Ex Africa. Storie e identità di un’arte universale
Per capire la mostra ex Africa. Storie e identità di un’arte universale, organizzata
da CSM Cultura e allestita al Museo civico archeologico di Bologna fino all’8
settembre, un buon punto di partenza è la biografia dei curatori: Ezio Bassani
e Gigi Pezzoli, che in momenti e con ruoli diversi hanno dedicato la vita a
spiegare le valenze propriamente estetiche dell’arte africana.
A dire il vero, questa diversità di ruoli è dovuta soprattutto a
questioni anagrafiche, perché mentre Bassani, che è morto lo scorso agosto
all’età di novantaquattro anni durante la preparazione del progetto espositivo
(e per questo la mostra è dedicata a lui come omaggio alla memoria), ha
cominciato a identificare i maestri e a lavorare sulla gerarchia delle opere
già negli anni Settata partendo dalle ricerche sul collezionismo e diventando
in breve tempo uno dei più importanti punti di riferimento a livello
internazionale, Pezzoli, che è di una generazione successiva, ha cominciato ad
affrontare queste tematiche un po’ più tardi, partendo dall’archeologia
africana e dall’etnostoria.
All’inizio, non è stato facile vincere i pregiudizi e la pigrizia
mentale di generazioni di specialisti e conservatori di musei, che erano
abituati a collocare tutto nell’ambito dell’etnografia e che, peraltro, non si
rendevano conto che le analisi estetiche non cancellavano i dati propriamente
etnografici, ma, anzi, li arricchivano.
La mostra di Bologna cerca di andare oltre le esposizioni
generaliste, apprendo nuovi percorsi di analisi e approfondendo, in
particolare, due temi che sono un po’ il cuore delle nuove ricerche sull’arte
africana: il suo spessore storico e la tematica delle attribuzioni.
La mostra mira a cancellare definitivamente lo stereotipo di
un’arte “senza tempo”, che fino a qualche decennio fa negava la storicità delle
arti africane. Infatti, solo attorno alla metà del XX secolo gli specialisti si
sono posti il problema della datazione delle opere, fino ad allora considerate
relativamente recenti per effetto di acritiche estrapolazioni, che pure
partivano da un dato reale: il fatto che il legno, il materiale principe
dell’arte africana, in certe condizioni può degradarsi rapidamente.
Questo
nuovo interesse sull’antichità delle opere e, soprattutto, l’utilizzo di nuove
metodiche scientifiche (il carbonio 14 per i reperti organici e la
termoluminescenza per le terrecotte) hanno portato a scoprire che diverse
tipologie e molti reperti sono vecchi di secoli, confermando così quanto
riferivano le stesse popolazioni africane, che li facevano risalire a “tempi
memorabili”.
Nell’esposizione, in particolare, e per la prima volta in Italia,
viene proposta un’ampia sezione dedicata all’arte medievale della regione del
delta interno del Niger e delle falesie di Bandiagara, che consente di ammirare
diversi capolavori che sono espressione di una vicenda storica e artistica che
va da X al XIX secolo.
Per quanta riguarda, poi, la tematica delle attribuzioni <<la
mostra>> vuole spiegare, grazie ai curatori,
in modo efficace e definitivo che l’idea di
un’arte “anonima”, frutto di un generico sapere collettivo è profondamente sbagliata ed è il risultato di
un pregiudizio, che troppo a lungo ha condizionato il corretto apprezzamento
dell’arte africana e, paradossalmente, ha per molto impedito che si
conoscessero i protagonisti della scena: gli artisti.
Eppure, per l’Africa è stato così e l’identificazione delle “mani
dei maestri” è stata una conquista recente, resa ardua dall’assenza di
scrittura e anche da persistenti residui di razzismo intellettuale. Occorre
ammettere, peraltro, che le indagini nel campo delle attribuzioni sono solo
agli inizi e i risultati, pur promettenti, appaiono per ora solo agli inizi e i
risultati, pur promettenti, appaiono per ora limitati, se comparati a quelli
ottenuti nell’ambito dell’arte occidentale.
Nella mostra, in ogni caso, si possono ammirare capolavori di
alcuni maestri importanti.
Uno degli oggetti più celebri è il piccolo poggiatesta Luba
Shankadi del Maestro delle capigliature a cascata, un artista identificato
negli anni Sessanta da William Fagg e Margaret Plass. Quest’opera che fu
raccolta nel 1901 nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, si differenzia
dagli altri reperti attribuiti all’artista (una decina), perché in questo caso
il maestro è riuscito a dare alla figura femminile una magnifica acconciatura e
un dinamismo latente, che nasce dal contrasto tra la posizione delle braccia e
la rigorosa postura frontale. Oltre al Maestro delle capigliature a cascata, a
Bologna sono presenti altri cinque artisti.
Tra questi e le loro opere è difficile fare delle graduatorie, ma
si può segnalare per la sua storia antica e documentata una figura femminile
Bari del Maestro di Bilinian, raccolta da Giovanni Miani a Gondokoro nel 1960.
La scultura che fu una delle prime opere d’arte di quella zona del Sudan ad
arrivare in un museo europeo, era un oggetto molto importante e sacro, che
apparteneva agli eredi del re Lokono, un famoso “invocatore della Pioggia”.
Accanto alle realizzazioni dei maestri si devono, però, segnalare altre opere
che finora non è stato possibile attribuire, ma che sono capolavori
straordinari. Si tratta delle sculture e dei bassorilievi, prevalentemente in
bronzo, della città Stato di Ife (XII-XV secolo).
Molti di questi reperti, che erano esposti o decoravano il palazzo
del re del Benin, furono razziati dagli inglesi durante la famosa spedizione
punitiva del 1897 e successivamente venduti per coprire le spese di questa
impresa una delle pagine più imbarazzanti del non esaltante colonialismo
europeo.
Significativamente, queste opere riuscirono a superare i
pregiudizi etnocentrici degli stessi colonialisti, che non esitarono a parlare
di creazione di un “Fidia dell’equatore”.
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