martedì 17 aprile 2018

MAN RAY


Man Ray

Wonderful vision


Oltre cento immagini fotografiche di Man Ray, in mostra alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di San Gimignano, esposizione promossa dai Musei Civici, a cura di Elio Grazioli e prodotta da Opera-Civita, aperta fino al 7 ottobre,
 (catalogo Sillabe), consente agli spettatori di rileggere il lavoro fotografico di uno dei più significativi artisti del XX secolo.
Man Ray, nato Emmanuel Radnitzky (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre 1976), è stato un pittore, fotografo e grafico statunitense del Dadaismo.
Pur essendo un pittore, fabbricante di oggetti e un autore di film d’avanguardia (Le retour à la raison (1923), Anémic Cinéma con Marchel Duchamp (1925), Emak-bakia (1926), L’étoile de mer (1928), Le Mystéres du Chateau de dé (1929) precursori del cinema surrealista, avendo realizzato le sue prime fotografie importanti nel 1918.
Difficile parlare di “fotografia dadaista” o “fotografia surrealista”, poiché i dadaisti odiavano la fotografia, cui contrapponevano il fotomontaggio – Io non sono fotografo titolava il suo testo-manifesto Raul Hausman -, e il Surrealismo la teneva in disparte, non potendo ammettere che, legata com’è al reale, potesse cogliere il ‘surreale’. Ma Man Ray, l’Uomo Raggio, prima di frequentare dadaisti e surrealisti aveva conosciuto Francis Picabia e Marchel Duchamp. Spiriti liberi e al tempo stesso fissati, in particolare su quella storia di erotismo e macchina intorno a cui stavano dipingendo opere, provocatori incalliti ma anche francesi nonchalants ed esprits fins,
amavano lo scandalo per risvegliare le menti ma non indulgevano in opposizioni e scontri.

A New York Man Ray aveva fatto poco con la fotografia, ma, l’idea c’era già. Aveva imparato la tecnica solo per realizzare delle riproduzioni dei propri quadri per mostrarli a galleristi e possibili acquirenti, al massimo pensava di prendere degli scatti che gli sarebbero potuti servire come spunto o promemoria per dei dipinti, mai come immagini autonome.  Poi si mette a fotografare gli amici e a volte anche le loro opere, mettendo a punto una ritrattistica e uno sguardo sull’oggetto – in un certo senso uno sguardo sul ritratto come oggetto e sull’oggetto come ritratto – che svilupperà sempre. All’interno di questa produzione spicca il cosiddetto Allevamento di polvere (1920), opera di opera, essendo la foto di una parte del Grande Vetro duchampiano, fatta per così dire a quattro mani con Duchamp, ma ora fotografia ‘autonoma’, non documentazione, opera a sé stante.
La vera esposizione creativa avviene a Parigi, dove sbarca il dadaismo il 14 luglio, festa nazionale, del 1921. E ce n’è ben donde, perché il fermento di idee è vivissimo, anche dal punto di vista di chi voleva fare fotografia.

Man Ray di fatto diventa il fotografo del gruppo e il primo grande creatore fotografico surrealista, senza comunque identificarsi ed essere rinchiuso, anarchico e irregolare qual è. Tristan Tzara capisce subito che la situazione è particolare e intitola il suo testo del 1922 La fotografia alla rovescia, perché qui qualcosa si sta rovesciando: “Non è più l’oggetto che, intersecando le traiettorie dei suoi punti estremi nell’iride, proietta sulla superficie un’immagine capovolta. Il fotografo ha inventato un nuovo metodo: offre allo spazio l’immagine più forte di lui e l’aria, con le sue mani contratte, con la sua superiorità mentale, la capta e la tiene in seno. Tra l’altro Man Ray spesso rovescia letteralmente le figure, mettendole a sottoinsù. Non è la fotografia tradizionalmente intesa, ma non è neppure dadaista non-fotografia o contro la fotografia; è iniziata l’era dell’invenzione. Man Ray non finisce mai di inventare o reinventare figure, composizioni, modi. E tecniche, magari attribuendole al caso: così il fotogramma, che ribattezza “rayograph”, e la solarizzazione, dagli effetti strabilianti. In entrambi i casi è la luce l’agente che crea o modifica direttamente l’immagine. Il rayogramma è l’immagine derivata dall’appoggiare direttamente gli oggetti sulla lastra, fotografia senza macchina fotografica: l’effetto è come di fantasmi di oggetti e tutto appare surreale, cioè non realistico ma avvolto nel mistero, come visto da uno sguardo altro, rivolto all’interno invece che all’esterno, quello di un “occhio selvaggio”, come va indicando Breton in quel periodo per teorizzare la possibilità, negata da altri, di una ‘pittura surrealista’. In quel testo, Il Surrealismo e la pittura, Breton include appunto Man Ray e proprio come fotografo, celebrandolo come l’uomo sopraggiunto a dimostrare ai pittori come “proseguire per proprio conto, e con propri mezzi, l’esplorazione di quella regione che la pittura credeva di potersi riservare”.

Ancora Man Ray, fotografo per la moda e anche lì rinnova. Si pensi solo all’effetto che fa l’espressione ‘moda surreale’ e si avrà il senso dell’invenzione di Man Ray: basta un copricapo incongruo, un oggetto o un gioiello simbolico e allusivo, una posa o un’espressione estraniata ed estraniante, una solarizzazione e tutto cambia. A quel punto non guardi più l’abito ma la donna, cioè il centro del mondo surrealista, la femminilità e l’erotismo, proprio quello che, del resto, la moda dice di voler vestire.
La mostra testimonia, nelle sue tappe fondamentali e attraverso alcune opere più famose, il Man Ray fotografo, ma finalmente con un taglio particolare, solo apparentemente dato per acquisito ma in realtà sempre rimesso in discussione, ovvero quello che afferma l’equivalenza tra il fotografo artista, quello di moda, di pubblicità, di fotografia pura. Ciò che accomuna e lega in un unico gesto creativo è lo sguardo, quello che trasforma tutto in “meravigliose visioni”.


Maria Paola Forlani

lunedì 16 aprile 2018

Dante e Sapia


Savia non fui

Dante e Sapìa
Fra letteratura e arte


Si è aperta, fino al 28 ottobre, a cura di Marilena Caciorgna e da Marcello Ciccuto, al Museo San Pietro la mostra “Savìa non fui. Dante e Sapìa fra letteratura e arte” (Catalogo Sillabe), promossa dal Comune di Colle di Val d’Elsa e dall’Arcidiocesi di Siena, Colle Val d’Elsa, Montalcino con la partecipazione di Opera Civita, dedicata alla figura di Sapìa, gentildonna senese nata Salvani, protagonista del canto XIII del Purgatorio di Dante.
La figura emerge per la forte caratterizzazione, con tratti molto sofferti e risentiti quale interprete dell’invidia. Peccò sì tanto d’invidia da giungere all’insania. Nonostante il nome, infatti, la zia paterna di Provenzan Salvani, capo della parte ghibellina, già incontrato da Dante fra i superbi, non fu “savia” nell’augurarsi la sconfitta dei propri concittadini senesi nella battaglia di Colle di Val d’Elsa (vv. 109 – 111): “Savia non fui, avvegna che Sapia / fossi chiamata, e fui delli altrui danni / più lieta assai che di ventura mia”.

I tratti che la rappresentano sono in generale quelli degli invidiosi i quali, costretti a vestire panni ispidi e pungenti dal colore spento, si sostengono fiacchi l’un altro e tutti, a loro volta, si addossano alla parete del monte. Ma il dettaglio iconografico più forte che la identifica è il mento alzato, così come sogliono fare i ciechi, giacchè Sapìa ha gli occhi cuciti da un fil di ferro ed è dunque costretta ad alzar la testa per vedere ombre dalle strette fessure in mezzo alle palpebre. 
Dunque diventa decisivo alla comprensione, in questa prima parte del canto XIII l’episodio dell’incontro dantesco con l’anima della senese Sapìa. Il suo esordio verbale vede in punta dei versi 94-95 (“O frate mio, ciascuna [anima] è cittadina / d’una vera città; ma tu vuo’ dire / che vivesse in Italia peregrina”) un’allocuzione prima di tutto ispirata a fraternità e subito a ruota una correzione al pensiero di Dante in nome di una superiore coscienza di comunanza, là vigente per i “cittadini” che hanno adesso una “fraterna condivisione nella speranza dell’unica, autentica patria, quella celeste, la città ‘onde Cristo è romano’ (Purg., XXXII, v. 102)”
Resta evidente come questa è protagonista della seconda parte del canto, venga presentata nell’atteggiamento di chi da subito si schiera contro il ricordo di un mondo di valori politico-civili pervertiti dall’odio comunale o dell’individualismo di classe o insomma dalla follia dell’invidia quale peccato sociale: non sarà un caso che proprio i due senesi delle prime due cornici purgatoriali rappresentino altrettanti esempi di vizi complementari che scaturiscono dall’uso distorto del potere mondano (nel caso dei senesi poco dopo ricordati da Sapìa nientemeno che nell’impegno in imprese impossibili, individualisticamente tentate a tutto danno di una possibile idea di bene collettivo). 

Rispetto alle stesse parole dantesche e pure virgiliane, l’intervento di Sapìa si delinea nella chiave di una forte opposizione concettuale – “io fui senese [] s’i fui [] savia non fui [] e fui [] più lieta [] s’i fui [] folle” – da porsi a discredito della malevola e appunto invidia insufficienza del dire umano che da sempre conduce i peccatori a desiderare tristemente il contrario della vera sapienza, il contrario dell’impegno sul terreno fecondato dalla Grazia, mostrando persino nel proprio nome la distanza abissale che è della parola degli uomini rispetto ai doni divini.
Come si esprimerà il poeta ancor più chiaramente in Purgatorio XVII, vv, 118-120, “è chi podere, grazia, onore e fama / teme di perder perch’altri sormonti, / onde s’attrista sì che ‘l contrario ama”; e come forse lo stesso Dante avverte l’esigenza di precisare sul suo proprio conto, nel momento in cui pensa di poter riconoscere l’anima ancora ignota in forza di contrassegni ‘di luogo’ o ‘di nome’ – “spirito’, diss’io, ‘che per salir ti dorme, / se tu se’ quelli che mi rispondesti, / fammiti conto o per luogo o per nome” – che agli occhi di Sapìa e di ogni altra anima di questa cornice, impegnata nel dimenticare le condizioni di un’antica tristitia priva di Grazia dicono di cose morte e oramai senza valore.

Dante arriva a contrapporre visivamente il ‘guardare in alto’ dell’anima presa da speranza di soddisfazione e salvezza – “tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava / in vista; e se volesse alcun dir ‘Come?’, / Io mento a guisa d’orbo in su levava” – all’identico atto legato al ricordo della superba bestemmia di Sapìa nel corso di sua terrena: “[] tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia, / gridando a Dio: ‘ormai più non ti temo!” (vv. 121 – 122); e, in analogia a questo parallelismo, l’antica e vergognosa preghiera dell’invidiosa nobildonna (“e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle”, v. 117), così volgarmente superficiale da aver fatto ritenere possibile l’affermarsi di un privato desiderio sulla volontà divina, vien fatta scomparire a fronte del nuovo genere di orazione di cui Sapìa è adesso qui portatrice, maturo di Grazia e conforme al modello delle parole solidali di un Pier Pettinaio:

[] e ancor non sarebbe
Io mio dover per penitenza scemo,
se ciò non fosse ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe.

Rispetto ad altri personaggi muliebri danteschi, Sapìa non ha avuto una larga “fama” iconografica e si tratta dunque di un soggetto prezioso e raro.
Negli spazi del Museo San Pietro che, poco più di un anno fa, dopo importanti lavori di ristrutturazione è stato riconsegnato alla città del Colle, si raccolgono le testimonianze di miniatori, incisori, scultori e pittori, interpreti di una figura non convenzionale che, per i caratteri di umana fragilità con cui è delineata, può considerarsi una sorta di antieroina della storia medioevale senese. Fra coloro che hanno tramandato l’immagine del personaggio si segnalano il pittore modenese Adeotato Malatesta,
il grande incisore francese Gustave Doré,
lo scultore senese Fulvio Corsini
e l’artista romano Emilio Ambron autore di uno straordinario ciclo nel Palazzo Chigi Saraceni a Siena, commissionato dal conte Guido.


La mostra, che si inserisce nel calendario delle iniziative organizzate dal Comune di Colle Val d’Elsa per il 2019, anno in cui ricorrerà il 750º anniversario della Battaglia di Colle, è anche l’occasione per esporre le opere raffiguranti questa tematica dipinte da Gino Torreni (Empoli, 1925-2015), poliedrico artista afferente all’Epressionismo.
La sua visione di Sapìa è quella di una figura nuda che infierisce, con toni teatrali e angosciosi, contro i suoi concittadini. Un dramma femminile che si riscontra anche nelle donne sugli spalti che assistono allo scontro tra le truppe senesi fiorentine nella piana di San Marziale.


Maria Paola Forlani                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 



sabato 14 aprile 2018

XVII Biennale Donna


Ketty

La
Rocca 80
Gesture,
speech
and word

La Biennale Donna è tornata al Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara, fino al 3 giugno, con una mostra dedicata a (Gaetana) Ketty La Rocca (La Spezia, 1938 – Firenze, 1976), protagonista dell’arte italiana degli anni Sessanta e Settanta, al centro di un vivo crescente interesse internazionale.

A quasi vent’anni dall’ultima mostra antologica in Italia e a ottant’anni dalla nascita,
Ketty La Rocca 80. Gesture, speech and word, a cura di Francesca Gallo e Raffaella Perna (catalogo Cartografica) e realizzata in collaborazione con l’Archivio Ketty La Rocca di Michelangelo Vasta, raccoglie una vasta selezione di opere basate sul rapporto tra linguaggio verbale e corpo, fulcro della poetica dell’artista.

Le prime opere di Ketty La Rocca sono riconducibili all’interno della poetica della poesia visiva portata avanti negli anni sessanta dal Gruppo 70 a Firenze. Successivamente l’artista si confrontò pionieristicamente con le tecniche espressive più avanzate della sua epoca, quali il videotape, l’istallazione e la performance. Si concentrò infine sul linguaggio del corpo e sul gesto arrivando a servirsi delle radiografie del suo cranio e della sua stessa grafia.

La sua ricerca ultima, vicina all’arte concettuale, approdò alle Riduzioni in cui le immagini vengono ricondotte, per graduale trasfigurazione, a segni astratti.
Inizia il suo percorso artistico lavorando nell’ambito della “poesia visiva”, analizzando lo stereotipo femminile offerto dai media e dalla pubblicità. La sua è un’interpretazione ironica ma allo stesso tempo tagliente, l’artista si concentra sulle parole e su i segni, realizzando una sorta di collage.

La poesia visiva, nasce da tutte quelle sperimentazioni artistiche e letterarie compiute nel clima delle Neoavanguardie, a partire dall’inizio degli anni sessanta. La poesia visiva che ha visto La Rocca come esponente esemplare, pone in un unico contesto le potenzialità espressive della parola in relazione all’immagine.

Ideatori e protagonisti sono stati i fiorentini Eugenio Miccini e Leonardo Pignotti che formarono il Gruppo 70, al quale successivamente prenderanno parte Lucia Marcucci, Anna Oberto, Martino Oberto, Luciano Ori, Mirella Bentivoglio, Giuseppe Chiari, Emilio Isgrò, Michele Perfetti, Sarenco, Magdalo Mussio, Ugo Carrega, Roberto Sanesi, Adriano Spatola, Vincenzo Ferrari, Gianfranco Barucchello e la stessa Ketty La Rocca.

I poeti visivi si rendono conto che sia la letteratura sia l’arte stavano utilizzando un linguaggio eccessivamente lontano da quello comune, decidono così, per colmare questa distanza, di creare un moderno volgare, il cui lessico proviene dall’ambito della comunicazione di massa, cioè dai quotidiani, dai rotocalchi, dalla pubblicità e dai fumetti. Ѐ una forma d’arte alquanto discussa e sono stati in molti gli artisti a praticarla, si tratta di quell’arte che riusciva a comunicare tramite la fusione tra immagini e parole miscelate con una sorta di collage, e capaci di dare messaggi profondi e forti, che vanno al di là delle parole, ma anche al di là dell’immagine intesa come forma d’arte.

Attraverso la poesia visiva La Rocca cerca di decontestualizzare i segni e le parole, ed è proprio dal segno decontestualizzato che nasceranno le lettere giganti e le punteggiature, eleganti monogrammi in pvc nero che escono dalla pagina scritta per estendersi nello spazio e attribuiscono all’immagine un valore privilegiato rispetto al testo.

Parallelamente segue il suo interesse per forme di comunicazione di massa, allora nella fase embrionale e di più ampio respiro rispetto ai circuiti ristretti dell’avanguardia: fu consulente di due trasmissioni televisive Nuovi alfabeti e Le mani, destinati alla comunicazione per sordomuti.



Una sorta di fusione tra linguaggio gestuale e testo viene ulteriormente messo in evidenza dalla performance del 1975, Le mie parole e tu, dove a un testo sintatticamente perfetto, ma privo di qualsiasi significato, letto dall’artista, si contrappone l’allocuzione intima, vocativa, accusatoria “tu”, “you”, pronunciata dagli studenti, spettatori.




Ketty si mostra esemplare nell’utilizzare e nel miscelare i più svariati media: dall’iniziale interesse per il collage poetico-visivo, passando per la fotografia, il libro d’artista e infine il video. Il suo lavoro si pone così in un punto di connessione e di passaggio fra le ricerche primo-novecentesche di un’arte totale e le attuali pratiche multimediali.


Il suo lavoro va letto in maniera più esplicita, l’artista non fa altro che tentennare continuamente tra passato, presente e futuro e rende la ricerca ricca di sfaccettature di vario genere, ma nonostante ciò riesce sempre ad essere in grado di non strafare.


L’attenzione che La Rocca aveva per la comunicazione di tipo gestuale, ad esempio, affidata al movimento delle mani, è alla base di molti lavori e del video Appendice per una supplica del 1969, emblematici esempi delle numerose declinazioni del suo universo creativo, ricco di ideologie e teorie. Colpisce inoltre l’attualità del suo messaggio. Ketty si sofferma sul dilagare delle informazioni e riflette tramite la sua opera sull’alienazione dell’individuo.


Il percorso artistico di Ketty non è altro che un lavoro che va a ritroso, iniziando a lavorare sulle parole e passando per il significato di ogni singola lettera, per poi arrivare ad esprimersi solo attraverso le gestualità delle mani, capaci di parlare con estrema immediatezza. In tutta la sua ricerca non farà altro che condurre un percorso che rimbalza continuamente tra l’io e il tu, studi che rendono la sua arte unica nel suo genere.


La mostra si muove su un doppio binario, tematico e cronologico: opere di anni diversi sono raccolte attorno al polo della parola, centrale nella fase verbovisiva e quello del gesto, che invece domina la produzione del decennio successivo.

Insieme a una selezione di circa cinquanta opere scelte tra le più rappresentative delle varie serie dell’artista – dai collage verbovisivi ai cartelli, dai videotape alle sculture sagomate, delle Riduzioni alle Craniologie – l’esposizione propone inoltre alcuni progetti, opere e materiali documentari mai esposti prima in Italia, come ad esempio la documentazione dell’azione Verbigerazione (1973), realizzata nell’ambito della X Quadriennale d’Arte di Roma, recentemente ritrovata nell’archivio dell’ente romano, e l’audio originale della performance Le mie parole, e tu? (1975). Inoltre, è presente un progetto mai realizzato: In principio erat verbum,
un gioco-performance che ribadisce l’interesse di La Rocca per la comunicazione gestuale.



Maria Paola Forlani