moroni a Bergamo, che dopo la Frick Collection di New York, viene ora esposto alla Fondazione Magnani-Rocca per la durata della mostra. L’élite culturale e aristocratica europea è passata per questi saloni, ha commentato un dipinto, ha ascoltato gli celeberrimi maestri antichi e contemporanei, testimoni della grande storia d’Europa.

Un dipinto da solo varrebbe il viaggio alla Villa di Luigi Magnani: è il grande quadro di Francisco Goya La famiglia dell’infante don Luis (1783 – 1784), forse il ritratto di corte più rivoluzionario di tutta la storia della pittura. Eccezionali sono anche le tre Madonne col Bambino di Filippo Lippi, Albrecht Dürer, Domenico Beccafumi, dipinte a cinquant’anni l’una dall’altra; altre opere imperdibili sono il Ghirlandaio, il Carpaccio, il Rubens, il Van Dyck, i Tiepolo, il Füssli, ma unici sono il preziosissimo Stimmate di San Francesco di Gentile da Fabriano e l’indimenticabile Sacra conversazione di Tiziano (1513). La magnificenza dei capolavori pittorici si traduce in scultura nella Tersicore di Canova e nelle due figure di Bartolini.


Il nucleo contemporaneo è dominato dalle ben cinquanta opere di Giorgio Morandi, riunite durante la vita del pittore all’interno di un rapporto di stima e di amicizia con Magnani. Altro pittore emiliano presente nella collezione è Filippo de Pisis, con un gruppo di dipinti intensi e drammatici. Tra le altre opere di artisti italiani spiccano una stupefacente Danseuse futurista di Gino Severini, una piazza metafisica di Giorgio de Chirico, il Sacco di Alberto Burri del 1954, che Magnani considerava il proprio baluardo avanguardistico. Fra i non italiani, la Villa ospita l’unica sala di opere di Paul Cézanne in Italia; incantevole il paesaggio marino di Claude Monet e splendide opere di Renoir, Matisse, de Staëil, Fautrier. Hartung.

Capolavori che continuano a suscitare emozioni profonde, altissima espressione dell’intimo e commosso stupore dell’uomo di fronte al segreto della bellezza. Segreto che Magnani, leggendo l’amato Doctor Faust di Thomas Mann, riconosceva nella tensione tra il prorompente impulso creativo e le inviolabili leggi strutturali dell’arte; per questo volle per la propria raccolta un’opera di Rembrandt raffigurante proprio il Doctor Faust.


Questo luogo già per Magnani dimora assoluta, diventa anche dimora per noi tutti per la gioia silenziosa del posare lo sguardo su questi sublimi frammenti della vicenda umana, raccolti fino alla morte, avvenuta nel 1984 a settantotto anni, dopo una vita trascorsa in dialogo spirituale con i grandi della cultura, ospiti reali o ideali della sua splendida residenza.


M.P.F.