martedì 24 novembre 2020

Raffaello "La deposizione" restaurata

 


Raffaello “la deposizione” restaurata

 

Il michelangiolismo di Raffaello è visibile soprattutto nella Deposizione della Galleria Borghese (si confronti, fra l’altro, la posizione del corpo di Cristo con quella analoga della Pietà di San Pietro); ma qui Raffaello non riesce a liberarsi del tutto da una certa retorica nelle contrapposizioni dei corpi, nella teatralità delle impostazioni e nell’esteriorità delle singole espressioni, pur dovendosi riconoscere la sapiente disposizione delle figure e la bellezza del paesaggio.


La tavola venne commissionata, per una cappella della chiesa di San Francesco al Prato di Perugia, da Atalanta Baglioni per commemorare il figlio, Griffonetto, assassinato da altri membri della famiglia durante le sorde lotte interne per assicurarsi il potere sulla città. Anche in quest’opera, come in altre di Raffaello, sono individuabili rapporti con l’antichità classica, come dimostra un frammento di sarcofago romano con il trasporto del cadavere di Meleagro.



Dopo più di un anno di restauro e di indagini consumatesi a beneficio dei visitatori – dentro un box realizzato per l’occasione – il dipinto torna sulla parete che gli spetta. Sul retro della tavola di pioppo cinquecentesca, sono stati applicati a traverse di carbonio sensori di fibra ottica che d’ora in poi rileveranno in tempo reale i movimenti del legno. I dati viaggeranno attraverso cavi nascosti sotto la tappezzeria per raggiungere il pc nascosto da una porta. L’ingegneria aereospaziale si addice anche alla storia dell’arte: il risultato è un monitoraggio costante dell’opera. L’obiettivo è la conservazione preventiva, infatti la tavola stava subendo un progressivo processo di imbarcamento: un nuovo contenimento elastico permetterà di rallentare l’inevitabile e progressiva deformazione.


In 514 anni di esistenza, la Deposizione, firmata e datata, è stata inevitabilmente un oggetto mobile del desiderio. L’opera rimane a Perugia nella cappella di famiglia della chiesa di San Francesco a Prato per un secolo, a partire dall’anno di esecuzione: il 1507. Sparisce nella notte tra l’8 e il 19 marzo 1608 quando, con la complicità dei frati, il papa Paolo V riesce a farla trasferire a Roma per regalarla al nipote, il cardinale collezionista Scipione Borghese.



Da allora il dipinto viene spostato, a seconda del capriccio dei proprietari, tra il Palazzo di Borgo, in Vaticano, la residenza di Fontanella Borghese. Nel 1809 Camillo, marito di Paolina Bonaparte, viaggia con la tavola alla volta di Parigi: è il momento in cui il cognato Napoleone vagheggia la costruzione del museo universale che porta il suo nome. Dopo che i sogni di gloria dell’imperatore si infrangono a Waterloo, il Raffaello torna definitivamente nella città dei papi. Dalla seconda metà dell’Ottocento è appeso nella stanza numero 9 del museo Borghese, sopra un caminetto.

La revisione della superficie pittorica è stata curata da Carla Bertorello; Roberto Saccuman è il responsabile dell’intervento sul supporto: entrambi si aggirano nella sala controllando che tutto vada a buon fine. Terminato il “tagliando”, il dipinto posto ad altezza d’uomo, ha svelato qualche segreto in più. Guardando il quadro adesso, si riscontrano molti più segni grafici che ci restituiscono meglio l’idea della versatilità del disegno di Raffaello. L’artista utilizza molteplici tecniche contemporaneamente, in totale libertà: il carboncino per le linee essenziali, poi il metallo gallico; alcuni profili delle figure, invece risultano incisi. L’artista lavora a risparmio, usa il colore solo dove necessario. Adopera il disegno per tracciare le ombreggiature.


E infatti la tavola mostra tracce di disegno evidenti a occhio nudo sul perizoma del Cristo, ma anche sul volto della Vergine. Non sono state cancellate dal colore. Al centro della scena, tra Grifonetto, che è il giovane che porta Cristo, e la Maddalena, ancora si intravede il segno di un ripensamento: una figura cancellata per aumentare la profondità di campo per non sacrificare il paesaggio sullo sfondo. Si tratta di particolari che, una volta riportata l’opera, definitivamente, al suo posto, saranno difficilmente apprezzabili o riconoscibili.  Nella stanza numero 9, Intorno all’opera tutto è silenzio e attesa. I musei riapriranno prima o poi e noi ritorneremo ad ammirare la splendida ‘deposizione’ di Raffaello.


M.P.F.

 

sabato 21 novembre 2020

Modigliani, l'ultimo romantico

 

Modigliani, l’ultimo romantico


Pochi uomini hanno incarnato come Amedeo Modigliani (1884 – 1920), il mito romantico dell’artista geniale e trasgressivo. Storia e leggenda sono così strettamente mescolate nel racconto della sua vita da risultati quasi inestricabili. Anche le testimonianze di coloro che lo conobbero sono contraddittorie. All’impresa di distinguere la storia dalla leggenda si è dedicato con la consueta sensibilità, Corrado Augias, che ricostruisce la vicenda della famiglia Modigliani nella Livorno ottocentesca, la formazione pittorica di Amedeo, la sua vita bohéme a Parigi tra i più grandi artisti del primo Novecento. Fino alla tragedia finale, condivisa dalla compagna Jeanne, e al nascere del mito. Allo stesso tempo traccia l’affresco di un’epoca irripetibile della cultura europea.


Modigliani torna a casa a 100 anni dalla morte (morì a Parigi all’Hopital de Charitè il 24 gennaio 1920) nella città che gli diede i natali. Motivo per cui il Museo della città propone una mostra aperta fino al 16 febbraio 2020 a cura di Marc Restellini, storico dell’arte francese, direttore del museo, fondatore della Pinacothéque de Paris e specialista in Amedeo Modigliani.


Quattordici dipinti e dodici disegni dalla collezione Alexandre e Netter. Opere non esposte molto frequentemente, come il ritratto di grandi dimensioni Fillette en Bleu del 1918 o quello di Chaïm Soutine del 1916, amico del pittore durante gli anni parigini Tutte le opere raccontano gli anni alla Ville Lumiere, gli anni di droga e alcol di Modì, e trasudano la vita dei quartieri parigini di Montmarte e Montparnasse, dove l’irresistibile Amedeo si era legato a Guillaume Apollinaire, al collezionista Paul Guillaume, allo scrittore Blaise Cendrars. Con i suoi colori puri, Modigliani ha voltato le spalle al realismo.


L’isle Joyeuse di Debussy è del 1904. Parigi sta tornando all’âge d’or, al tempo della felicità, sia pure letteraria. Parigi ha ormai deciso di non smontare più la Tour Eiffel, costruita per l’Esposizione mondiale del 1889 e che Lorenzo Viani, più tardi, definirà ‘una mostruosa siringa che buca il cielo’.

Modigliani sfiora tutto ciò, e con drammaticità coglie le complesse componenti culturali, le mille sfaccettature umane e artistiche, la modernità, la trasgressività di questa Parigi dove a tutti i costi ha voluto trasferirsi. Scegliendo dopo solo tre anni dal suo arrivo di passare sulle rive gauche, a Montparnasse, il quartiere più ricco di boites e di pittori, di poeti, di fantasia. Prendendo immediatamente ad esempio le forme pure e dense di materia di Cézanne.


Tenendo sempre ben presenti i suoi riferimenti italiani, da Tino di Camaino a Simone Martini, da Botticelli a Tiziano. Leggendo e traducendo il mistero degli antichi, degli egizi, nella sintesi di un’arte più che erudita intuitiva, calda e ieratica, sensitiva e concreta, vibrante di emozioni. Attento alla dinamica artistica orientale che gli serve per apprendere nuovi modelli espressivi ma soprattutto per proseguire nell’individuazione dei propri pensieri, dei propri sogni, delle proprie suggestioni. Attratto dalla cultura, fruga e indaga nell’arte primitiva, negra in particolare; viene affascinato dalla semplicità primigenia, dalle forme essenziali intagliate nella rozza pietra del rumeno Brancusi. Sono centinaia le opere di Modi tra disegni e gouache, dipinti, sculture.

Ma di queste, ultime, pur tanto amate, ce ne lascia solo poco più di venti, sparse nel mondo in musei e collezioni private, ed eseguite fra il 1911 e il 1913. Resta il mistero di quelle altre sculture in pietra nate e scomparse a Livorno nell’estate del 1909.

Leggenda vuole che dopo aver chiesto agli amici un locale e delle pietre (di quelle usate per lastricare la strada) e aver lavorato per giorni e notti. Dedo finisse, spinto dagli stessi “beceri” compagni livornesi, a buttare le sculture nel canale vicino, il fosso Reale. A sostegno di questa tesi, la figlia di Modigliani Jeanne riporta nella sua ultima biografia sul padre le parole di un testimone livornese: “Da quel giorno ch’ebbe lo stanzone e le pietre ci sparì sotto gli occhi e non lo si rivide per qualche tempo. Cosa poi combinasse in quello stanzone con quelle pietre, nessuno di noi lo seppe mai. Mai ci portò lassù, mai si vide lo stanzone e mai le pietre. Chissà cosa almanaccò in quei giorni. Ma certo qualcosa deve aver combinato. Perché quando decise di tornare a Parigi, ci chiese dove avrebbe potuto sistemare quelle sue sculture che erano rimaste nello stanzone. Esistevano dunque E chi lo sa? Modigliani le portò con sé, oppure seguì il nostro amichevole consiglio. Gli si rispose infatti concordemente: buttale nel fosso”.


Niente di certo insomma, solo unicamente delle supposizioni. Ma da queste supposizioni nasce un’altra leggenda, il mito che dopo più di settant’anni queste fantomatiche sculture, di cui nessuno sa niente di preciso, esistano davvero. Siano ancora lì, dentro il fosso vicino ai mercati generali, ancora intatte, possibili da recuperare. Questa volta la cronaca, “il giallo a tre teste” come è stato intitolato, la beffa, sono di ieri: nel luglio del 1984 si draga il canale e si pescano quelle che forse un po’ con troppa fretta vengono entusiasticamente riconosciute come le sculture eseguite dall’artista nell’estate del 1909. Ben presto però l’amara verità: false tutte e tre, una è opera di tre ragazzi burloni e di un trapano elettrico (“buttiamocela noi, così trovano qualcosa!”, e dopo aver recuperato un sasso, con davanti la fotografia di una testa scolpita da Modigliani, si danno da fare a lavorare per due giorni), le altre due sono opera di un portuale.


Molti errori, troppa faciloneria, eccessivo sarcasmo. Tanto spettacolo. Chissà come avrebbe reagito Modigliani vedendosi messo a nudo e in ridicolo dall’irriverenza dei nostri anni? Probabilmente non avrebbe fatto niente di più di quello che già era abituato a fare.

Modì sapeva che cosa significa essere provocatori e fragili nello stesso tempo. È sempre stato consapevole di quello a cui andava incontro.


M. P. F.

 

Modigliani, l’ultimo romantico

Corrado Augias

Mondadori

7,99 euro

 

 

giovedì 12 novembre 2020

LA QUESTIONE DEL REALISMO

 

Jean-Franḉois Millet e Gustave Courbet

La questione del realismo


Jean-Franois Millet e Guststave Courbet, quasi coetanei (nato nel 1814 il primo, appena cinque anni dopo il secondo), e pure deceduti negli anni Settanta a stretto giro, oltretutto uniti e nello stesso tempo divisi da una rivalità e diversa fortuna, sono stati senza dubbio i due alfieri del realismo, un movimento con cui la Francia ha preso la testa dell’arte europea mantenendola per tutto l’Ottocento. Facendo un minimo di retrospezione, le cose, per i transalpini, non erano andate altrettanto bene in precedenza.


Se pensiamo al neoclassicismo, senza dubbio Parigi ha potuto mettere in campo la centralità di Jacque-Louis David, ma subito contrastata, per la scultura, dal nostro Antonio Canova, e anche i talenti inglesi quali Heinrich F
üssli e William Blake, inquietavano il predominio dell’artista francese, gettando perfino ombre e dubbi sulla stessa etichetta di neoclassicismo, che a ben vedere nascondeva al suo interno tensioni presaghe delle grandi innovazioni da cui era già scosso il tempo delle scienze fisiche. Si potrà dire che a rafforzare il prestigio di David era venuto subito in aiuto, da buon secondo, Jean-Auguste-Domininque Ingres, con la sua arte levigata, vitrea, marmorea, capace di imporsi anche su fenomeni d’Oltralpe quali i nazareni tedeschi, e perfino i puristi presso di noi.

Si potrà pure dire che la Francia aveva ripreso la guida degli stili col romanticismo, etichetta incerta e ambigua, ma che senza dubbio trova un pieno riscontro nella pittura esuberante di Eugéne Delacroix, anche in concomitanza con una di quelle rivoluzioni che per tutto l’Ottocento, a intervalli quasi regolari, hanno sconvolto il suolo francese. Delacroix era stato lo splendido cantore della rivoluzione del 1830, contro la restaurazione del legittimismo dei Borboni che aveva portato il popolo parigino a erigere le barricate, e di converso fu pure legittimo che svettasse su di esse una prosperosa immagine a petto nudo della Marianna, simbolo della nazione, come Libertà che guida il popolo.

Ma la via più prudente è di prendere la nozione di romanticismo il più possibile alla lettera, in eccezione tematica, come se si fosse trattato di sostituire i temi greco-romani, cari al neoclassicismo, con altri più fascinosi, estratti dal Medioevo, gli stessi che erano stati trattati non più con le lingue classiche, greco, latino, bensì con quelle da dirsi appunto “romantiche”, o romanze, e in definitive romantiche, viste peraltro in stretta congiunzione con apporti dalla Bibbia  e da culture esotiche, una materia, insomma, del tutto adatta a infiammare le tavolozze.

E quella di Delacroix aveva saputo ardere in particolar modo, a contrasto con le tinte fredde, ceree, marmoree che invece erano appartenute al rivale Ingres. Ma si rimaneva pur sempre al livello di una tematica colta, a misura delle classi dominanti. Invece toccherà proprio ai realisti, con i nostri due alfieri alla testa, dare voce a quello che sarebbe stato definito il “quarto stato”, assolutamente escluso dai privilegi sanciti dalla Rivoluzione francese. Ai membri di quella innumerevole classe sociale di contadini e artigiani i sacri diritti espressi dalla Rivoluzione francese. Ai privilegi sanciti dalla Rivoluzione francese. Ai membri di quella innumerevole classe sociale di contadini e artigiani i sacri diritti espressi dalla Rivoluzione dell’Ottantanove erano del tutto interdetti.

Che ne potevano fare della libertà, costretti come erano a lunghe giornate di lavoro in condizioni faticose e bestiali? Non si parli poi di una libertà d’opinione a cui una folla di analfabeti non poteva avere alcun accesso. Rimaneva semai una qualche possibile partecipazione all’appello della fraternità. Ma anche per questo aspetto sarebbe meglio parlare di solidarietà, di senso di appartenenza a uno stato di esclusione. Si trattava di una folla di diseredati, di costretti, con poco soldo e cibo, ai più bassi e sordidi mestieri. Ma di una condizione del genere sia Millet che Courbet erano a perfetta conoscenza, per la loro stessa provenienza dai territori poveri del contado, della provincia, e dunque a stretto contatto con le tribolazioni di quelle specie di nuovi servi della gleba. Si aggiunga un altro capitolo in cui la Francia aveva ripreso un primato, in precedenza perduto, quello nella filosofia.

Si sa bene che la Germania glielo aveva sottratto, con una costellazione di grandi nomi, da Kant a Fichte, Schelling, Hegel soprattutto, con l’imporsi di una riflessione sovranamente elevata, impregnata di idealismo, volto a esaltare il soggetto, la riflessione, le doti di testa. Un idealismo talmente radicale che, come sempre avviene in presenza di eccessi, ha postulato dal suo stesso un ribaltamento, e del resto a questo avevano provveduto, ancora una volta in primo luogo, i filosofi tedeschi, con Ludwig Feuerbach e il suo perentorio invito a rimettere la riflessione filosofica in basso, sui piedi, seguito a ruota da Karl Marx, con una lezione che per tutti i decenni seguenti e anche oltre si sarebbe imposta radicalmente, assumendo risolutamente la guida in tutti i provvedimenti a favore della causa del proletariato. Ma proprio su questo terreno erano scesi in campo anche i francesi, con una successione di esponenti di un movimento su cui avevano imposto senza dubbio un diritto di precedenza, il positivismo, affidato a un pensiero procedente quasi per ondate successive, da Auguste Comte (1798-1857) a Pierre Proudhon (1809-1857). In definitiva, il positivismo è un fenomeno da considerarsi del tutto parallelo al realismo, pienamente risoluto anch’esso a rimettere la riflessione storica “sui piedi”, a stretto contatto con la rude e sgradevole realtà degli ultimi della terra, chiamati a recitare una parte non indifferente sulla scena mondiale.

Ritornando ai nostri due alfieri, Millet e Courbet, non è che si impicciassero molto di filosofia, o comunque di ideologia, cui in particolare il primo risultò sempre del tutto riluttante, ma della necessità di prestare attenzione agli ultimi della terra, sì di questo se ne intendevano, per diretta esperienza, e a questa causa rivolsero tutto il loro talento. Ma con una specie di divisione delle parti, che fu anche la causa di una diversa fortuna nelle loro rispettive carriere, e soprattutto nell’accoglienza che erano destinati a ricevere. Millet ricorreva a soluzioni che, con un termine oggi diventato di moda, potremmo definire “deboli”, mentre l’altro evocò a sé un ruolo “forte”, robusto aggressivo, che gli procurò l’apprezzamento dei vari militanti delle sinistre, da cui fu animata, seppure in vari modi e gradi, la seconda metà dell’Ottocento.


Ritornando ai nostri alfieri, Millet e Courbet, non è che si impicciassero molto di filosofia, o comunque di ideologia, cui in particolare il primo risultò sempre del tutto riluttante, ma della necessità di prestare attenzione agli ultimi della terra, si, di questo se ne intendevano, per diretta esperienza, e a questa causa rivolsero tutto il loro talento. Ma con una specie di divisione delle parti, che fu anche la causa di una diversa fortuna nelle loro rispettive carriere, e soprattutto nell’accoglienza che erano destinati a ricevere, Millet ricorreva a soluzioni che, con un termine oggi diventato di moda, potremmo definire “deboli”, mentre l’altro evocò a sé un ruolo “forte”, robusto, aggressivo, che gli procurò l’apprezzamento dei vari militanti delle sinistre, da cui fu animata, seppure in vari modi e gradi, la seconda metà dell’Ottocento.  Una distinzione del genere vale subito per caratterizzare le eredità che toccarono a ciascuno dei due. Quella di Courbet avveniva chiaramente nel segno dei suoi caratteri “forti”, espliciti.


In Italia, grandi precursori del realismo, furono Giovanni Segantini, Gaetano Previati e Giuseppe Pelizza che per la mirabile parata del “quarto stato” avanzante in solenne processione, da lui concepita, come se i contadini di Millet fossero stati chiamati a raccolta, invitati a non disperdersi più nella solitudine dei campi, e a ritrovare invece un incedere solidale, calmo ma nello stesso tempo gravido di uno spirito di muta rivolta.


M.P.F.

 

lunedì 9 novembre 2020

KIKI SMITH

 

Kiki Smith


Hearing you with my eyes.


A un anno dall’apertura della nuova sede, il Mcba di Losanna dedica a Kiki Smith una retrospettiva che riunisce oltre un centinaio di lavori provenienti da gallerie e collezioni pubbliche e private, europee e statunitense (fino al 10 gennaio). Il percorso esplora alcuni dei temi più cari alla riflessione dell’artista: dall’indagine sul corpo femminile e sulle lacerazioni al rapporto misterioso (e salvifico) tra essere umano e mondo naturale.


Nata nel 1954 a Norimberga da genitori americani, Kiki Smith vive e lavora a New York dalla fine degli anni Settanta e ha all’attivo oltre 150 personali nelle maggiori istituzioni museali del mondo (l’ultima in Italia l’anno scorso, alle Gallerie degli Uffizi).


Quella in corso al Musée cantonal de beaux-art si intitola Hearing you with my eyes (sentieri con i miei occhi), aperta fino al 10 gennaio,  consente di attraversare  quarant’anni di attività dell’artista lungo il filo conduttore della percezione sensoriale, che porta con sé sia l’iconografia anatomica legata al corpo, umano e animale, sia la rappresentazione della natura e del cosmo, sempre rielaborate in chiave suggestivamente simbolica attingendo al mito, al folklore, nella forza dell’istinto.


I lavori esposti includono disegni, stampe, sculture e arazzi: esito di una pratica artistica che continuando a privilegiare tecniche tradizionali, approccio artigianale e supporti poveri come carta, cera, legno – si esprime oggi con una pluralità di media e materiali che definiscono con equilibrio perfetto la compiuta grazia del suo potente immaginario.

M.P.F.

IL DISEGNO DELLO SCULTORE HENRY MOORE

 


Il Disegno dello scultore

Henry Moore

Henry Moore torna a Firenze. A quasi cinquant’anni (era il 1972) dalla memorabile mostra al Forte di Belvedere che vide protagonista il maestro della scultura inglese, il Museo Novecento ha deciso di rendergli omaggio con “Il Disegno dello scultore. Henry Moore”, mostra curata da Sergio Risaliti, Direttore artistico del Museo Novecento, e Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore collection and Exihibition.


La mostra organizzata in collaborazione con la Henry Moore Foundation (attualmente chiusa per COVI_19) sarà riaperta a dicembre fino al 23 maggio 2021, e vede il museo fiorentino ospitare una corposa selezione di disegni, circa settanta, assieme a grafiche e sculture.



“Essere giunti dopo due anni a creare una collaborazione scientifica con la prestigiosa Henry Moore Foundation per riportare a Firenze le opere del maestro, circa cinquant’anni dopo la mostra epocale al Forte di Belvedere, è motivo di vanto e di immensa soddisfazione – ha detto Sergio Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento e curatore della mostra -, “Il disegno dello scultore. Henry Moore”, vuole essere un dono alla città che ha sofferto una crisi drammatica e che sta uscendo a fatica ma con coraggio e orgoglio da questa situazione così difficile. Ci auguriamo che questo progetto funga da modello per altre realtà, tanto per qualità scientifica che per sostenibilità. C’è un altro aspetto che va evidenziato: il carattere inedito della selezione delle opere, che consente di entrare nel vivo della genesi concettuale e formale del lavoro del grande scultore. Infine il legame con il territorio, cui Moore fu legato fin dalla giovinezza, sancito dalla mostra del 1972”.


Con “Il Disegno dello scultore. Henry Moore” il Museo Novecento si posiziona a livello internazionale e lo fa con una mostra preparata negli ultimi due anni dal direttore dell’istruzione fiorentina in collaborazione con la direzione scientifica della Fondazione Moore. Le forme naturali – rocce, ciottoli, radici e tronchi -, gli animali, ma anche i crani e poi la realizzazione tra il creatore e la materia, esemplificata anche dai disegni che ritraggono le mani dell’artista o l’artista al lavoro nel paesaggio, divengono fulcro della mostra. Traendo spunto da una rilettura di alcuni temi centrali nella produzione di Moore, l’esposizione intende proporre un approfondimento sul valore del disegno nella sua pratica e sulla relazione con la scultura.


Secondo Moore infatti :  L’ osservazione della natura è decisiva nella vita dell’artista. Grazie a essa anche lo scultore arricchisce la propria conoscenza della forma, trova nutrimento per la propria ispirazione e mantiene la freschezza di visione, evitando di cristallizzarsi nella ripetizione di formule”.

Come una sorta di mostra nella mostra, a sancire il legame con il territorio e con la storia del collezionismo nato da una costola della celebre retrospettiva del Forte di Belvedere a cura di Giovanni Carandente (durante la quale furono esposte 289 opere in dialogo con l’architettura rinascimentale e il paesaggio circostante), sono esposte anche una selezione di piccole sculture presenti in collezioni private fiorentine e non solo.


Nella sala al piano terra, la presenza eccezionale di un cranio di elefante proveniente dallo studio dell’artista su cui Moore si è applicato costantemente anche per realizzare una serie di incisioni, sottolinea l’analisi delle forme da punti di vista variati e con soluzioni formali molteplici, nate forse sull’esempio di un’identica performance grafica di Picasso, quasi ossessionato dalla possibilità decostruttiva della figura del toro.


Con “Il disegno dello scultore. Henry Moore” si accende quindi un faro sulla produzione grafica di questo protagonista della scultura contemporanea, che nel corso della sua intensa attività ha avuto modo di confrontarsi non solo con la scultura primitiva ed extraeuropea e con le sperimentazioni formali e linguistiche delle avanguardie storiche – su tutte, le esperienze di Brancusi e Picasso -, ma anche con la tradizione della grande arte italiana dei secoli precedenti, in particolare con quella dei maestri attivi a Firenze e in Toscana, i grandi artefici dell’umanesimo in arte.


La mostra significativa per presenza di opere e per il carattere inedito della scelta, rinsalda pertanto il legame di Moore con il territorio, che tuttora ospita opere monumentali dell’artista e che ha accolto, oltre all’importante esposizione del 1972, una mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio nel 1987.


Va ricordato poi che Firenze ha rappresentato un momento saliente e forse cruciale nella formazione del genio artistico di Moore, giunto in città per la prima volta nel 1925, durante il suo primo viaggio di studio in Italia, realizzato grazie ad una borsa di studio messa a disposizione dal Royal College of Art. Fu quella l’occasione per ammirare e osservare le creazioni dei grandi maestri del passato, tra cui Giotto, Donatello, Masaccio e Michelangelo.


Lo scopo principale dei miei disegni è di aiutarmi a scolpire. Il disegno è infatti un mezzo per generare idee per la scultura, per estrarre da sé l’idea iniziale, per organizzare le idee e per provare a svilupparle…Mi servo del disegno anche come metodo di studio e osservazione della natura (studi di nudo, di conchiglie, di ossi e altro). Mi accade anche, a volte, di disegnare per il puro piacere di farlo”, ha dichiarato Moore.


Soffermarsi sull’opera grafica di Moore e sui i temi prediletti dall’artista significa allora entrare nel vivo della genesi della sua arte. Il disegno appare non solo come esercizio preparatorio dello scultore, concentrato a bloccare l’immaginazione per poi comprendere le forme e il loro sviluppo tridimensionale.


Emerge infatti, dalla selezione delle opere, una pratica anche autonoma, poeticamente libera, e che comunque sembra indicare con estrema precisione quali siano state fin dalla giovinezza le fonti d’ispirazione naturali per il grande artista, che affermava. “Il profondo interesse che nutro per la figura umana non mi ha impedito di prestare, da sempre, una grande  attenzione alle forme naturali, come ossi, conchiglie, sassi e così via”

È ancora lo stesso Moore a dichiarare, inoltre: “la natura fornisce allo scultore un repertorio illimitato di forme e di ritmi (reso ancor più vasto dal telescopio e dal microscopio) che gli permette di arricchire immensamente la propria esperienza della forma…I sassi e le rocce ad esempio mostrano il mondo in cui la natura lavora la pietra…nelle rocce, nel loro ritmo nervoso, irregolare e discontinuo, si ha la dimostrazione di come si possa agire sulla pietra spaccandola, tagliandola in modo netto…Gli ossi presentano una sorprendente potenza strutturale unita a una forte tensione formale…Gli alberi (i tronchi d’albero) insegnano a riconoscere i principi con cui si sviluppano e si rinforzano le articolazioni, rendendo agile la connessione tra le varie parti della struttura…Nelle conchiglie la natura ci offre immagine della forma dura e cava (scultura metallica) perfettamente conclusa in se stessa”.

M.P.F.