Viaggi e incontri di un
artista dimenticato
Il Rinascimento di
Francesco Verla
Si è aperta
fino al 6 novembre 2017 al Museo Diocesano Tridentino la mostra Viaggi e incontri di un artista dimenticato.
Il Rinascimento di Francesco Verla, la prima monografia mai dedicata a
questo singolare pittore, noto per lo più agli studiosi, ma poco al grande
pubblico. L’esposizione, curata da Domizio Cattoi e Aldo Galli, conclude un
complesso percorso di ricerca sviluppato in collaborazione con il Dipartimento
di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trento. L’indagine ha
fatto emergere numerosi dati inediti, nuove attribuzioni e documenti finora
sconosciuti che vanno a riempire significative lacune nella conoscenza di un
artista di notevole importanza per la storia dell’arte locale.
Nato presso
Vicenza, Francesco Verla ebbe una carriera itinerante che lo portò nei primi
anni in Umbria, dove conobbe il grande Pietro Perugino, e a Roma, governata
allora da papa Alessandro VI Borgia. Qui si diede allo studio dell’arte antica
e delle rovine del Palazzo di Nerone, la famosa Domus Aurea, dove scoprì quel
genere di decorazioni – allora di gran moda – che erano dette “grottesche”,
Queste esperienze rimarranno indelebili nella sua memoria e il pittore
vicentino sarà tra i primi a diffondere a nord del Po un repertorio fatto di
dolcissime figure devote e di cornici estrose e bizzarre che lo distinguono
nettamente dai contemporanei.
Rientrato in
patria, Verla si afferma presto come uno dei pittori più apprezzati di Vicenza,
partecipando al cantiere simbolo del Rinascimento in città, quello della chiesa
di San Bartolomeo, sciaguratamente distrutto nell’Ottocento. Una grande,
bellissima pala d’altare dipinta per una cappella di quell’edificio è stata identificata
in quest’occasione ed è presente in mostra. Il precipitare della situazione
politica, che vede Vicenza pesantemente coinvolta nella guerra che
contrapponeva la Repubblica di Vicenza e l’Impero Asburgico, spinge il pittore
a trasferirsi prima a Schio, dove lascia uno dei suoi quadri più ispirati
(anch’esso in mostra), e poi, nel 1513, in Trentino.
Qui si fermerà per diversi
anni, lavorando, oltre che nella città vescovile, a Terlago, a Seregnano, a
Calliano, a Mori e a Rovereto, dove prese dimora e dove morì, ancora giovane,
nel 1521. In una terra ancora profondamente legata a stilemi gotici,
Francesco Verla fece da apripista al rinnovamento culturale e artistico che di
lì a poco si sarebbe sviluppato mirabilmente grazie all’azione del principe
vescovo Bernardo Cles.
La perdita
di molti suoi lavori, il successivo arrivo alla corte clesiana di artisti di
prima grandezza come Romanino, Dosso Dossi e Marcello Fogolino, e anche un
certo imbarazzo della critica davanti alla sua diversità rispetto ai pittori
veneti contemporanei, ne hanno a lungo oscurato i meriti. Per il pubblico Verla
è dunque oggi un artista ‘dimenticato’. Da qui nasce l’urgenza di riscoprirlo e
di rivalutarne il ruolo di alfiere del Rinascimento tra l’Adige e le Alpi.
La mostra
riunisce per la prima volta la gran parte delle opere di Francesco Verla,
alcune delle quali restaurate per l’occasione: un corpus di sedici opere – soavi pale d’altare, affreschi e bizzarri
fregi a grottesche – radunato grazie a prestiti provenienti da numerose istituzioni
nazionali e chiese del vicentino e trentine. L’itinerario di visita, che
intreccia opere note ad altre pressochè inedite, svela al visitatore la
singolare personalità artistica del Verla e permette di misurarne i debiti con
Pietro Perugino e Bartolomeo Cincani, detto il Montagna, maestro della civiltà
figurativa vicentina tra XV e XVI secolo. Per ricostruire al meglio i contesti
storici e stilistici dell’epoca, sono poste in mostra a confronto con opere del
Verla una pala del Montagna proveniente da san Giovanni Ilarione, già a
Vicenza, una scultura lignea di bottega veronese della fine del XV secolo e un
dipinto legato al mondo figurativo di Pietro Perugino.
Apre
l’itinerario espositivo la Madonna in
trono col Bambino tra i Santi Antonio Abate e Pietro martire (1503 1505),
proveniente da Velo d’Astico, chiesa di Santi Martino e Giorgio. Al centro del
dipinto, innalzata su di un maestoso trono alla cui base figurano due putti
alquanto distratti, siede la Madonna che con lo sguardo abbassato e con gesto
di amorevole affetto offre la mano al Bambino, seduto sul suo ginocchio, che le
stringe il pollice. Il piccolo si rivolge a sinistra verso il probabile San
Pietro martire immerso nella lettura, a cui sembra indirizzarsi anche lo
sguardo di Sant’Antonio Abate. La scena, che si svolge all’interno di una
costruzione architettonica con volta a botte, è inquadrata da un’arcata dorata,
finemente decorata con motivi a candelabre, che si apre all’esterno lasciando
intravedere una porzione di paesaggio e un limpido cielo azzurro.
Opera della
maturità è invece Madonna in trono col
Bambino, due angeli, San Giuseppe e San Francesco 1520, proveniente dalla
Pinacoteca di Brera di Milano.
Su di un
singolare trono, il cui basamento mostra in finto bassorilievo la scena del
Peccato originale, si erge monumentale il gruppo della Madonna con il Bambino
affiancato da due angeli che sorreggono i lembi dell’ampio mantello della
Vergine. Essi rivolgono lo sguardo ai due santi inginocchiati ai piedi del
baldacchino: San Francesco ci guarda mentre indica con la mano sinistra San
Giuseppe che si rivolge a mani giunte alla Madonna.
La
composizione è esemplata sul modello della Madonna
della Vittoria di Andrea Mantegna, probabilmente attraverso la mediazione
del vivace schizzo di Berlino, presente in mostra. Anche la pala mantovana non
è direttamente collegata alla questione immacolista, quindi si potrebbe pensare
semplicemente che quei prestiti iconografici ( peccato originale) siano da
motivare solo in ragione della fortuna del modello. Tuttavia, l’immagine della
Madonna che, secondo la radicata convenzione iconografica della nuova Eva, si
erge al di sopra del peccato dei progenitori, offriva uno spunto che ben poteva
essere adottato e fatto filtrare negli ambienti francescani proprio in virtù
della popolarità dell’immacolata.
In accordo
con l’orientamento stilistico della tarda produzione di Verla, la misurata
grazia centroitaliana degli esiti di inizio secolo non è più avvertibile
nell’opera in esame, se non fosse nei due angeli ai fianchi della Vergine.
L’opera presenta anzi una discrepanza stilistica abbastanza netta rispetto del corpus di Verla, particolarmente
leggibile nel gruppo della Madonna con il Bambino; quei volti tondi,
trasognati, quasi fanciulleschi, cui il vicentino ci aveva abituato nelle sue
immagini della Vergine, sono rimpiazzati qui da un maturo viso ovale, la cui
forma allungata rispecchia quella innaturale del corpo di Gesù; indizi
sufficienti per interrogarci sull’eventualità che qualche allievo, magari lo
stesso figlio Alessandro, possa aver preso parte all’esecuzione dell’ultima
opera nota tra quelle firmate da Verla.
Se insomma
non può non ravvisarsi nella tela di Brera un certo affanno traducibile nella
sensazione di precarietà dell’impianto compositivo, trovo condivisibile
l’opinione di Lucco che riconosce nell’ancona una tra le opere “più sostenute e
di maggior impegno” fra quelle dipinte da Verla nell’ultimo tratto della sua
vita.
Maria Paola
Forlani
Nessun commento:
Posta un commento