giovedì 27 luglio 2017

Sassoferrato

Dal Louvre a San Pietro:
la collezione riunita


Uno degli artisti più noti del Seicento per i suoi quadri religiosi è Giovanni Battista Salvi, detto il Sassoferrato dalla città dove nacque nel 1605, posta tra Urbino e Fabriano. Ricevette i primi rudimenti della pittura da suo padre Tarquinio, com’esso pittore. Lavorò in Umbria e specialmente in Roma, dove morì verso il 1685.
Perchè ha sempre affascinato ed interessato un ampio pubblico Sasseferrato ?
E pure non esiste un pittore meno creativo di lui, stucchevole, noioso, ripetitivo; e però sublime. Pittore di essenze e non di esistenze. Sassoferrato non crede alla evoluzione dell’arte. Ha stabilito prima del Bellori il primato di Raffaello e vuole continuare il suo cammino, indifferente al tempo e alla storia.

Sarà interessante verificare un giorno i confini dell’ossessione della ripetività in Sassoferrato, l’annullamento della gerarchia delle repliche – quando autografe e originali – senza discontinuità qualitativa, con lo stesso impegno in una versione o nell’altra. Per lui non c’è un originale e una replica: l’impegno e la concentrazione  sono gli stessi. Sassoferrato, nel suo fare, come ripete se stesso, può ripetere Raffaello senza diminuirlo, tentando di riprodurre la tensione pittorica.

Il suo obiettivo è la perfezione, nell’atarassia, nell’indifferenza, nella contemplazione. E non è un caso che i riferimenti pittorici di Sassoferrato, la cui fedeltà al reale poteva farlo ascrivere fra i naturalisti, siano Guido Reni e Domenichino, idealisti irriducibili, in una condizione intrinsecamente contradittoria. Potremmo dire che Sassoferrato dipinge realisticamente, quasi iperrealisticamente, l’idea, inseguendo un bello senza tempo che ha in Raffaello l’archetipo e in Molcalvo, in Scipione Pulzone, in Carlo Dolci e in lui – come più tardi in Overbeck e nei Nazareni – gli interpreti irriducibili di quel mondo.

Dopo più di due secoli è tornata a casa l’Immacolata Concezione, capolavoro di Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato. La magnifica pala, oggi al Museo del Louvre, venne trasferita in Francia da Dominique-Vivant Denon, direttore del Museo Napoleon; da allora non è più rientrata in Italia. Era tra i tesori della millenaria abbazia benedettina di san Pietro a Perugia.

L’Immacolata Concezione del Louvre è esposta (fino al 01 ottobre 2017), accanto a una quarantina di dipinti, in parte del Sassoferrato (ben 17) eseguite per il complesso benedettino di San Pietro e in parte di famosi maestri ai quali l’artista si ispirò, come Pietro Perugino, il grande maestro umbro lungamente studiato da Sassoferrato.
L’intento del percorso espositivo è quello di far capire quanto il pittore rinascimentale abbia influito sulla visione dell’artista seicentesco, a cominciare dalla purezza formale delle immagini. Pari interesse Sassoferrato riservò alle opere di Raffaello. In mostra sono state messe a confronto due copie della deposizione Borghese di Raffaello, la prima di Orazio Alfani, la seconda di Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino, proveniente dalla Galleria Nazionale dell’Umbria, con la bella versione dipinta da Sassoferrato nel 1639. Uno spazio significativo viene riservato anche alla cosiddetta Madonna del Giglio, immagine devozionale che assicurò grande notorietà al Sassoferrato: in mostra sono presenti tre versioni: le prime due vengono da Modena e da Bologna, la terza è di proprietà della Fondazione per l’Istruzione Agraria. In queste opere l’artista riprende un’antica immagine di culto realizzata da Giovanni di Pietro detto lo Spagna, dotassimo seguace di Perugino e Raffaello.

Di fronte a opere del genere, gli studiosi si sono legittimamente chiesti fino a che punto la pittura del Sassoferrato debba essere considerata originale. In realtà, e la mostra lo conferma in pieno, sarebbe sbagliato considerare il Salvi un mero imitatore, perché, come ha acutamente osservato Federico Zeri, egli non si limita a copiare le opere degli artisti presi a modello ma aggiunge sempre la sua personale interpretazione. Ciò emerge chiaramente dal confronto tra la bellissima Madonna del Tintoretto e la versione di mano del Sassoferrato, dove le forme turgide e quasi sensuali del pittore veneto vengono riproposte dal Salvi con un linguaggio più asciutto e temperato. In mostra non mancano, d’altra parte, opere in cui l’artista si palesa in tutta la sua eccezionale originalità. Ecco dunque la Giuditta con la testa di Oloferne, un dipinto che non è esagerato includere tra i capolavori del Seicento italiano, la grande Annunciazione della Vergine, opera di rara finezza esecutiva, i santi Benedetto, Barbara, Agnese e Scolastica, lavori in cui l’artista, pur rispettando l’autorità dei modelli, mette da parte ogni forma di deferente imitazione. Esemplari, in tal senso, è anche la Madonna con il Bambino e santa Caterina da Siena (Fondazione Cavallini Sgarbi), autentico vertice della pittura religiosa del Seicento.
Tutte le opere del Salvi conservate in San Pietro furono commissionate dall’abate Leone Pavoni che resse per lunghi anni la comunità benedettina di San Pietro.
Era di sua proprietà la magnifica Santa Francesca Romana con l’angelo, oggi custodita nella sagrestia della Basilica, per lunghi anni attribuita a Caravaggio, in realtà capolavoro di Giovanni Antonio Galli detto Spadarino, uno degli interpreti fedeli del maestro lombardo. In omaggio all’abate Pavoni, singolare figura di committente e collezionista, anche questo capolavoro si può ammirare tra le opere esposte nella mostra di San Pietro a Perugia.
La cura della mostra, arricchita da alcuni documenti inediti, è di Cristina Galassi, con la collaborazione di Vittorio Sgarbi. L’itinerario espositivo ha così il compito di dare luce a un artista efficacemente definito da Adolfo Venturi “un quattrocentista smarrito nel Seicento”:

La collaborazione con il Museo del Louvre, con la Galleria Nazionale dell’Umbria, con la Galleria delle Marche e con altre istituzioni pubbliche e private, certamente accrescerà, con questo evento, l’interesse verso Sassoferrato, originale artista del Seicento, ma rilancerà, al tempo stesso, il complesso di san Pietro, seconda realtà museale dell’Umbria dopo la Galleria Nazionale dell’Umbria nonché luogo che tuttora emana il fascino della sua storia millenaria.


Maria Paola Forlani

mercoledì 19 luglio 2017

MAGISTER GIOTTO

Magister

Giotto


Intorno alla figura di Giotto di Bondone (Colle di Vespignano, Firenze, 1266 c. – Firenze, 1337) sono fiorite, fin dal XIV e XV secolo, molte leggende, fra le più note delle quali è quella che narra come Cimabue avrebbe scoperto casualmente le doti innate di Giotto, giovane e povero pastore sui monti del nativo Mugello, scorgendolo mentre era intento a ritrarre una pecora su un sasso e conducendolo poi con sé in città per istruirlo.

L’aneddoto, pubblicato per la prima volta da Lorenzo Ghiberti nel 1455, riflette le idee della storiografia antica, perché, come altri anteriori, sottolinea la facoltà del pittore di essere, secondo quanto dirà il Vasari, <<buono imitatore della natura>> ancor più di Cimabue e, per questo, precursore delle teorie rinascimentali, senza che nessuno potesse averglielo insegnato, data l’epoca in cui – lo afferma un autore del Seicento - <<ancor bambina avvolta in fasce se ne stava la pittura>>.

Questa valutazione di Giotto, la cui importanza è vista solo in funzione degli artisti successivi, è antistorica. La sua pittura non deve essere giudicata come preparazione, ma di per se stessa, nell’ambito dell’età in cui è nata.
Il valore del pittore non consiste certo nel saper imitare la natura, ma nel riuscire a esprimere la propria concezione del mondo e quella della sua società. Questa è la grandezza di Giotto: egli è interprete della collettività borghese, laica e religiosa al tempo stesso, una collettività che crede nell’importanza del lavoro attraverso il quale al servizio dell’intelligenza si può dare forma alle cose, costruire città, chiese, case, ornarle con affreschi e sculture.

Giotto, sceso dai monti del Mugello nella vicina Firenze, sarebbe stato dunque allievo di Cimabue, secondo l’antichissima tradizione, che si è voluta talvolta negare, ma che è invece accettabile perché egli eredita dal maestro proprio questa concezione e il senso del volume, realizzato con il chiaroscuro ed enucleato con la linea di contorno.
Il 16 settembre 2017 alcuni massimi esperti di Giotto si daranno appuntamento a Vicchio nel Mugello per un convegno dal titolo <<Intorno a Giotto nel suo Mugello a 750 anni dalla nascita. Approfondimenti critici e nuove ipotesi>>.

Mentre “Giotto, grande artista del Trecento, comunicato con linguaggi contemporanei a chi vive il mondo oggi” viene proposta alla Scuola Grande della misericordia a Venezia fino al 5 novembre con il titolo “Magister Giotto”.

Questo spettacolo è un format realizzato dalla società Cose Belle d’Italia Entertainment, con la direzione artistica del regista Luca Mazzieri, l’apporto dell’architetto Alessandra Costantini e il supporto di un comitato scientifico composto da storici dell’arte (Alessandro Tomei, Serena Romano, Stefania Paone), filologi classici (Giuliano Pisani) e astronomi (Cesare Barbieri).

La trama del racconto l’hanno scritta loro. Il visitatore entra nel vasto atrio della Scuola Grande della Misericordia (d’impronta sansoviniana) e viene inizialmente attratto dalla riproduzione di un colossale crocefisso giottesco visto dal retro.
Indossa le cuffie e viene invitato a salire al piano superiore.
Qui inizia l’avventura. Con la voce narrante di Luca Zingaretti e le musiche originali di Paolo Fresu, Magister Ioctus ci viene presentato in nove tappe. Nella prima si spiega perché Giotto fu così innovativo: voce narrante e colossali ingrandimenti ci fanno capire che il maestro puntò alla verità delle cose e alla profondità dei sentimenti. La seconda tappa è una visita agli affreschi di Assisi, la terza ci offre un volo d’uccello sui i luoghi d’Italia che videro presente e operante l’artista (Assisi, Rimini, Padova, Bologna, Roma, Napoli, Milano e Firenze). Nella quarta sezione assistiamo a un’experience

impossibile nella realtà: vediamo riprodotti, accostati, ingranditi e spiegati tutti i Crocefissi concepiti da Giotto. La voce suadente di Luca Zingaretti ci invita poi a scoprire le celebri “leggende” giottesche (la storia della pecora dipinta sul sasso e quella dell’<<O>> perfetta tracciata a mano libera) e successivamente ci porta a cercare Giotto nella sua Firenze (la pianta della città è sotto i nostri piedi, sul pavimento). Si approda quindi a Padova, dentro la Cappella degli Scrovegni, e se ne esce con tutte le informazioni utili per andare a visitarla in situ.

Ma il vero colpo di scena è alla fine. Un film ci mostra come l’Agenzia Spaziale Europea organizzò nel 1986 una missione spaziale  (detta Missione Giotto) per andare a fotografare da vicino (a soli 600 chilometri!) la cometa di Halley, la stessa che Giotto vide nei cieli di Padova e dipinse nella Cappella degli Scrovegni, nella scena dell’Adorazione dei Magi. Un finale inatteso, davvero emozionante,
Dopo Venezia, Magister Giotto andrà in Giappone (2018), mentre già si lavora ad altri format su Canova e su Raffaello.



Maria Paola Forlani

giovedì 13 luglio 2017

ASTRID KIRCHHERR

Astrid Kirchherr

With the Beatles


Fondazione Carisbo e Genus Bononiae – Musei della Città, in collaborazione con ONO arte contemporanea, Ginzburg Fine Arts e Kai-Uwe Franz, hanno realizzato a Bologna, a Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni, la mostra Astrid Kirchherr with the Beatles, aperta fino il 9 ottobre, (catalogo Damiani). La retrospettiva  ripercorre la storia dei cosiddetti “Hamburg Days”, gli anni formativi dei Beatles nell’Amburgo del dopo guerra e tappa fondamentale della cultura pop, attraverso gli scatti della fotografa Astrid Kirchherr (1938), che non solo immortalò il gruppo quando ancora si stava formando, ma ne influenzò profondamente lo stile trasformandolo in quello che tutti conosciamo.

La Kirchherr incontra per la prima volta i Beatles nel 1960 al Kiserkeller, uno dei molti locali sulla Reeperbahn in cui le giovani band inglesi venivano messe sotto contratto a pochi marchi per suonare Rock’n Roll tutta la notte ed intrattenere i molti soldati americani di stanza nella città dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La band era allora composta da John Lennon, voce e chitarra, Paul McCartney, voce e chitarra, George Harrison, chitarra, Pete Best, batteria e Stuart Suicliffe, basso, cinque ragazzini di Liverpool – Harrison all’epoca non era neanche  maggiorenne – conosciutisi a scuola e in cerca di un po’ di denaro e un po’ di esperienza oltremanica.
La Kirchherr all’epoca era studentessa al politecnico e assistente del celebre fotografo Reinhard Wolf, da cui stava imparando la fotografia, e venne a sapere della band grazie all’amico e allora fidanzato Klaus Voormann – che avrebbe in seguito disegnato la copertina del settimo album dei Beatles, Revolver –e da subito rimase affascinato dalla presenza scenica
e dalla qualità del gruppo che allora alternava cover dei grandi classici del Rock alle proprie primissime canzoni. I Beatles dal canto loro furono ovviamente attirati da una delle poche coetanee che tentava di parlare inglese ad Amburgo, ma che presto si rivelò anche grande fonte di ispirazione ed esempio di apertura verso una cultura europea ancora del tutto sconosciuta ai ragazzi cresciuti nella periferia inglese.

L’amicizia tra Astrid e i Beatles crebbe in fretta e salda. La Kirchherr introdusse il gruppo all’arte e alla letteratura esistenzialista, portando in loro un drastico cambiamento nello stile: le giacche di pelle, gli stivali alla texana e i capelli con la banana lasciarono presto posto a completi, camice e al più minimale taglio a caschetto che anche la fotografa sfoggiava e che sarebbe diventato presto uno dei simboli della band. Sutciliffe, in seguito si legò anche sentimentalmente alla Kirchherr al punto da chiederle di sposarla e lasciare la band per rimanere con lei ad Amburgo, e seguire una carriera nel mondo della pittura. Da allora i Beatles rimasero in quattro e presto Best venne sostituito da Ringo Starr. Sutcliffe sarebbe morto dopo appena due anni di emorragia cerebrale, mentre i Beatles stavano diventando un fenomeno di massa. I Beatles e la Kirchherr però rimasero legati da profonda amicizia e la fotografa fu una delle poche che poté seguire la band anche negli anni successivi quando ormai erano all’apice della carriera, regalandoci scatti memorabili ma anche intimi e privati, tra vacanze rubate, e week end in giro per l’Europa. I Beatles dal canto loro, cercarono sempre di ricreare quei primi anni di Amburgo, sia stilisticamente che visivamente, per molto del tempo a venire.

La Kirchherr fu la prima ad immortalare i Beatles in un vero e proprio servizio fotografico posato regalandoci scatti oramai entrati nella storia ma che erano pressochè sconosciuti fino agli anni ’90, e inoltre fu l’unica fotografa ammessa sul set “Hard Day’s Night”, il primo film della band.

Nella retrospettiva della carriera di Astrid Kirchherr, le fotografie scattate nel 1964 a Liverpool e dintorni rivestono una grande importanza: per la prima volta viene utilizzata una pellicola da 35mm invece del medio formato, cercando ritratti con tagli più ampi. Ѐ interessante osservare come Astrid abbia saputo adattarsi a queste nuove condizioni: il set, che normalmente preparava e disponeva con cura e meticolosità, era diventato un ambiente privo di un copione in cui le possibilità di controllo erano molto limitate. In questa serie emerge la dicotomia della vita di una celebrity sul set e quando i riflettori si spengono: i componenti della band che interpretano una versione di se stessi mentre si spengono: i componenti della band che interpretano una versione di se stessi mentre la cinepresa gira e poi, tra le riprese, quando scherzano, riposano, fumano una sigaretta, e interagiscono in modo naturale. Il contrasto è evidente: si noti il cambio di stie tra le fotografie sul set, dove appaiono più seri e composti e quelle tra una scena e l’altra, in cui sono rilassati e fanno smorfie all’obiettivo.

Catturando questi motivi durante i tempi morti della lavorazione del film, Astrid fissa istanti di intimità in cui i membri della band si offrono alla macchina fotografica con familiarità e amicizia, guardano oltre l’obiettivo, verso una cara amica. Ad esempio, in uno scatto Ringo Starr   ruba il cappello di Astrid e fa smorfie all’obiettivo mentre John Lennon spiega qualcosa. Oppure in un altro Paul McCartney viene sorpreso mentre si ridesta dalla lettura assorta di un giornale.
Seguendo il lavoro su vari set di Hard Day’s Night, Kircheherr e il collega Scheler si addentarono nei dintorni di Liverpool, catturando scene urbane tetre e aeree ancora dilaniate dalla guerra. Al The Cavern Club, Astrid chiede di scattare una foto ad un bambino che in cambio chiede una sigaretta con la scioltezza propria di un adulto.
Ѐ una fotografia scioccante per gli standard odierni, ma che cattura e restituisce in modo estremamente naturale la gioventù di Liverpool del 1964. Ancora una volta l’obiettivo di Astrid ha catturato uno stile.

In seguito Astrid e Max fotograferanno alcuni ragazzini, membri di una band, gli Arrow and The Archers. In pochi scatti Astrid ci riporta indietro al 1960, quando per la prima volta immortalava i Beatles ad Amburgo: ragazzi che amano la musica, i loro strumenti e uno sfondo industriale. L’ambiente circostante è tetro, ma l’immagine promette una rinascita.



Maria Paola Forlani

mercoledì 12 luglio 2017

FRANCESCO VERLA

Viaggi e incontri di un artista dimenticato

Il Rinascimento di
Francesco Verla


Si è aperta fino al 6 novembre 2017 al Museo Diocesano Tridentino la mostra Viaggi e incontri di un artista dimenticato. Il Rinascimento di Francesco Verla, la prima monografia mai dedicata a questo singolare pittore, noto per lo più agli studiosi, ma poco al grande pubblico. L’esposizione, curata da Domizio Cattoi e Aldo Galli, conclude un complesso percorso di ricerca sviluppato in collaborazione con il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trento. L’indagine ha fatto emergere numerosi dati inediti, nuove attribuzioni e documenti finora sconosciuti che vanno a riempire significative lacune nella conoscenza di un artista di notevole importanza per la storia dell’arte locale.

Nato presso Vicenza, Francesco Verla ebbe una carriera itinerante che lo portò nei primi anni in Umbria, dove conobbe il grande Pietro Perugino, e a Roma, governata allora da papa Alessandro VI Borgia. Qui si diede allo studio dell’arte antica e delle rovine del Palazzo di Nerone, la famosa Domus Aurea, dove scoprì quel genere di decorazioni – allora di gran moda – che erano dette “grottesche”, Queste esperienze rimarranno indelebili nella sua memoria e il pittore vicentino sarà tra i primi a diffondere a nord del Po un repertorio fatto di dolcissime figure devote e di cornici estrose e bizzarre che lo distinguono nettamente dai contemporanei.

Rientrato in patria, Verla si afferma presto come uno dei pittori più apprezzati di Vicenza, partecipando al cantiere simbolo del Rinascimento in città, quello della chiesa di San Bartolomeo, sciaguratamente distrutto nell’Ottocento. Una grande, bellissima pala d’altare dipinta per una cappella di quell’edificio è stata identificata in quest’occasione ed è presente in mostra. Il precipitare della situazione politica, che vede Vicenza pesantemente coinvolta nella guerra che contrapponeva la Repubblica di Vicenza e l’Impero Asburgico, spinge il pittore a trasferirsi prima a Schio, dove lascia uno dei suoi quadri più ispirati (anch’esso in mostra), e poi, nel 1513, in Trentino.
Qui si fermerà per diversi anni, lavorando, oltre che nella città vescovile, a Terlago, a Seregnano, a Calliano, a Mori e a Rovereto, dove prese dimora e dove morì, ancora giovane, nel 1521. In una terra ancora  profondamente legata a stilemi gotici, Francesco Verla fece da apripista al rinnovamento culturale e artistico che di lì a poco si sarebbe sviluppato mirabilmente grazie all’azione del principe vescovo Bernardo Cles.

La perdita di molti suoi lavori, il successivo arrivo alla corte clesiana di artisti di prima grandezza come Romanino, Dosso Dossi e Marcello Fogolino, e anche un certo imbarazzo della critica davanti alla sua diversità rispetto ai pittori veneti contemporanei, ne hanno a lungo oscurato i meriti. Per il pubblico Verla è dunque oggi un artista ‘dimenticato’. Da qui nasce l’urgenza di riscoprirlo e di rivalutarne il ruolo di alfiere del Rinascimento tra l’Adige e le Alpi.

La mostra riunisce per la prima volta la gran parte delle opere di Francesco Verla, alcune delle quali restaurate per l’occasione: un corpus di sedici opere – soavi pale d’altare, affreschi e bizzarri fregi a grottesche – radunato grazie a prestiti provenienti da numerose istituzioni nazionali e chiese del vicentino e trentine. L’itinerario di visita, che intreccia opere note ad altre pressochè inedite, svela al visitatore la singolare personalità artistica del Verla e permette di misurarne i debiti con Pietro Perugino e Bartolomeo Cincani, detto il Montagna, maestro della civiltà figurativa vicentina tra XV e XVI secolo. Per ricostruire al meglio i contesti storici e stilistici dell’epoca, sono poste in mostra a confronto con opere del Verla una pala del Montagna proveniente da san Giovanni Ilarione, già a Vicenza, una scultura lignea di bottega veronese della fine del XV secolo e un dipinto legato al mondo figurativo di Pietro Perugino.

Apre l’itinerario espositivo la Madonna in trono col Bambino tra i Santi Antonio Abate e Pietro martire (1503 1505), proveniente da Velo d’Astico, chiesa di Santi Martino e Giorgio. Al centro del dipinto, innalzata su di un maestoso trono alla cui base figurano due putti alquanto distratti, siede la Madonna che con lo sguardo abbassato e con gesto di amorevole affetto offre la mano al Bambino, seduto sul suo ginocchio, che le stringe il pollice. Il piccolo si rivolge a sinistra verso il probabile San Pietro martire immerso nella lettura, a cui sembra indirizzarsi anche lo sguardo di Sant’Antonio Abate. La scena, che si svolge all’interno di una costruzione architettonica con volta a botte, è inquadrata da un’arcata dorata, finemente decorata con motivi a candelabre, che si apre all’esterno lasciando intravedere una porzione di paesaggio e un limpido cielo azzurro.

Opera della maturità è invece Madonna in trono col Bambino, due angeli, San Giuseppe e San Francesco 1520, proveniente dalla Pinacoteca di Brera di Milano.
Su di un singolare trono, il cui basamento mostra in finto bassorilievo la scena del Peccato originale, si erge monumentale il gruppo della Madonna con il Bambino affiancato da due angeli che sorreggono i lembi dell’ampio mantello della Vergine. Essi rivolgono lo sguardo ai due santi inginocchiati ai piedi del baldacchino: San Francesco ci guarda mentre indica con la mano sinistra San Giuseppe che si rivolge a mani giunte alla Madonna.

La composizione è esemplata sul modello della Madonna della Vittoria di Andrea Mantegna, probabilmente attraverso la mediazione del vivace schizzo di Berlino, presente in mostra. Anche la pala mantovana non è direttamente collegata alla questione immacolista, quindi si potrebbe pensare semplicemente che quei prestiti iconografici ( peccato originale) siano da motivare solo in ragione della fortuna del modello. Tuttavia, l’immagine della Madonna che, secondo la radicata convenzione iconografica della nuova Eva, si erge al di sopra del peccato dei progenitori, offriva uno spunto che ben poteva essere adottato e fatto filtrare negli ambienti francescani proprio in virtù della popolarità dell’immacolata.

In accordo con l’orientamento stilistico della tarda produzione di Verla, la misurata grazia centroitaliana degli esiti di inizio secolo non è più avvertibile nell’opera in esame, se non fosse nei due angeli ai fianchi della Vergine. L’opera presenta anzi una discrepanza stilistica abbastanza netta rispetto del corpus di Verla, particolarmente leggibile nel gruppo della Madonna con il Bambino; quei volti tondi, trasognati, quasi fanciulleschi, cui il vicentino ci aveva abituato nelle sue immagini della Vergine, sono rimpiazzati qui da un maturo viso ovale, la cui forma allungata rispecchia quella innaturale del corpo di Gesù; indizi sufficienti per interrogarci sull’eventualità che qualche allievo, magari lo stesso figlio Alessandro, possa aver preso parte all’esecuzione dell’ultima opera nota tra quelle firmate da Verla.
Se insomma non può non ravvisarsi nella tela di Brera un certo affanno traducibile nella sensazione di precarietà dell’impianto compositivo, trovo condivisibile l’opinione di Lucco che riconosce nell’ancona una tra le opere “più sostenute e di maggior impegno” fra quelle dipinte da Verla nell’ultimo tratto della sua vita.


Maria Paola Forlani

DAVID HOCKNEY

David Hockney

82 ritratti e una natura morta


Tra i più noti ed affermati artisti contemporanei, David Hockney (Bradford, 9 luglio 1937) divine uno dei principali esponenti della Pop art anglosassone dall’inizio degli anni sessanta. Viaggia spesso per gli Stati Uniti, si trasferisce poi stabilmente in California. Fa dell’elemento figurativo il cardine della propria produzione artistica, che non si limita alla pittura. Ѐ infatti incisore, disegnatore e ritrattista, nonché fotografo ed autore di alcuni collage fotografici realizzati con la Polaroid.

Hockney è anche scenografo. Lavora all’Ubu re di Alfred Jarry, allestito al Royal Court Theatre di Londra nel 1963. Negli anni settanta realizza le scenografie de La carriera di un libertino per il Glyndebourne Festival Opera del 1974, e de Il flauto magico al Metropolitan Opera di New York del 1978. Nel 1994 disegna i costumi della Turandot messa in scena alla San Francisco Opera.

Due grandi esposizioni celebrano a livello internazionale l’ottantesimo compleanno del grande artista inglese, e californiano d’elezione, David Hockney. Tuttora attivissimo è la dimostrazione vivente che la pittura, nel senso pieno e felice del termine, continua a essere una forma essenziale di espressione visiva in presa diretta con lo spirito del tempo attuale, pur mantenendo profondi legami con la più alta tradizione del passato.
La mostra al museo di Ca’ Pesaro, a cura di Ediyh Devaney, con la direzione
scientifica di Gabriella Belli, aperta fino al 22 ottobre 2017,  (che proviene dalla Royal Accademy di Londra e farà tappa anche al Guggenheim di Bilbao e al Los Angeles County Museum) è concentrata su un solo ampio ciclo di ritratti, che mette in luce un aspetto fondamentale della ricerca dell’artista, mentre al Centro Pompidou di Parigi si è da poco inaugurata una straordinaria retrospettiva, con oltre 160 opere, realizzata in collaborazione con la Tate Britain e con il Metropolitan Museum di New York.

La mostra veneziana, che si intitola <<82 ritratti e una natura morta>> (dove la presenza “incongrua” di un dipinto di altro genere è un acuto e ironico avvertimento), è un impegnativo tour de force, realizzato nel periodo 2013-2015, che Hockney ha concepito come una sorta di immenso polittico unitario, una rigorosa e allo stesso tempo polifonica festa cromatica, sociale e fisiognomica formata da personaggi maschili e femminili, giovani e vecchi, famosi e sconosciuti, in gran parte suoi amici e conoscenti. Ne emerge con forza la rappresentazione di uno spaccato di umanità, quella del suo mondo, che galleggia serenamente in una dimensione lontana dagli aspetti più inquietanti e drammatici della realtà contemporanea.

Hockney è considerato, secondo un giudizio banalmente stereotipato, come il cantore dell’edonismo californiano, quello delle ville e delle piscine dei ricchi, delle scene di esterni ed interni immerse in atmosfere luminosamente abbaglianti, della libertà gay, degli sgargianti paesaggi monumentali.
Questi sono i soggetti più noti dell’artista, ma la sua ricerca pittorica nel segno della triade<<luxe, calme et voluptè>>, che vuole cogliere l’essenza della <<joi de vivre>> (il riferimento a Matisse mi pare essenziale), è qualcosa che nasconde nella superficie stessa della composizione una profonda e enigmatica tensione melanconica, quella che nasce dal sogno di fissare in un illusoria dimensione spazio-temporale sospesa la fragilità effimera dell’esistenza umana. In questo senso i suoi ritratti rappresentano forse gli esempi di più pregnante intensità espressiva, nella misura in cui riescono letteralmente a inquadrare la vita come specifica individualità, fornita di nome e cognome. Dunque una serie di ritratti; la catalogazione di un universo personale, ma anche una tassonomia dei tipi umani; una riflessione sulla pittura come medium e, ovviamente, un grande, debordante self portrait.
La mostra “David Hockney – 82 ritratti e una natura morta” può essere contemporaneamente tutte queste cose, oltre che una lezione straordinaria sui modi in cui si può dipingere una sedia, sempre la stessa sedia, sulla quale il pittore inglese ha fatto accomodare, per non più di tre giorni di posa, amici, conoscenti, persone con cui lavora. Insomma un contesto per certi versi quotidiano, anche se alcuni dei personaggi ritratti si chiamano Gagosian, come il gallerista Larry, oppure Baldessari, come John, il grande artista americano.

La mostra di Ca’ Pesaro, allestita con la stessa generosità coloristica di tutti i ritratti, è un’esperienza visiva che induce a pensare alla pittura più pura: lo sfondo bicromo di ogni dipinto ricorda le grandi campiture dell’astrattismo più consapevole; oggetti trovati cari alla poetica surrealista, mentre la tavolozza di colori, talmente ricchi da sembrare quasi immaginari, è completamente Hockney, una specie di marchio di fabbrica del pittore di “A bigger splash”, qui ancora più consapevole dello strumento espressivo che impugna.

Il riferimento all’autoritratto è inevitabile, anche a costo di sembrare un po’ scontato, ma se sembra quasi naturale cercare le fattezze del pittore nel ritratto di Barry Hunphries, attore e scrittore australiano vistosamente abbigliato, meno prevedibile è che si possa trovarla anche nella giovane Oona Zlamany con i capelli sciolti e un vestitino corto a righe orizzontali. Ma poi ci si avvicina e si vede, distintamente, che quello non è un vestito estivo, ma è pittura e la pittura è il vero ritratto di David Hockney.

Naturalmente, come accade per chiunque pensi alla pittura figurativa, i ritratti esposti a Venezia finiscono inevitabilmente per andare a sbattere contro Francis Bacon, ma l’incidente per una volta, non lascia danni, anzi, la grandezza di Hockney si manifesta appieno nella consapevolezza e nel contestuale superamento della imprescindibile lezione Bacon, il tutto fatto con leggerezza, ma senza perdere la serietà del lavoro.
E così, quando a fine mostra ci si imbatte fisicamente nella sedia su cui ha posato ogni soggetto, è impossibile non sedercisi, ma più che per immaginare di essere, parafrasando Giulio Paolini, una persona che osserva David Hockney, lo si fa per sentirsi parte tangibile di un modo di stare nell’arte contemporanea probabilmente come pochissimi al mondo.



Maria Paola Forlani