Han Yuchen
Il
Regno della Purezza
Palazzo Medici
Riccardi, a Firenze, fino al 28 luglio 2019, ospita Il regno della purezza. Il
Tibet nella pittura di Han Yuchen, la prima personale in Italia dell’artista
cinese Han Yuchen, curata da Cristina Acidini, ideata da Xiuzhong Zhang,
promossa e organizzata dalla Zhong Art International (catalogo Mandragora).
Nato nel 1954 a
Jilin, nella provincia di Jilin, Han Yuchen si è formato all’Accademia Centrale
di Belle Arti di Pechino. La mostra di Palazzo Medici Riccardi offre una
selezione molto accurata dei suoi quadri, ventiquattro in tutto, che rispecchia
solo in parte la sua ampia e varia attività artistica. Poeta oltre che pittore,
si inserisce nella linea tradizionale della pittura d’inchiostri su carta e
della calligrafia secondo l’uso antico.
Con altrettanta sicurezza, si è impadronito della tecnica più rappresentativa dell’arte occidentale, la pittura ad olio, esercitandosi nel ritrarre i compagni di lavoro nel periodo più tormentato della sua vita. Nonostante il suo talento precoce, circostanze avverse lo hanno tenuto lontano dall’arte, a causa della difficile posizione della famiglia, giudicata “controrivoluzionaria”. Costretto in gioventù a lavorare duramente, Han Yuchen ha avuto successo come imprenditore e questo ha fatto sì che potesse riprendere e dedicarsi con continuità a quella vocazione artistica che maturò fin dalla sua prima visita allo studio del famoso pittore Zhang Wenxin, a Pechino.
Con altrettanta sicurezza, si è impadronito della tecnica più rappresentativa dell’arte occidentale, la pittura ad olio, esercitandosi nel ritrarre i compagni di lavoro nel periodo più tormentato della sua vita. Nonostante il suo talento precoce, circostanze avverse lo hanno tenuto lontano dall’arte, a causa della difficile posizione della famiglia, giudicata “controrivoluzionaria”. Costretto in gioventù a lavorare duramente, Han Yuchen ha avuto successo come imprenditore e questo ha fatto sì che potesse riprendere e dedicarsi con continuità a quella vocazione artistica che maturò fin dalla sua prima visita allo studio del famoso pittore Zhang Wenxin, a Pechino.
Al centro
dell’esposizione fiorentina è il Tibet, con i suoi paesaggi mozzafiato, i
monasteri spettacolari, le montagne altissime, le antiche città perdute, la sua
cultura millenaria e i suoi abitanti. Il Tibet ha sempre esercitato un fascino
profondo su Han Yuchen che ne conosce profondamente tutti i luoghi.
Negli
ultimi dieci anni, ha attraversato, sia in estate che in inverno, gli altipiani
e le vallate ai piedi delle montagne più alte del mondo, vivendo in tende,
soggiornando con famiglie tibetane e visitando i pascoli. E questa intima
familiarità emerge con forza in questa rassegna. Han Yuchen identifica in
questa regione, innevata e mistica, il regno di una “purezza”, risposta nel
candore fisico e spirituale. “I tibetani sono gente modesta e tenace” racconta
l’artista. “I loro occhi sono pieni di gentilezza…La bellezza del Tibet sta
proprio nella sua gente che vive felicemente e in maniera pacifica, ma in
maniera intensa e passionale.La loro felicità mi commuove, per cui attraverso la mia arte cerco di portare altra gioia alle persone”. L’osservazione ravvicinata dei dipinti di Han Yuchen ci rivela una pittura a olio materica, fatta di pennellate piccole, ma corpose e decise, quando costruisce le figure dalle carni sode e dagli abiti spessi mentre per il paesaggio, protagonista al pari degli esseri viventi, nella sua opera, riserva ampie stesure, tenute sottotono con leggerezza. I dipinti sono in stretto rapporto con l’attività di fotografo dell’artista, che col mezzo fotografico seleziona e prepara le sue inquadrature, collegandosi anche alla sua esperienza di calligrafo per il senso armonioso del ritmo compositivo.
Non è un caso che
questa mostra si tenga a Firenze, in Toscana, dove il nome stesso del Tibet
risveglia gli echi di un interesse appassionato e duraturo che si è espresso e
continua a esprimersi nei musei e nelle attività culturali.
Nel Settecento, a Pistoia, il gesuita Ippolito Desideri, considerato il primo tibetologo in Occidente, accolto dal sovrano Lajang Khan durante un pionieristico soggiorno da missionario in Tibet, aprì la strada a numerose successive spedizioni italiane. A Firenze, nella sezione di antropologia ed etnologia del Museo universitario di storia naturale, fondato nel 1869 dall’antropologo Paolo Mantegazza, sono esposti rari oggetti liturgici tibetani mentre nel Gabinetto G.P. Vieusseux esiste un polo straordinario di documentazione fotografica e letteraria sul Tibet, grazie all’archivio di Fosco Maraini, che iniziò nel segno del Tibet la sua attività instancabile di orientalista. Lui stesso raccontò che il suo precoce interesse per i viaggi nacque, oltre che dalla passione infantile per gli atlanti, dalla presenza di un grosso volume sul Tibet nella biblioteca di famiglia. E sul Tetto del Mondo si recò per due viaggi memorabili, nel 1937 come giovane neolaureato in scienze antropologiche, col ruolo di fotografo al seguito di Giuseppe Tucci, poi nel 1948, redigendo note di viaggio dalle quali trasse nel 1951 Segreto Tibet, un libro destinato a una diffusione planetaria. Contribuì così a far conoscere la civiltà del paese, medievale dal punto di vista della scienza e della tecnologia, ma ricca di raffinata spiritualità e di sensibilità artistica. Degli aspetti visivi, ritrasse forti impressioni chiaroscurali e cromatiche, descritte in prosa poiché non testimoniate in modo adeguato dalle immagini in bianco e nero.
Nel Settecento, a Pistoia, il gesuita Ippolito Desideri, considerato il primo tibetologo in Occidente, accolto dal sovrano Lajang Khan durante un pionieristico soggiorno da missionario in Tibet, aprì la strada a numerose successive spedizioni italiane. A Firenze, nella sezione di antropologia ed etnologia del Museo universitario di storia naturale, fondato nel 1869 dall’antropologo Paolo Mantegazza, sono esposti rari oggetti liturgici tibetani mentre nel Gabinetto G.P. Vieusseux esiste un polo straordinario di documentazione fotografica e letteraria sul Tibet, grazie all’archivio di Fosco Maraini, che iniziò nel segno del Tibet la sua attività instancabile di orientalista. Lui stesso raccontò che il suo precoce interesse per i viaggi nacque, oltre che dalla passione infantile per gli atlanti, dalla presenza di un grosso volume sul Tibet nella biblioteca di famiglia. E sul Tetto del Mondo si recò per due viaggi memorabili, nel 1937 come giovane neolaureato in scienze antropologiche, col ruolo di fotografo al seguito di Giuseppe Tucci, poi nel 1948, redigendo note di viaggio dalle quali trasse nel 1951 Segreto Tibet, un libro destinato a una diffusione planetaria. Contribuì così a far conoscere la civiltà del paese, medievale dal punto di vista della scienza e della tecnologia, ma ricca di raffinata spiritualità e di sensibilità artistica. Degli aspetti visivi, ritrasse forti impressioni chiaroscurali e cromatiche, descritte in prosa poiché non testimoniate in modo adeguato dalle immagini in bianco e nero.
Poi in cielo
ci sono nuvole sciolte e veloci che galoppano all’impazzata nel vento di lassù;
le loro ombre corrono pei fianchi dei poggi, li carezzano, ne mutano
istantaneamente colori e umori; si passa dal giallo vivo all’ocra, al viola, al
paonazzo, e dal severo o dall’imbronciato brutto alla festa di luce. Ė una danza continua d’ombre e di schiarite: i
monti divergono fluidi come un mare dalle onde giganti.
Fosco Maraini, Segreto Tibet (1951)
M.P.F.
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