Jean-Franḉois Millet e Gustave Courbet
La questione del realismo
Jean-Franḉois Millet e Guststave Courbet, quasi coetanei (nato nel 1814 il primo, appena cinque anni dopo il secondo), e pure deceduti negli anni Settanta a stretto giro, oltretutto uniti e nello stesso tempo divisi da una rivalità e diversa fortuna, sono stati senza dubbio i due alfieri del realismo, un movimento con cui la Francia ha preso la testa dell’arte europea mantenendola per tutto l’Ottocento. Facendo un minimo di retrospezione, le cose, per i transalpini, non erano andate altrettanto bene in precedenza.
Se pensiamo al neoclassicismo, senza dubbio Parigi ha potuto mettere in campo la centralità di Jacque-Louis David, ma subito contrastata, per la scultura, dal nostro Antonio Canova, e anche i talenti inglesi quali Heinrich Füssli e William Blake, inquietavano il predominio dell’artista francese, gettando perfino ombre e dubbi sulla stessa etichetta di neoclassicismo, che a ben vedere nascondeva al suo interno tensioni presaghe delle grandi innovazioni da cui era già scosso il tempo delle scienze fisiche. Si potrà dire che a rafforzare il prestigio di David era venuto subito in aiuto, da buon secondo, Jean-Auguste-Domininque Ingres, con la sua arte levigata, vitrea, marmorea, capace di imporsi anche su fenomeni d’Oltralpe quali i nazareni tedeschi, e perfino i puristi presso di noi.
Si potrà pure dire che la Francia aveva ripreso la guida degli stili col romanticismo, etichetta incerta e ambigua, ma che senza dubbio trova un pieno riscontro nella pittura esuberante di Eugéne Delacroix, anche in concomitanza con una di quelle rivoluzioni che per tutto l’Ottocento, a intervalli quasi regolari, hanno sconvolto il suolo francese. Delacroix era stato lo splendido cantore della rivoluzione del 1830, contro la restaurazione del legittimismo dei Borboni che aveva portato il popolo parigino a erigere le barricate, e di converso fu pure legittimo che svettasse su di esse una prosperosa immagine a petto nudo della Marianna, simbolo della nazione, come Libertà che guida il popolo.
Ma la via più prudente è di prendere la nozione di romanticismo il più possibile alla lettera, in eccezione tematica, come se si fosse trattato di sostituire i temi greco-romani, cari al neoclassicismo, con altri più fascinosi, estratti dal Medioevo, gli stessi che erano stati trattati non più con le lingue classiche, greco, latino, bensì con quelle da dirsi appunto “romantiche”, o romanze, e in definitive romantiche, viste peraltro in stretta congiunzione con apporti dalla Bibbia e da culture esotiche, una materia, insomma, del tutto adatta a infiammare le tavolozze.
E quella di Delacroix aveva saputo ardere in particolar modo, a contrasto con le tinte fredde, ceree, marmoree che invece erano appartenute al rivale Ingres. Ma si rimaneva pur sempre al livello di una tematica colta, a misura delle classi dominanti. Invece toccherà proprio ai realisti, con i nostri due alfieri alla testa, dare voce a quello che sarebbe stato definito il “quarto stato”, assolutamente escluso dai privilegi sanciti dalla Rivoluzione francese. Ai membri di quella innumerevole classe sociale di contadini e artigiani i sacri diritti espressi dalla Rivoluzione francese. Ai privilegi sanciti dalla Rivoluzione francese. Ai membri di quella innumerevole classe sociale di contadini e artigiani i sacri diritti espressi dalla Rivoluzione dell’Ottantanove erano del tutto interdetti.
Che ne potevano fare della libertà, costretti come erano a lunghe giornate di lavoro in condizioni faticose e bestiali? Non si parli poi di una libertà d’opinione a cui una folla di analfabeti non poteva avere alcun accesso. Rimaneva semai una qualche possibile partecipazione all’appello della fraternità. Ma anche per questo aspetto sarebbe meglio parlare di solidarietà, di senso di appartenenza a uno stato di esclusione. Si trattava di una folla di diseredati, di costretti, con poco soldo e cibo, ai più bassi e sordidi mestieri. Ma di una condizione del genere sia Millet che Courbet erano a perfetta conoscenza, per la loro stessa provenienza dai territori poveri del contado, della provincia, e dunque a stretto contatto con le tribolazioni di quelle specie di nuovi servi della gleba. Si aggiunga un altro capitolo in cui la Francia aveva ripreso un primato, in precedenza perduto, quello nella filosofia.
Si sa bene che la Germania glielo aveva sottratto, con una costellazione di grandi nomi, da Kant a Fichte, Schelling, Hegel soprattutto, con l’imporsi di una riflessione sovranamente elevata, impregnata di idealismo, volto a esaltare il soggetto, la riflessione, le doti di testa. Un idealismo talmente radicale che, come sempre avviene in presenza di eccessi, ha postulato dal suo stesso un ribaltamento, e del resto a questo avevano provveduto, ancora una volta in primo luogo, i filosofi tedeschi, con Ludwig Feuerbach e il suo perentorio invito a rimettere la riflessione filosofica in basso, sui piedi, seguito a ruota da Karl Marx, con una lezione che per tutti i decenni seguenti e anche oltre si sarebbe imposta radicalmente, assumendo risolutamente la guida in tutti i provvedimenti a favore della causa del proletariato. Ma proprio su questo terreno erano scesi in campo anche i francesi, con una successione di esponenti di un movimento su cui avevano imposto senza dubbio un diritto di precedenza, il positivismo, affidato a un pensiero procedente quasi per ondate successive, da Auguste Comte (1798-1857) a Pierre Proudhon (1809-1857). In definitiva, il positivismo è un fenomeno da considerarsi del tutto parallelo al realismo, pienamente risoluto anch’esso a rimettere la riflessione storica “sui piedi”, a stretto contatto con la rude e sgradevole realtà degli ultimi della terra, chiamati a recitare una parte non indifferente sulla scena mondiale.
Ritornando ai nostri due alfieri, Millet e Courbet, non è che si impicciassero molto di filosofia, o comunque di ideologia, cui in particolare il primo risultò sempre del tutto riluttante, ma della necessità di prestare attenzione agli ultimi della terra, sì di questo se ne intendevano, per diretta esperienza, e a questa causa rivolsero tutto il loro talento. Ma con una specie di divisione delle parti, che fu anche la causa di una diversa fortuna nelle loro rispettive carriere, e soprattutto nell’accoglienza che erano destinati a ricevere. Millet ricorreva a soluzioni che, con un termine oggi diventato di moda, potremmo definire “deboli”, mentre l’altro evocò a sé un ruolo “forte”, robusto aggressivo, che gli procurò l’apprezzamento dei vari militanti delle sinistre, da cui fu animata, seppure in vari modi e gradi, la seconda metà dell’Ottocento.
Ritornando ai nostri alfieri, Millet e Courbet, non è che si impicciassero molto di filosofia, o comunque di ideologia, cui in particolare il primo risultò sempre del tutto riluttante, ma della necessità di prestare attenzione agli ultimi della terra, si, di questo se ne intendevano, per diretta esperienza, e a questa causa rivolsero tutto il loro talento. Ma con una specie di divisione delle parti, che fu anche la causa di una diversa fortuna nelle loro rispettive carriere, e soprattutto nell’accoglienza che erano destinati a ricevere, Millet ricorreva a soluzioni che, con un termine oggi diventato di moda, potremmo definire “deboli”, mentre l’altro evocò a sé un ruolo “forte”, robusto, aggressivo, che gli procurò l’apprezzamento dei vari militanti delle sinistre, da cui fu animata, seppure in vari modi e gradi, la seconda metà dell’Ottocento. Una distinzione del genere vale subito per caratterizzare le eredità che toccarono a ciascuno dei due. Quella di Courbet avveniva chiaramente nel segno dei suoi caratteri “forti”, espliciti.
In Italia, grandi precursori del realismo, furono Giovanni Segantini, Gaetano Previati e Giuseppe Pelizza che per la mirabile parata del “quarto stato” avanzante in solenne processione, da lui concepita, come se i contadini di Millet fossero stati chiamati a raccolta, invitati a non disperdersi più nella solitudine dei campi, e a ritrovare invece un incedere solidale, calmo ma nello stesso tempo gravido di uno spirito di muta rivolta.
M.P.F.
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