Man Ray
Wonderful vision
Oltre cento
immagini fotografiche di Man Ray, in
mostra alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di San Gimignano,
esposizione promossa dai Musei Civici, a cura di Elio Grazioli e prodotta da
Opera-Civita, aperta fino al 7 ottobre,
(catalogo Sillabe), consente agli spettatori
di rileggere il lavoro fotografico di uno dei più significativi artisti del XX
secolo.
Man Ray,
nato Emmanuel Radnitzky (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre
1976), è stato un pittore, fotografo e grafico statunitense del Dadaismo.
Pur essendo
un pittore, fabbricante di oggetti e un autore di film d’avanguardia (Le retour à la raison (1923), Anémic Cinéma con Marchel Duchamp
(1925), Emak-bakia (1926), L’étoile de mer (1928), Le Mystéres du Chateau de dé (1929)
precursori del cinema surrealista, avendo realizzato le sue prime fotografie
importanti nel 1918.
Difficile
parlare di “fotografia dadaista” o “fotografia surrealista”, poiché i dadaisti
odiavano la fotografia, cui contrapponevano il fotomontaggio – Io non sono fotografo titolava il suo
testo-manifesto Raul Hausman -, e il Surrealismo la teneva in disparte, non
potendo ammettere che, legata com’è al reale, potesse cogliere il ‘surreale’.
Ma Man Ray, l’Uomo Raggio, prima di frequentare dadaisti e surrealisti aveva
conosciuto Francis Picabia e Marchel Duchamp. Spiriti liberi e al tempo stesso
fissati, in particolare su quella storia di erotismo e macchina intorno a cui
stavano dipingendo opere, provocatori incalliti ma anche francesi nonchalants ed esprits fins,
amavano lo
scandalo per risvegliare le menti ma non indulgevano in opposizioni e scontri.
A New York
Man Ray aveva fatto poco con la fotografia, ma, l’idea c’era già. Aveva
imparato la tecnica solo per realizzare delle riproduzioni dei propri quadri
per mostrarli a galleristi e possibili acquirenti, al massimo pensava di
prendere degli scatti che gli sarebbero potuti servire come spunto o promemoria
per dei dipinti, mai come immagini autonome. Poi si mette a fotografare gli amici e a volte
anche le loro opere, mettendo a punto una ritrattistica e uno sguardo
sull’oggetto – in un certo senso uno sguardo sul ritratto come oggetto e
sull’oggetto come ritratto – che svilupperà sempre. All’interno di questa
produzione spicca il cosiddetto Allevamento
di polvere (1920), opera di opera, essendo la foto di una parte del Grande Vetro duchampiano, fatta per così
dire a quattro mani con Duchamp, ma ora fotografia ‘autonoma’, non
documentazione, opera a sé stante.
La vera
esposizione creativa avviene a Parigi, dove sbarca il dadaismo il 14 luglio,
festa nazionale, del 1921. E ce n’è ben donde, perché il fermento di idee è
vivissimo, anche dal punto di vista di chi voleva fare fotografia.
Man Ray di
fatto diventa il fotografo del gruppo e il primo grande creatore fotografico
surrealista, senza comunque identificarsi ed essere rinchiuso, anarchico e
irregolare qual è. Tristan Tzara capisce subito che la situazione è particolare
e intitola il suo testo del 1922 La
fotografia alla rovescia, perché qui qualcosa si sta rovesciando: “Non è
più l’oggetto che, intersecando le traiettorie dei suoi punti estremi
nell’iride, proietta sulla superficie un’immagine capovolta. Il fotografo ha
inventato un nuovo metodo: offre allo spazio l’immagine più forte di lui e
l’aria, con le sue mani contratte, con la sua superiorità mentale, la capta e
la tiene in seno. Tra l’altro Man Ray spesso rovescia letteralmente le figure,
mettendole a sottoinsù. Non è la fotografia tradizionalmente intesa, ma non è
neppure dadaista non-fotografia o contro la fotografia; è iniziata l’era
dell’invenzione. Man Ray non finisce mai di inventare o reinventare figure,
composizioni, modi. E tecniche, magari attribuendole al caso: così il
fotogramma, che ribattezza “rayograph”, e la solarizzazione, dagli effetti
strabilianti. In entrambi i casi è la luce l’agente che crea o modifica
direttamente l’immagine. Il rayogramma è l’immagine derivata dall’appoggiare
direttamente gli oggetti sulla lastra, fotografia senza macchina fotografica:
l’effetto è come di fantasmi di oggetti e tutto appare surreale, cioè non
realistico ma avvolto nel mistero, come visto da uno sguardo altro, rivolto
all’interno invece che all’esterno, quello di un “occhio selvaggio”, come va
indicando Breton in quel periodo per teorizzare la possibilità, negata da
altri, di una ‘pittura surrealista’. In quel testo, Il Surrealismo e la pittura, Breton include appunto Man Ray e
proprio come fotografo, celebrandolo come l’uomo sopraggiunto a dimostrare ai
pittori come “proseguire per proprio conto, e con propri mezzi, l’esplorazione
di quella regione che la pittura credeva di potersi riservare”.
Ancora Man
Ray, fotografo per la moda e anche lì rinnova. Si pensi solo all’effetto che fa
l’espressione ‘moda surreale’ e si avrà il senso dell’invenzione di Man Ray:
basta un copricapo incongruo, un oggetto o un gioiello simbolico e allusivo,
una posa o un’espressione estraniata ed estraniante, una solarizzazione e tutto
cambia. A quel punto non guardi più l’abito ma la donna, cioè il centro del
mondo surrealista, la femminilità e l’erotismo, proprio quello che, del resto,
la moda dice di voler vestire.
La mostra
testimonia, nelle sue tappe fondamentali e attraverso alcune opere più famose,
il Man Ray fotografo, ma finalmente con un taglio particolare, solo
apparentemente dato per acquisito ma in realtà sempre rimesso in discussione,
ovvero quello che afferma l’equivalenza tra il fotografo artista, quello di
moda, di pubblicità, di fotografia pura. Ciò che accomuna e lega in un unico
gesto creativo è lo sguardo, quello che trasforma tutto in “meravigliose
visioni”.
Maria Paola
Forlani
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