Savia non fui
Dante e Sapìa
Fra letteratura e arte
Si è aperta,
fino al 28 ottobre, a cura di Marilena Caciorgna e da Marcello Ciccuto, al
Museo San Pietro la mostra “Savìa non
fui. Dante e Sapìa fra letteratura e arte” (Catalogo Sillabe), promossa dal
Comune di Colle di Val d’Elsa e dall’Arcidiocesi di Siena, Colle Val d’Elsa,
Montalcino con la partecipazione di Opera Civita, dedicata alla figura di Sapìa, gentildonna senese nata Salvani,
protagonista del canto XIII del
Purgatorio di Dante.
La figura emerge per la forte caratterizzazione, con
tratti molto sofferti e risentiti quale interprete dell’invidia. Peccò sì tanto d’invidia da giungere all’insania.
Nonostante il nome, infatti, la zia paterna di Provenzan Salvani, capo della
parte ghibellina, già incontrato da Dante fra i superbi, non fu “savia”
nell’augurarsi la sconfitta dei propri concittadini senesi nella battaglia di
Colle di Val d’Elsa (vv. 109 – 111): “Savia
non fui, avvegna che Sapia / fossi chiamata, e fui delli altrui danni / più
lieta assai che di ventura mia”.
I tratti che
la rappresentano sono in generale quelli degli invidiosi i quali, costretti a
vestire panni ispidi e pungenti dal colore spento, si sostengono fiacchi l’un
altro e tutti, a loro volta, si addossano alla parete del monte. Ma il
dettaglio iconografico più forte che la identifica è il mento alzato, così come
sogliono fare i ciechi, giacchè Sapìa ha gli occhi cuciti da un fil di ferro ed
è dunque costretta ad alzar la testa per vedere ombre dalle strette fessure in
mezzo alle palpebre.
Dunque diventa
decisivo alla comprensione, in questa prima parte del canto XIII l’episodio
dell’incontro dantesco con l’anima della senese Sapìa. Il suo esordio verbale
vede in punta dei versi 94-95 (“O frate mio, ciascuna [anima] è cittadina / d’una vera città; ma
tu vuo’ dire / che vivesse in Italia peregrina”) un’allocuzione prima di tutto
ispirata a fraternità e subito a ruota una correzione al pensiero di Dante in
nome di una superiore coscienza di comunanza, là vigente per i “cittadini” che
hanno adesso una “fraterna condivisione nella speranza dell’unica, autentica
patria, quella celeste, la città ‘onde Cristo è romano’ (Purg., XXXII, v. 102)”
Resta evidente come questa è protagonista della seconda parte del canto, venga
presentata nell’atteggiamento di chi da subito si schiera contro il ricordo di
un mondo di valori politico-civili pervertiti dall’odio comunale o
dell’individualismo di classe o insomma dalla follia dell’invidia quale peccato
sociale: non sarà un caso che proprio i due senesi delle prime due cornici
purgatoriali rappresentino altrettanti esempi di vizi complementari che
scaturiscono dall’uso distorto del potere mondano (nel caso dei senesi poco
dopo ricordati da Sapìa nientemeno che nell’impegno in imprese impossibili,
individualisticamente tentate a tutto danno di una possibile idea di bene
collettivo).
Rispetto
alle stesse parole dantesche e pure virgiliane, l’intervento di Sapìa si
delinea nella chiave di una forte opposizione concettuale – “io fui senese […] s’i fui […] savia non fui […] e fui […] più lieta […] s’i fui […] folle” – da porsi a discredito della
malevola e appunto invidia insufficienza del dire umano che da sempre conduce i
peccatori a desiderare tristemente il contrario della vera sapienza, il
contrario dell’impegno sul terreno fecondato dalla Grazia, mostrando persino
nel proprio nome la distanza abissale che è della parola degli uomini rispetto
ai doni divini.
Come si esprimerà il poeta ancor più chiaramente in Purgatorio XVII, vv, 118-120, “è chi
podere, grazia, onore e fama / teme di perder perch’altri sormonti, / onde
s’attrista sì che ‘l contrario ama”; e come forse lo stesso Dante avverte
l’esigenza di precisare sul suo proprio conto, nel momento in cui pensa di
poter riconoscere l’anima ancora ignota in forza di contrassegni ‘di luogo’ o
‘di nome’ – “spirito’, diss’io, ‘che per salir ti dorme, / se tu se’ quelli che
mi rispondesti, / fammiti conto o per luogo o per nome” – che agli occhi di
Sapìa e di ogni altra anima di questa cornice, impegnata nel dimenticare le
condizioni di un’antica tristitia priva
di Grazia dicono di cose morte e oramai senza valore.
Dante arriva
a contrapporre visivamente il ‘guardare in alto’ dell’anima presa da speranza
di soddisfazione e salvezza – “tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava / in
vista; e se volesse alcun dir ‘Come?’, / Io mento a guisa d’orbo in su levava”
– all’identico atto legato al ricordo della superba bestemmia di Sapìa nel
corso di sua terrena: “[…] tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia, / gridando a Dio:
‘ormai più non ti temo!” (vv. 121 – 122); e, in analogia a questo parallelismo,
l’antica e vergognosa preghiera dell’invidiosa nobildonna (“e io pregava Iddio
di quel ch’e’ volle”, v. 117), così volgarmente superficiale da aver fatto
ritenere possibile l’affermarsi di un privato desiderio sulla volontà divina,
vien fatta scomparire a fronte del nuovo genere di orazione di cui Sapìa è
adesso qui portatrice, maturo di Grazia e conforme al modello delle parole
solidali di un Pier Pettinaio:
[…] e ancor non sarebbe
Io mio dover per penitenza scemo,
se ciò non fosse ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe.
Rispetto ad
altri personaggi muliebri danteschi, Sapìa non ha avuto una larga “fama”
iconografica e si tratta dunque di un soggetto prezioso e raro.
Negli spazi
del Museo San Pietro che, poco più
di un anno fa, dopo importanti lavori di ristrutturazione è stato riconsegnato
alla città del Colle, si raccolgono le testimonianze di miniatori, incisori,
scultori e pittori, interpreti di una figura non convenzionale che, per i
caratteri di umana fragilità con cui è delineata, può considerarsi una sorta di
antieroina della storia medioevale senese. Fra coloro che hanno tramandato
l’immagine del personaggio si segnalano il pittore modenese Adeotato Malatesta,
il grande incisore
francese Gustave Doré,
lo scultore
senese Fulvio Corsini
e l’artista
romano Emilio Ambron autore di uno
straordinario ciclo nel Palazzo Chigi
Saraceni a Siena, commissionato dal conte Guido.
La mostra,
che si inserisce nel calendario delle iniziative organizzate dal Comune di
Colle Val d’Elsa per il 2019, anno in cui ricorrerà il 750º anniversario della Battaglia di Colle, è anche l’occasione per esporre le
opere raffiguranti questa tematica dipinte da Gino Torreni (Empoli, 1925-2015), poliedrico artista afferente all’Epressionismo.
La sua visione di Sapìa è quella di una figura nuda che infierisce, con toni
teatrali e angosciosi, contro i suoi concittadini. Un dramma femminile che si
riscontra anche nelle donne sugli spalti che assistono allo scontro tra le
truppe senesi fiorentine nella piana di San Marziale.
Maria Paola
Forlani
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