Il Maxxi rende omaggio
all’architettura contemporanea con la mostra dedicata a Zaha Hadid, che
progettò il Maxxi.
In un’epoca
in cui salute e sicurezza, economia, clima e politica, sono pervase da una
fluida incertezza, potrebbe sembrare logico che l’architettura contemporanea
debba riflettere tale tendenza e che con tutta probabilità eviti di prendere
una direzione ben definita, oscillando tra il minimalismo ascetico, il
proselitismo ambientalista e le decorazioni neobarocche. Tuttavia, alcuni
architetti trovano il coraggio di aggrapparsi con fervore a una filosofia di
continuità, di affermare audacemente che può esistere, e di fatto esiste, un
nuovo paradigma degno di attenzione o perfino di emulazione.
Tra i pochi
artisti in grado di lanciare un simile appello c’è Zaha Hadid
(Baghdad, 31
ottobre 1950 – Miami, 31 marzo 2016), vincitrice del Pritker 2004.
La sua morte prematura nel marzo 2016 è stata
pianta universalmente.
Nel catalogo
della Biennale di Architettura di Venezia del 2008, Patrik Schumacher, fedele
collaboratore di Hadid, firma un testo in cui afferma: <<
Nell’architettura contemporanea d’avanguardia è possibile rintracciare un nuovo
e inconfondibile manifesto di stile caratterizzato da una sensazionale
linearità curva, complessa e dinamica. Al di là di questa evidente qualità
immediatamente percepibile è possibile individuare una serie di nuovi concetti
e metodi così distanti dai modelli architettonici tradizionali e moderni da
poter suggerire la nascita di un nuovo paradigma architettonico. Le idee
comuni, i repertori formali, le logiche tettoniche e le tecniche digitali che
contraddistinguono queste opere stanno creando le basi di un nuovo stile
predominante: il parametricismo, il
primo grande movimento nato dopo il moderno. Il postmoderno e il
decostruttivismo sono episodi transitori che si sono manifestati in questo
nuovo e lungo percorso di ricerca e innovazione […] >>
Resta da
vedere se il termine parametricismo riesce
a prendere piede e passa davvero a denominare uno stile o una scuola di
architettura contemporanea, ma è comunque chiaro che Zaha Hadid Architects ha
richiamato l’attenzione su una metodologia e un approccio progettuale, nati
solo 30 anni fa, che mettono in discussione diversi presupposti fondamentali
della stessa architettura.
A
prescindere dalla sua predisposizione a sfidare la geometria, o più
precisamente l’organizzazione e la distribuzione spaziale degli elementi
architettonici, Hadid ha mostrato notevole coerenza e continuità di pensiero
durante tutta la sua carriera professionale, una costanza che non è affatto
legata a quel genere di stile basato su griglie ortogonali che ha ispirato
Richard Meier o Tadao Ando, per esempio. I suoi progetti e le sue realizzazioni
hanno in comune la fluidità delle piante e il movimento degli spazi e delle
superfici che l’artista è riuscita a generare, ma dalla spigolosità della
Caserma dei vigili del fuoco del Campus Vitra (Weil am Rhein, Germania, 1988 –
1993) alla più recente installazione Dune Formations (David Gill Galleries,
2007), si può notare una tendenza a mettere in dubbio l’architettura e gli
arredi del passato.
Zaha Hadid è
nata a Baghdad, Iraq, da una famiglia benestante, è cresciuta in uno dei primi
edifici bauhaus di ispirazione a Baghdad durante un’epoca in cui “modernismo”
significava glamour e pensiero progressista in Medio Oriente.
Ha
conseguito una laurea in matematica alla American
University di Beiurut prima di trasferirsi a Londra, nel 1972, per studiare
alla Architectural Association, dove
ha incontrato Rem Koolhaas, Elia Zenghelis e Bernard Tschumi. Dopo aver
conseguito il titolo ha lavorato con i suoi ex professori, Koolhaas e
Zenghelis, presso l’Office for
Metropolitan Architecture (OMA), a Roterdam, nei Paesi Bassi, diventando
socia nel 1977. Attraverso la sua associazione con Koolhaas, ha incontrato
Peter Rice, l’ingegnere che le ha dato sostegno e l’ha incoraggiata nella fase
iniziale, in un momento in cui il suo lavoro sembrava difficile. Nel 1994 ha
insegnato alla Graduate Scool of Design dell’Università di Harvard, occupando
la cattedra che fu di Kenzo Tange. Nel 1980 fonda il suo studio a Londra. Dagli
anni ottanta ha insegnato alla Architectural Association.
Ѐ scomparsa nel 2016 all’età di 65 anni, a seguito
di un attacco cardiaco mentre era in ospedale a Miami, dove era stata
ricoverata per una bronchite.
Un anno dopo la sua improvvisa scomparsa, il Maxxi
ospita fino al 14 gennaio 2018 la mostra “L’Italia
di Zada Hadid” a cura di Margherita Guccione (direttore Maxxi Architettura)
e Woody Yao (direttore Zaha Hadid Desin).
Organizzata in collaborazione con la Fondazione Zaha
Hadid, la mostra intende evidenziare l’intenso e duraturo rapporto
dell’architetto con il nostro paese a partire da progetti come il Terminal
Marittimo di Salerno, il Messner Mountain Museum a Plan de Corones, City Life a
Milano, e naturalmente, il Maxxi.
Allestita negli spazi della più spettacolare
galleria del museo, la Galleria 5 con grande vetrata che si proietta sulla
piazza, la mostra esplora a 360 gradi l’opera e il pensiero di Hadid: dai
bozzetti pittorici e concettuali ai modelli tridimensionali, dalle
rappresentazioni tridimensionali e virtuali, agli studi interdisciplinari,
insieme a oggetti, video, fotografie capaci di rivelare lo sforzo costante di
ricerca pionieristica e sperimentale. Un’ampia sezione è dedicata al rapporto
di Zaha con il design made in Italy, con cui ha stretto interessanti e ripetuti
sodalizi creativi e produttivi.
Anche quando disegna oggetti e arredi, Zaha rimane sempre e prima di tutto un architetto: i suoi oggetti occupano lo spazio come vere e proprie architetture. Dai divani per B&B Italia e Cassina alle sedie, le panche, i tavoli per Sawaya & Moroni; dalle lampade per Slamp, ai vasi e i centrotavola per Alessi e le librerie componibili per Magis, con incursioni nel mondo dell’alta gioielleria con l’anello B.zero1 e della moda con l’esclusiva borsa disegnata per un evento charity di Fendi.
Maria Paola Forlani
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