La Menorà.
Culto, storia e mito
La Menorà è una lampada ad olio a sette
bracci che nell’antichità veniva accesa all’interno del Tempio di Gerusalemme
attraverso combustione ad olio consacrato.
Il progetto
originale, la forma, le misure, i materiali e le altre specifiche tecniche si
trovano per la prima volta nella Torah, nel libro dell’Esodo, in corrispondenza
delle regole inerenti al tabernacolo. Le stesse regole adottate poi per il
Santuario di Gerusalemme.
La Menorah è
uno dei simboli più antichi della religione ebraica. Secondo alcune tradizioni
la Menorah simboleggia il rovo ardente in altre rappresenta il sabato (al
centro) e i sei giorni della creazione. Nel tabernacolo d’Israele, la menorah
era d’oro e di disegno simile a quello delle comune lampade (o candelabri)
d’uso domestico, era adorna di pomoli e fiori alternati e aveva un’asta
centrale e tre bracci per parte, che sostenevano in tutto sette piccole
lampade. Per queste lampade si usava solo olio puro di olive schiacciate.
Il destino
della Menorah originale è tutt’ora oscuro: fatta interamente d’oro, d’un sol
blocco, venne con molta probabilità portata a Roma quando Tito conquistò la
terra d’Israele nel 70, come testimoniato da una raffigurazione sullo stesso
Arco di Tito. Secondo alcune testimonianze non confermate, è rimasta a Roma
fino al sacco di Roma del 455 finendo poi, dopo alcune vicissitudini, a
Costantinopoli.
Da qui in poi se ne perdono le tracce. La tradizione ebraica
sostiene invece che la Memorah trafugata da Tito fosse una copia (come provato
dalle incongruenze fra il bassorilievo raffigurato sull’arco di Tito e la forma
conosciuta della Memorah biblica). Quella vera sarebbe stata nascosta in
previsione della distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme.
Si è aperta,
su questo tema, una mostra di notevole interesse per le implicazioni,
artistiche culturali e religiose fino al 23 luglio a Roma dal titolo La Memorà. Culto, storia e mito a cura
di Arnold Nesselrath, delegato per i dipartimenti vaticani, Alessandro Di
Castro, direttore del Museo ebraico di Roma e Francesco Leone dell’Università
di Chieti-Pescara. La mostra è stata magistralmente allestita da Roberto
Pulitani in due sedi significative come il Braccio di Carlo Magno e
l’importante Museo ebraico al piano inferiore dell’imponente sinagoga di Roma.
Il percorso
espositivo interpreta lo scorrere dei secoli con il metaforico svolgersi del
monumentale rotolo di un’immensa Torah.
La mostra si
snoda lungo questo itinerario costituito dalla sinuosa parete purpurea che divide in due lo spazio
del Braccio di Carlo Magno, accogliendo nelle teche e sui piedistalli le opere
in mostra. Si susseguono, così – grazie a oggetti di ogni dimensione, ma tutti
di grande pregnanza -, con l’ausilio dei pannelli didattici, le varie fasi
della straordinaria storia della Menorà, dalla sua realizzazione fino ai nostri
giorni. Composta da poco più di centotrenta opere fra le due sedi, la mostra al
Braccio di Carlo Magno si apre con una serie di reperti che provengono dal
Medio Oriente, a cominciare dal rilievo con
la Menorà di una sinagoga egiziana del Cairo, databile al III secolo
e.v., quando il candelabro entrò a far parte del corredo decorativo dei luoghi
di culto ebraico. Particolarmente importanti sono poi gli splendidi vetri
dorati che mostrano tanto il Tempio, quanto la Menorà.
Quello
raffigurante la Memorà, di collezione vaticana, è esposto presso il Museo
ebraico, in una sorta di scambio simbiotico. Ѐ interessante notare come l’arca con
le ante aperte che mostrano la Torah sia
affiancata da due leoni araldici di Giuda i quali, certamente, alludono al
modello biblico dell’Arca dell’alleanza con cherubini
. Entrambi gli oggetti
provengono da cimiteri e catacombe romane a dimostrazione di una presenza
ebraica sul Tevere che ha superato i duemila anni, come testimonia, fra
l’altro, un frammento di mattone proveniente dalla catacomba ebraica di
Monteverde. Tuttavia, la diffusione dell’immagine della Menorà non si limita
soltanto a manufatti di cultura ebraica, ma compare, sia pure con funzione
documentaria, in importanti opere cristiane come la splendida Bibbia di San
Paolo fuori le Mura, dove all’Arca dell’alleanza si affianca la Memorà:
per non
parlare, poi, del celeberrimo affresco di Raffaello, con la Cacciata di Eliodoro, cui Nesselrath
dedica una veloce riflessione relativa alle fonti archeologiche del Sanzio.
Infatti, ogni qualvolta ci si debba misurare con il tema della rappresentazione
del Tempio, come nel caso del bel quadro di Andrea Sacchi (esposto al Museo
ebraico) con L’annuncio della nascita di
Giovanni Battista a suo padre Zaccaria, compare immancabile il candelabro a
sette bracci simbolo universale della cultura ebraica.
L’elenco
delle opere, come ovvio, può moltiplicarsi, a iniziare da quello che forse è il
cippo superstite della fontana che papa Paolo V Borghese volle per portare
l’acqua all’interno del ghetto, per passare poi alla bella opera secentesca in
argento lavorata a sbalzo da Sebastiano Gamberucci (“corona” e “rimonin”, ossia
i melograni) per ornare i rotoli della Torah, pure conservati al Museo
dell’ebraismo, fino a opere più contemporanee.
Concludono la mostra, infatti,
quadri come lo struggente olio che Antonietta Raphael (protagonista della
scuola romana di via Cavour, insieme al marito Mario Mafai, a Gino Bianchini
detto Scipione, a Mazzacurati e a un giovane Capogrossi) dedica a sua madre
(“mamma Kaja”, come Antonietta la chiamava) che benedice le candele e il grande
Ben Shahn che offre un’interpretazione originale della Menorah (questo il titolo), solida come un diamante, ma leggera e
trasparente come un cristallo.
Maria Paola
Forlani
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