Marisa Merz.
Geometrie
sconnesse Palpiti Geometrici
Forse l’immagine
più nitida per comprendere Marisa Merz (Torino,1926-2019),
morta lo scorso luglio a 93 anni, dopo aver trascorso tutta la vita nella sua
Torino, è una foto scattata in casa sua alla metà degli anni Sessanta. Al
soffitto, sopra il lavello e i fuochi della cucina economica, è appesa una
scultura di lamine di alluminio, piegate in modo da avere un andamento sinuoso,
quasi una nuvola di metallo. Sotto, sospesi sulla parete al limite del
rivestimento di piastrelle in ceramica bianca, ci sono un pentolino, uno
scolapasta, uno strofinaccio e una serie di numerosi di Fibonacci al neon,
opera del marito Mario Merz (Milano, 1925 – Torino, 2003). La moka è sulla
piastra elettrica, accanto all’inconfondibile confezione del caffè Paulista.
L’intervento
dell’artista è perfettamente integrato nella dimensione privata e quotidiana e
questo è uno dei segni che caratterizzano l’intero suo percorso creativo. Oltre
a ciò, la foto della cucina testimonia anche il posizionamento della ricerca
dell’artista in uno spazio tipicamente femminile, così come la scelta di materiali
estranei alla storia dell’arte, la contiguità con l’opera del marito, la
predilezione per forme morbide e potenzialmente mutevoli. Uscendo dall’ambiente
domestico per essere esposta per la prima volta nella Galleria di Gian Enzo
Sperone a Torino nel 1967, Scultura
vivente si adatta al
nuovo ambiente prendendo forma diversa così farà a ogni nuova esposizione. Le
lamine di acciaio tagliate, arrotolate, intrecciate si oppongono alla
concezione della scultura come qualcosa di monumentale e statico, facendosi
vive e adattabile.
Come ebbe a
sottolineare Germano Celant, teorico dell’Arte Povera, movimento al quale l’artista fu molto vicina,
Marisa Merz fece della fragilità un linguaggio. Tutti i suoi lavori hanno
qualcosa di effimero e delicato, a partire dai materiali: cera, carta di riso,
bambù, sale, paglia, argilla cruda. E sono tutti soggetti a possibili
metamorfosi, sia per la necessità di adattarsi a nuovi contesti, sia per la
naturale predisposizione a degradarsi.
Rispecchiano, insomma, la realtà dell’esistenza, l’incessante e naturale trasformarsi di una cosa in un’altra. <<Quando andavo a scuola, il momento che non ho mai più dimenticato è stato quando mi hanno insegnato il baco da seta>>, amava ricordare l’artista. <<Pensavo sempre a quello, che da bruco diventa farfalla. E non ho mai più potuto togliermelo dalla testa. Come venivano fuori il filo di seta e la farfalla>>. L’idea che ogni lavoro non sia congelato nel tempo, ma viva e muti attraverso di esso, è il motivo per cui quasi sempre le sue opere non sono datate. Smontate e riassemblate, dotate di nuovi supporti, associate a oggetti diversi, modificate nella forma in occasione di ogni nuova esposizione, non sono associabili a un unico momento storico, ma appartenenti al flusso tra presente e passato.
Una ricca e
selezionatissima scelta di lavori, alcuni totalmente inediti, di Marisa Merz, Geometrie sconnesse palpiti geometrici, questo
il titolo mutato da una frase autografa appuntata dall’artista su una parete di
casa vincitrice del
Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2013, dal 22 settembre
sono in mostra a Lugano, negli spazi della Collezione Giancarlo e Danna
Olgiati, in una rassegna curata da Beatrice Merz, figlia dell’artista, in
collaborazione con la Fondazione Merz e fortemente voluta e seguita dalla
stessa Marisa Merz, presenta quarantacinque opere realizzate in cinquant’anni
di ricerca.
Tra queste una grande installazione, mai esposta dopo il 1979:
composta di fili di rame, intessuti a formare figure geometriche, è montata a
parete come una ragnatela dall’estensione potenzialmente Infinita.
Il gesto
ripetitivo e artigianale del ricamo rende percepibile nell’opera la dimensione
temporale, la durata dell’azione oltre che la sua ampiezza. Sempre create con
filo di rame lavorato a maglia, le celebri Scarpette, risalenti agli anni Settanta, riconducono la
pratica creativa all’essenziale la corporeità dell’artista. Per questo Marisa
Merz, nel suo carattere schivo e disinteressato alla dimensione pubblica, non
abbia mai fatto del suo corpo uno strumento di artisticità, al contrario di
autrici sue coetanee nel pieno della lotta per i diritti femminili, è proprio a
partire dal corpo che sviluppa gran parte della ricerca. Le scarpette sono
costruite sui piedi dell’artista, che può indossare <<corrispondono alle
mie misure, alle mie possibilità>>.
Lo stesso si può
dire dei volti femminili, che per la maggior parte sono autoritratti e che
occupano un vasto spazio nella produzione dell’artista a partire dagli anni
Ottanta, sebbene spesso anche questi non siano datati. Si tratta di figure
delicate, dai tratti appena accennati, spesso tracciati solo a grafite con
qualche raro tocco di colore, su tavola, tela, carta di riso, metallo. Quasi
non avessero il coraggio di emergere da una dimensione onirica e immaginativa,
i primi erano velati con una leggera rete di filo di rame intrecciato, che li
rendeva ancora più misteriosi e inaccessibili. Altrettanto rarefatte sono le
teste di donna appena abbozzate nell’argilla, con semplici tagli o tracce di colore
a rappresentare gli occhi e la bocca.
Dolci eppure potenti, hanno qualcosa di
arcaico, come statuette preistoriche che, con fattezze umane, alludono a
mitologiche figure simili ad angeli dipinte negli anni, con intense tonalità
dorate, rosse e blu: donne alate il cui corpo è pervaso di un’energia divina,
forse quella della creatività femminile, che si esprime nel dar forma all’arte
e alla vita
M.P.F.
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