? War is over.
Arte e conflitti
Tra mito e
contemporaneità
Il Mar di
Ravenna presenta fino al 13 gennaio 2019 la mostra ‘War is over. Arte e conflitti tra mito e contemporaneità, a cura
di Angela Tecce e Maurizio Tarantino (catalogo SAGEP). Il percorso raduna una
sessantina di artisti e percorre i secoli: si va infatti dal monumento funebre
cinquecentesco di Guidarello Guidarelli e
di Rubens fino a protagonisti del
Novecento come Picasso, Marinetti e De Chirico giungendo, attraverso
l’informale, la Pop art di Robert
Rauschemberg e Andy Warhol e i
concettuali, fino ad oggi.
Ė una mostra un po’ diversa dalle tante che, nel centenario del 1918, hanno
riflettuto sulla guerra. Anche qui il tema è il conflitto, che purtroppo sembra
inevitabile. Non a caso troviamo come ideale incipit della rassegna due frasi
eloquenti: una di Eraclito: “La
guerra è padre di tutte le cose, di tutte è re”, l’altra di Primo Leni: “Guerra sempre”. E a queste
se ne potrebbero aggiungere una terza di Epedocle,
che considerava il conflitto un elemento della natura, come l’acqua, il
fuoco, l’aria.
Ineliminabile, dunque. Tuttavia attraverso l’arte, che è sempre
dialogo e non violenza, la mostra esplora non solo i miti guerrieri, i temi delle
armi, delle frontiere, dei vinti, ma anche le speranze di pace. Si inizia col
Guidarello (1525) che, oltre il lutto, sembra esprimere con la sua grazia gli
“amorosi sensi” che, foscolianamente, ci legano a chi non c’è più. Si continua
con Ettore e Andromaca di De Chirico:
due manichini che, evocando l’Iliade, si
abbracciano prima della battaglia. De Chirico però elimina la figura del
figlioletto Astianatte, perché i manichini non possono generare nuove vite.
Picasso con l’opera in mostra, Jeux des pages, 1951, torna a una
riflessione sui disastri della guerra iniziata nel 1937 con Guernica e che si concluderà con le due
grandi composizioni del 1952 intitolate La
Guerre e La Paix. Tra queste due si situa cronologicamente Jeux de pages, scena di ambientazione
medievale in cui, in presenza di un frate, due paggi attendono l’uomo d’arme in
sella al cavallo, protetto da armatura e scudo. Eseguito il 24 febbraio del’51,
il dipinto appare come variazione sul tema dell’incisione di Albrecht Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo e si inserisce nella serie
dedicata a paggi e cavalieri che l’artista realizza nei primi mesi dell’anno.
In un’ambientazione architettonica a tratti cubista si assemblano figuratività
diverse, dal parodistico realismo con cui traccia i volti delle due figure a
destra, al disegno abbozzato e fanciullesco del paggio a sinistra; a questi fa
da contrappunto il volto del cavaliere, che l’artista riduce, con spirito
surrealista, a profili di ferro cesellato e borchiato. Il tono ludico evocato
dal titolo e dalle decorazioni arabesche è tuttavia smorzato da una
predominanza di colori scuri, che trova il culmine nella maschera del
cavaliere, quasi presagio di morte che sottende all’attività militare cui
allude il dipinto.
E ancora le
lacerazioni di Burri o le esplosioni
luminose di Punta Campanella di Shozo Shimamoto. Segue l’emozionante Weltanschauung, 2007, di
Emilio Isgrò: un mosaico di cartine geografiche
cancellate che, accostate l’una all’altra, esprimono un senso di convivenza
difficile. Ma anche di inaspettata speranza. Un nucleo di grande suggestione
della mostra è costituito dal “corpo a corpo”, attraverso i secoli, di immagini
guerresche: il vaso con scene di battaglia tra greci e troiani e il frammento
marmoreo con un legionario, l’Alabardiere
di Rubens, fino al guerriero
postmoderno per eccellenza, il maestro
Joda di Guerre Stellari.
I tre grandi
temi che hanno ispirato la scelta degli artisti si intersecano ad ogni piano
per rendere più fitta la trama della mostra: ai teatri di guerra fanno riferimento, tra gli altri, Christo, William Kentridge, Jake &
Dinos Chapman, col loro minuzioso catalogo degli orrori, Gilbert & George, reporter dei
conflitti urbani, Michal Rovner, con
la sua indagine sul rapporto tra individuo e moltitudine, Alfredo Jaar e Robert Capa.
I vecchi e nuovi miti aleggiano nell’opera di Robert Rauschemberg, nel denso e magmatico mare di Anselm Kiefer, nella denuncia di Jan Fabre (nascosta sotto una coltre cangiante), nel dramma silente del lavoro di Jannis Kounellis in Andy Warhol e Hermann Nitsch, mentre sono esercizi di libertà le opere di Mimmo Paladino, Marina Abramovič, Michelangelo Pistoletto e le poetiche installazioni di Studio Azzurro.
Di grande impatto
è l’opera di Renato Guttuso Fucilazione
in campagna 1939.
L’opera, il
cui impianto compositivo si ispira ai grandi dipinti ottocenteschi e in
particolare a Los fusilamentos del tres
de mayo realizzato da Goya nel 1814, affronta, forse per la prima volta, un
tema dai forti risvolti politici, segnando così l’avvio del nuovo corso che
caratterizzerà la successiva produzione dell’artista siciliano, e che è stato
poi definito <<realismo lirico>>.
Questa tela
è dedicata all’uccisione del poeta Federico Garcìa Lorca, fucilato dai
franchisti nel 1936 durante la guerra civile spagnola, ma il titolo,
volutamente ambiguo, era stato scelto per lasciare intendere che raffigurasse
in realtà un delitto di mafia, per non rischiare di incorrere nella censura
fascista.
Benedetto Croce, alla domanda Si può abolire la guerra? Rispondeva che una qualche forma di guerra continuerà sempre, perché la guerra è
insita alla vita, e che semmai si trattava di provare a evitare nel secolo ventesimo e nei paesi di
Europa, quella empirica guerra, che si fa coi cannoni e con le navi corazzate;
che costa miliardi, quando non si fa, e decine di miliardi, quando si fa; e da
cui il vincitore stesso esce spossato e vinto.
Come si sa,
la speranza di Croce è stata
crudelmente disillusa, e il secolo ventennio ha visto strumenti di guerra ben
più potenti e atroci dei cannoni e delle corazzate, a partire dalla prima guerra mondiale. Il mito degli
uomini e dei popoli che si rinnovano, delle nazioni che ringiovaniscano, delle
masse che fanno la storia, diede vita a un’orribile carneficina. E invece di un nuovo Eden scrive Claudio Magris, in cui avrebbe dovuto vivere felice e buono il nuovo Adamo, vennero a
regnare Mussolini, Hitler, Stalin.
I testi e le
opere esposte alla mostra ravennate, colloquiando tra loro, ci ricordano che il
dialogo, la gestione dei conflitti e delle tensioni, la dialettica fondata
sulle ragioni di ognuno non sono la pace, anzi ne sono ben lontani, ma
rappresentano l’unica vera alternativa alla guerra.
Maria Paola
Forlani
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