domenica 21 marzo 2021

Giovanni Bellini

 

Giovanni Bellini


L’eccellenza del colore

Di Peter Humfrey

In un ideale atlante delle immagini del Rinascimento Giovanni Bellini (1438/1516) occupa una posizione strategica. È l’artista che più di altri, sa tradurre in un linguaggio figurativo popolare la potenza e la devozione della Repubblica di Venezia. Le sue Madonne col Bambino, ambite dall’aristocrazia lagunare e poi dai musei del mondo, cristallizzano un’iconografia che sintetizza cultura orientale e occidentale. Mentre le sale e le chiese che raccolgano questo patrimonio materiale restano vuote, è possibile ripercorrere l’opera del maestro del colore attraverso la monografia appena pubblicata da Marsilio: una porta accessibile e dall’apparato fotografico impeccabili.


Il grande rinnovatore della pittura veneziana è fratello di Gentile Bellini, Giovanni Bellini (Venezia, 1425-30 ivi, 1516), talvolta detto <<Giambellino>>. Educatosi nella bottega paterna, egli sente il bisogno di più ampie conoscenze, di studi approfonditi sui maggiori artisti apportatori di novità rinascimentali, sia su quelli che hanno lasciato tracce a Venezia, come Andrea del Castagno, sia quelli che operano furi, da Piero della Francesca e da Roger Van der Weyden (che può aver visto a Ferrara). Al Mantegna, i rapporti col quale si fanno poi più stretti per il matrimonio di quest’ultimo con la sorella del Bellini, Nicolosia.


Fra i due pittori vi sono scambi reciproci, fruttuosi per ciascuno dei due. Giovanni conferisce però sempre alle sue figure un accento lirico, intimo, anche quando più evidenti sono gli elementi mantegneschi, come nell’Orazione nell’orto. La vicinanza e, al tempo stesso, la profonda divergenza dei due artisti è visibile in molte altre opere degli anni ’60: per esempio nella Trasfigurazione di Cristo (Venezia, Museo Correr) e, soprattutto, nella Pietà. Sono queste le caratteristiche che il pittore andrà sempre più sviluppando. La Trasfigurazione, dipinta fra il 1480 e il 1485, è opera capitale, Bellini rinuncia a rappresentare, secondo narrazione evangelica e secondo l’iconografia tradizionale, i tre protagonisti evangelici e i tre protagonisti (Cristo, Mosè, Elia) in alto e i tre apostoli (Pietro, Giacomo, Giovanni) in basso sul colle Tabor, limitandosi a indicare la differenza gerarchica fra i due gruppi con le diverse posizioni sono, tutti, uomini che vivono in un’unica natura amica. Per questo rinuncia anche alla prevalenza quantitativa delle figure sul paesaggio, stabilendo così un nuovo rapporto fra l’uomo e la natura.


Tutto è costruito con il colore. Cristo, dai riflessi luminosi della candida veste che lo avvolge, riceve leggerezza, quasi una levitazione, che esprime il suo <<trasfigurarsi>>.


Quale importanza abbia avuto per Venezia la breve permanenza di Antonello da Messina è evidente nella Pala di San Giobbe del Bellini che ben si confronta con quella di San Cassiano di Antonello (1470)

Nella Pala di San Giobbe le figure si dispongono dolcemente intorno alla Madonna, entro un’architettura albertiana. I colori con cui sono costruite le figure si fondono fra loro mediante una luce calda che tutto unifica nei riflessi del mosaico del catino absidale.


Quando dipinge la Pala di San Zacaria, Giovanni Bellini è ormai vecchio. Ma, proseguendo sulla strada intrapresa con la Pala di San Giobbe, raffina ancora più il suo delicato luminismo cromatico…

Giovanni Bellini, infaticabile ricercatore durante la sua lunga vita, artista sensibile e intimamente lirico, il più grande del’400 veneziano, chiude un’epoca e si pone, al tempo stesso, all’inizio di una età nuova.


M.P.F.

La Monografia

Giovanni Bellini.

L’eccellenza del colore

Di Peter Humfrey

Marsilio (pagg.290, euro 60

Con 180 illustrazioni

 

mercoledì 17 marzo 2021

 

S


Séraphine de Senlis

Seraphine Louis nacque ad Arsy, comune nella regione francese della Piccardia, il 3 settembre 1864, da padre orologiaio e madre proveniente da famiglia di pastori. Questa morì all’epoca del suo primo compleanno, e fu seguita sette anni dopo anche dal padre, il quale si era nel frattempo risposato. La situazione economica drammatica in cui la famiglia versava, costrinse la piccola Louis a lavorare inizialmente come domestica nel convento delle Sorelle della Providenza a Clermont, nel 1881.


Per un certo periodo accarezzò addirittura l’idea di farsi monaca; poi, mossa da esigenze economiche, trovò impiego come cameriera a ore nella vicina cittadina di Sanlis, dove si trasferì nel 1906. Furono anni bui, allietati solo dalla profonda fede religiosa e dalla frequentazione della maestosa cattedrale gotica della città, le cui vetrate policrome lasciarono un’impronta profonda sulla sua fantasia e servirono quali fonte d’ispirazione, per la brillantezza dei colori, delle sue creazioni. Parallela all’ardua attività lavorativa, ebbe anche inizio l’attività pittorica, alla quale Louis sosteneva di essere stata introdotta da un angelo o dalla Madonna stessa. In ogni caso, la donna, terminato il lavoro giornaliero, prese l’abitudine di dipingere durante la notte, in momenti di solitaria alienazione, tele a tema floreale. Un’estate puliva le stanze di un critico d’arte in vacanza, Wilhelm Uhde (era lo scopritore di Henri Rousseau). Quando egli per caso vide il suo lavoro, capì che aveva fatto un’altra scoperta.

Come egli stesso affermava, non era un semplice studio di frutta e fiori ma un’opera ispirata, dipinta con fervore medievale e notevole tecnica al tempo stesso. Egli fece una notevole pubblicità al lavoro di Seraphine e la rifornì di tele più larghe e colori migliori. Venivano sempre studenti di arte da Parigi (lei stessa non aveva mai visto quella città) per apprendere come facesse a ottenere un oro così brillante che si può ammirare, ad esempio, nello splendido ed iridescente ‘Albero del paradiso’.


Lei però pose un cartello sulla sua porta che diceva <<M.lle Seraphine non riceve>>, si barricava nella sua stanza con una complicata serie di lucchetti ogni volta che dipingeva e per questo il segreto del suo colore lucente morì con lei. Le sue visioni divennero sempre più apocalittiche e annunciò a tutti nel paese che era prossima la fine del mondo.

Grazie al mecenate Uhde, la pittrice-cameriera conobbe un periodo di benessere e successo finanziario che in precedenza non aveva conosciuto. Questa fase di floridezza, tuttavia, fu di breve durata, allorchè Uhde nel 1930 fu colto dalla Grande Depressione: il munifico mecenate, profondamente indebitato, non potè fare altro che interrompere l’attività mercantile e smettere di acquistare i sui dipinti, e anche i suoi pochi clienti sparirono.


Si manifestarono allora sintomi di un esaurimento psichico che la portò al ricovero nel manicomio di Clermont, dove le fu diagnosticata una forma di psicosi cronica con manie di grandezza. Fu quindi trasferita in una casa di cura a Villers-sous-Erquery, dove si spense lentamente, per poi morire lì l’11 dicembre 1942, all’età di settantotto anni: le sue ultime parole furono <<ho fame>>.


Séraphine Luis è ricordata tra i più significativi esponenti dell’arte naïf. La sua produzione pittorica si sostanzia di tele raffiguranti principalmente tappeti di fiammeggianti fiori e foglie lussureggianti, in un trionfo botanico di alberi, frutti e cespugli realizzati con un’intensa carica onirica, che avvicina l’artista al surrealismo. Il tema floreale è probabilmente una reminiscenza della fanciullezza trascorsa con la madre; per questo motivo i fiori di Seraphine non sono semplici decorazioni, bensì sono sostenuti da un’immediata e vibrante forza espressiva, e scossi da una bellezza candida eppure brutale.


Peculiare era anche la tecnica pittorica adottata da Louis. I colori e i pigmenti usati da Seraphine sono frutto di una formula di sua stessa invenzione, composta in parte da acquarello, in parte da sostanze che si era ben guardata dallo specificare, ma presumibilmente sono cera liquida per pavimenti in alcuni dipinti e l’antico legante ad uovo in altri. A questo personaggio enigmatico, inoltre, il regista Martin Provost nel 2009 dedicò un film Séraphine, vincitore di ben sette riconoscimenti alla 34 edizione dei Premi César.


Séraphine Louis è ben rappresentata al museo d’arte di Senlis, nel museo d’arte naïf di Nizza e nel museo d’arte moderna di Villeneuve-d’Ascq.



M.P.F.

sabato 13 marzo 2021

Savinio. Incanto e mito

 


Savinio a Roma

Palazzo Altemps rende omaggio all’arte di Alberto Savinio, fratello di Giorgio de Chirico. Tra colori vivaci, atmosfere giocose e rimandi alla mitologia, aperta fino al 13 giugno 2021.

I colori vivaci e le forme geometriche dei “giocattoli” di Alberto Savinio irrompono fra le statue classiche e i saloni rinascimentali di Palazzo Altemps a Roma, nella mostra “Savinio. Incanto e mito”. Dopo aver ospitato le opere di Medardo Rosso e di Filippo de Pisis, il museo della capitale completa la trilogia degli artisti novecenteschi che hanno messo l’arte classica al centro del loro lavoro. E a Palazzo Altemps (una delle prestigiose sedi del Museo Nazionale romano), che contiene capolavori della statuaria romana, greca ed egiziana, ricambia l’attenzione omaggiando i tre maestri.


I quadri, ma anche bozzetti, schizzi, quaderni, manoscritti, fogli dattiloscritti e libri compongono il percorso sul mondo variegato di un personaggio eclettico e poliedrico, Alberto Savinio (pseudonimo di Antonio Francesco Alberto de Chirico, Atene, 1891 – Roma, 1952), meglio conosciuto come scrittore; ma solo perché suo fratello Giorgio de Chirico è stato uno dei più noti pittori del Novecento e ne ha in parte oscurato il lavoro artistico.

L’unicità del linguaggio di Savinio è chiara fin dalle prime sale: siamo nel mondo del colore e, al tempo stesso, del rigore geometrico, della natura e dei materiali della civiltà industriale, degli uomini-dei con il collo e il volto da animali che richiamano i miti greci, provenienti da un Paese (la Grecia, appunto) dove Alberto e Giorgio sono nati e hanno trascorso la loro infanzia.


Le più 90 opere in mostra, la maggior parte delle quali risalenti agli Anni Trenta con qualche excursus fra le ultime produzioni, provengono da collezioni private, personali e societarie, e da alcuni musei: il Mart di Trento e Rovereto, la Galleria Nazionale di Roma, il Museo civico d’arte di Pordenone, il Museo d’arte moderna Mario Rimoldi (Cortina d’Ampezzo), la Pinacoteca comunale di Faenza, il Musée d’Art Moderne de Paris. Nelle prime sale della mostra, le montagne, le isole, le spiagge dominate da giocattoli coloratissimi e geometrici si stagliano su paesaggi scuri o sfumati, su mari e montagne esistenti solo come “nostos”, veicoli di un nostalgico viaggio di ritorno verso la patria infantile.

Poi c’è il Savinio scenografo e costumista: l’intera sala del Galata suicida (la splendida statua romana del I secolo a,C., collocata in una enorme sala centrale) è occupata dalle opere che l’artista ha realizzato per l’allestimento dell’Edipo Re alla Scala di Milano nel 1948 con le musiche di Stravinskij, e per I racconti di Hoffmann con musiche di Offenbach, di nuovo alla Scala nel 1949. Diversi bozzetti provengono dell’Archivio storico documentale del teatro milanese.


Gli dei dell’Olimpo di Savinio, collocati nell’Olimpo greco-romano di Palazzo Altemps: Apollo (1931) dal volto di oca affianca la statua di Urania che regge in mano il globo; Le Dioscuri (1929) dal corpo scultoreo sono vicini ad Afrodite accovacciata, mentre i rossi, i verdi e i gialli accesi di un Prometeo (1929) acefalo contrastano con il marmo candido e la postura eretta di Hermes Loghios, in un dialogo continuo fra classicità antica e moderna.


Nella sala dove inizia e termina il percorso della mostra sono esposti libri e manoscritti che inquadrano a tutto tondo la figura dell’artista, accompagnati da audio d’epoca.

Nel libro-catalogo edito da Electa, Savinio A-Z, la curatrice della mostra (insieme a Zelda De Lillo) Ester Coen descrive il volume e il protagonista: “Una enciclopedia per un artista che, come in un gioco perenne, costruisce, distrugge per poi ricostruire con animo incolpevole e malizioso, inventa e scopre mondi paralleli e immaginari: il gioco che giocano il fanciullo e l’artista”. Dopo oltre quarant’anni Roma dedica una grande mostra a Savinio interrompendo un troppo lungo periodo di digiuno e silenzio.


M.P.F.

giovedì 4 marzo 2021

 

Le donne che hanno scritto la


storia di Ravenna

 

Ravenna è una città costruita dalle donne. Donne determinate che hanno visto in Ravenna un luogo da cullare. Donne innamorate che hanno intrecciato le loro vite con personaggi influenti della storia e della cultura, lungo gli assi geografici d’oriente e di occidente.

In un tour magico è bello pensare a Ravenna come la città della passione e dell’amore femminile e scoprirne la vita e i personaggi che hanno fatto la storia di Ravenna attraverso un percorso fatto di guerre, amori e leggende vissute dalle donne di un’epoca, attraverso le loro imprese e visitando i luoghi che le hanno rese indimenticabili…


Galla Placidia: nata a Costantinopoli nel 388/932 d.C., - a  Roma, muore il 27 novembre 450. Figlia dell’imperatore Teodosio I (che regnò dal 378 al 395) e della sua seconda moglie Galla.

Nipote di tre imperatori, figlia di uno, sorella di due, moglie di un re e di un imperatore, madre di un imperatore e zia di un altro, la nobilissima Galla Placidia fu dapprima ostaggio presso i Visigoti, poi loro regina; attraverso il suo matrimonio con re Ataulfo, e la nascita del loro figlio Teodosio rientrarono in una politica di avvicinamento tra barbari e Romani, ma la morte del bambino e quella del sovrano posero fine a questa possibilità.

Galla sposò l’imperatore Costanzo III, ottimo generale e collega di suo fratello, l’Augusto Onorio, ma la morte del consorte fu seguita da un rapido degrado dei rapporti con l’imperatore e Galla dovette rifugiarsi con i due figli a Costantinopoli, alla corte del nipote Teodosio II. A seguito della morte di Onorio, salì al trono un usurpatore; con l’aiuto dell’esercito orientale, Galla tornò in Occidente, depose l’usurpatore e pose sul trono il giovanissimo figlio Valentiniano III, per il quale fu reggente.

Nei dodici anni in cui regnò sull’impero romano d’Occidente, Galla dovette gestire il confronto fra tre potenti ed influenti generali, Costanzo Felice, Bonifacio ed Ezio. Dopo che quest’ultimo emerse vincitore, Galla ne ostacolò le mire di influenza su Valentiniano.

Gli ultimi anni furono caratterizzati dalla gestione della turbolenta figlia di Onoria e dal coinvolgimento nelle vicende religiose: fu una fervente cristiana, intransigente verso le ultime espressioni del paganesimo. La leggenda narra che quando Galla Placidia stava raggiungendo Ravenna per esercitare la reggenza dell’impero fu sorpresa da una tempesta: per intercessione di San Giovanni Evangelista riuscì ad approdare a Ravenna, nel punto in cui oggi sorge la Basilica di San Giovanni Evangelista. Inoltre a Ravenna fu promotrice della costruzione di molti edifici sacri. Oggi la sua reliquia è ospitata a Roma, ma a Ravenna sorge l’edificio funebre voluto dall’imperatrice stessa: il Mausoleo di Galla Placidia.


Amalasunta: nata a Ravenna il 495 d.C e figlia di Teodorico re degli Ostrogoti. Fu donna nobile, figlia, sposa, madre di re, e regina di Ravenna. Morto Teodorico, ella assunse la reggenza che segnò i migliori anni del regno del padre. Una donna molto determinata, bella, di grande intelligenza e dal carattere forte e virile. Fra le sue molte virtù, un solo difetto, che le fu fatale: un amore smodato per il potere. Amalasunta volle completare la fusione tra Romani e Goti: l’impresa era superiore alle sue forze, e la sua sconfitta fu anche la sconfitta di un ambizioso progetto politico. Governò Ravenna con grande saggezza e senso di giustizia, ma la leggenda narra che la grande amicizia con Giustiniano la portò a una morte ancora oggi misteriosa. Si dice che Teodora, che non era nata in un letto regale e si era conquistata il trono attraverso un uomo, temeva Amalasunta tanto da cospirare contro di lei: intuiva in lei una rivale pericolosa e diffidava della leggerezza di suo marito Giustiniano. Infatti, sembra che la morte della regina di Ravenna sia dovuta ad una trappola mortale di Teodora, sulle rive dell’isola di Martana.


Teodora: nata nel 500, donna dalle umili origini, libera, spregiudicata, ma imperatrice coraggiosa. Essa attraversò il Mediterraneo dalla Libia alla Siria e, nel 521 d.C, al suo ritorno a Costantinopoli divenne la donna del futuro imperatore romano, Giustiniano. Dimostrò astuzia e forte carattere tanto che si dice che Giustiniano si facesse consigliare da lei per le decisioni che riguardavano il regno, in quanto lui più debole e vigliacco. Giustiniano, per lei, stilò una legge che concedeva alle ex attrici di sposare un uomo di rango superiore. Si sposarono e nel 527 vennero incoronati imperatori. Teodora costruì ospedali, orfanotrofi ed emanò leggi volte a tutelare le prostitute. Essa fu una strenua paladina della dignità e dei diritti delle donne, donna coraggiosa e indipendente. La sua immagine continua ancora oggi a ispirare l’arte, il costume e l’estetica. Teodora si occupò di interventi di riedificazione nei territori conquistati, tra cui Ravenna. Teodora e Giustiniano non sono mai stati a Ravenna, ma è lì, nella basilica di San Vitale che hanno fermato il tempo: la loro fu una vera storia d’amore.


Francesca da Polenta da Rimini: figlia di Guido da Polenta il Vecchio, signore di Ravenna. Francesca andò in sposa a Giovanni Ciotto Malatesta, signore di Rimini, ma si innamorò perdutamente di Paolo suo cognato. La loro storia è pura poesia: tra i due nacque un amore segreto che, quando fu scoperto, venne punito con l’uccisione dei due amanti da parte del marito Giovanni. Un amore tragico e appassionato il loro… che venne raccontato da Dante nel II cerchio dell’inferno. Lei la prima donna viva e vera apparsa sull’orizzonte poetico dei nostri tempi.


Teresa Gamba Guiccioli: nata a Ravenna nel 1800 da una famiglia aristocratica, fu una contessa sorprendentemente attuale ed anticonformista, dai principi liberali.

Ha sempre amato la letteratura sin dai tempi della scuola (al convento di Santo Stefano e al Collegio di Faenza). Essa ebbe tanti amanti, ma oggi viene ricordata soprattutto per la sua indimenticabile storia d’amore con il poeta e politico inglese George Byron. A dare testimonianza di questo amore le molte lettere ritrovate che i due amanti si scambiarono nel corso della loro travagliata storia d’amore. Teresa venne biasimata dai suoi contemporanei per le sue scelte controcorrente rispetto ai clichè che volevano le donne del suo tempo spose e madri, soggette al dominio del marito. Al contrario oggi è considerata donna iconica e dalla forte personalità, guidata da ideali romantici e da uno stile di vita libero ed insubordinato all’uomo. A lei Ravenna rende omaggio ristrutturando la sua casa, dove visse con George Byron per 3 anni.


Anita Garibaldi: nata in Brasile nel 1821 il suo vero nome è Anna Maria de Jesus Rebeiro da Silva, ma per tutti Anita. Questa donna è ricordata nella storia per l’attrazione fatale che provò per Giuseppe Garibaldi con il quale condivise coraggio, passione e giustizia. Fu Garibaldi a darle il nome di Anita. Essa seguì la rivoluzione e insieme a lui approdò nella difesa della Repubblica Romana; preludio della sua morte. Fu moglie coraggiosa e fedele fino alla sua morte per cui i ravennati la ricordano con affetto: Anita venne trovata morta nella fattoria Guccioli (RA), a soli 28 anni, ma conobbe i sentimenti più veri e profondi. Di Anita oggi viene ricordato il suo coraggio e il suo sacrificio per la causa italiana e la terra in cui è morta e l’ha amata ancora profondamente.

M.P.F.

martedì 2 marzo 2021

Sophie Taueber-Arp

 


Sophie Taeuber-Arp

Living Abstraction

Ricca di 250 opere che dimostrano il suo eclettismo a livello di tecniche e mezzi espressivi, la retrospettiva che il Kunstmuseum dedica a Sophie Taeber-Arp (Davos, 1889 – Zurigo, 1943) si intitola Living abstraction : un’espressione che sottolinea lo stretto collegamento tra arte e vita proclamato dall’artista svizzera. Il suo era infatti un progetto utopistico (ma concreto) di trasformazione del mondo grazie all’estetica, di penetrazione dell’artista in tutti i settori della vita. La mostra, proposta al pubblico nella sede della Neubau, viene realizzata dal museo svizzero in collaborazione con il Moma di New York e la Tate di Londra.


<<Il desiderio di arricchire e rendere più belli gli oggetti non deve essere interpretato nel senso di aumentare il valore; si tratta invece di un istinto verso la perfezione e l’atto creativo>>. Così Sophie Traeuber-Arp riassumeva il suo impegno nelle “arti applicate” e più in generale la sua visione dell’arte come motore di cambiamento.


Nei suoi lavori, la geometria funziona come uno specchio delle possibilità, dei limiti e delle ambizioni di forme appaiono concluse e perfette, ma sembrano potersi trasformare ulteriormente, come un organismo. Con estrema grazia associata a una dirompente forza espressiva, affrontò tutti gli ambiti della creatività. La mostra di Basilea lo testimonia ampiamente, attraversando in ordine cronologico le sue diverse fasi e le discipline da lei praticate.

Si parte dal Dadaismo di fine anni Dieci, ambito nel quale conobbe il marito Jean Arp (l’opera dei due ha uno spirito affine ma forme di espressione non coincidenti), e si giunge al Costruttivismo degli anni Trenta, con l’adesione ai gruppi Cercle et carré e Abstraction-Crèation, per concludere con i lavori degli ultimi anni realizzati durante l’esilio in Francia.

Più eteree le sue composizioni astratte degli anni Dieci e Venti, più solide e definite quelle degli anni Trenta, le opere esposte evidenziano la costante capacità di creare un mondo autonomo in ogni opera. Rispetto ad altre ricerche simili dell’epoca, colpisce l’abilità di far convivere solidità e leggerezza, con una decisa sensazione di movimento.



Nel percorso espositivo, alle opere astratte si affiancano le creazioni “applicate”, non solo oggetti come la collana del 1918-20, ma anche elementi di scenografie come la sorprendente marionetta di un cervo (1918) per l’opera
König Hirsch  di Hans Werner Henze – la sua ricerca non si negava tratti relativi al gioco e all’infanzia. Altro ambito importante è poi quello dell’architettura, esemplificato dai bozzetti per il Wolmung di Strasburgo.


Pur se trascurata per molto tempo (colpa dell’annosa discriminazione verso le donne nel campo dell’arte), Sophie Taeuber-Arp si può considerare una capostipite di molte ricerche del Secondo dopoguerra, in particolare nel campo dell’astrazione geometrica. <<La sua grandezza>>, spiega Eva Reifert, una delle curatrici della mostra, <<risiede nella capacità di rompere i confini tra arti applicate e arte astratta. Nell’uso dei materiali inusuali all’epoca come il legno, per creare mobili ma anche rilievi astratti. Notissima al pubblico svizzero per essere stata raffigurata sulla banconota da 50 franchi, viene qui rappresentata non dalla sua effige ma dalla sua pera. Un’opera che non è giunta al suo compimento, ma che è rimasta interrotta a causa della sua precoce scomparsa>>.




M.P.F

Der Blaue Reiter

 


Der Blaue Reiter

Tutto ha inizio da un’accesa discussione. Il 2 dicembre 1911 Vasilij Kandinskij, Franz Marc e Gabriele Münter annunciano che avrebbero lasciato l’associazione di artisti Neu Künstlervreingung di Mnaco (che li aveva esclusi da un’esposizione) e a distanza di due settimane allestiscono una contro-mostra alla Galleria Thannhauser. Nasce così il Blaue Reiter, uno dei primi gruppi di artisti trasnazionali del Novecento, cui ora la città bavarese, fino al 5 maggio 2023, dedica un’ampia mostra, allestita alla Lenbachhaus.


L’intera opera che chiamiamo arte non conosce confini né nazioni, ma solo l’umanità”. Questo il mantra che stava alla base del loro almanacco Der Blaue Reiter (il Cavaliere azzurro). Lo stesso credo ispira via via i membri del gruppo – tra cui August Macke, Alfred Kubin, Maria Marc ed Elisabeth Epstein – tutti rappresentati alla Lenbachhaus di Monaco, che già vanta una corposa collezione permanente del gruppo. Per l’occasione sono state selezionate opere provenienti anche da altri musei e collezioni private, esposte in una prospettiva non solo estetica e storica, ma con l’intento di approfondire anche i rispettivi contesti spirituali, sociali e politici. Gli adepti infatti sostenevano una concezione globale ed egualitaria dell’arte non solo a parole, ma anche nei dipinti e nei fatti.


Almeno fino alla Prima guerra mondiale che li costrinse a sciogliersi.

La mostra inoltre offre la prima panoramica completa delle molteplici ispirazioni che gli artisti hanno tratto da xilografie giapponesi, arte popolare bavarese e russa, fino a sconfinare in quel mondo lontano, dalla Nuova Caledonia al Messico, allora ancora sottovalutato dalla cultura occidentale.


M.P.F.

lunedì 1 marzo 2021

Le signore dell'Arte. Storia di donne tra il "500 e il 600

 


Le signore dell’arte

Si è aperta fino al 6 giugno la mostra “Le signore dell’arte”, nella sede di Palazzo Reale, a Milano, nel contesto de “I talenti delle donne”, il progetto promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune che è dedicato alle donne protagoniste del pensiero creativo, delle figure esemplari del passato alle molte testimoni di oggi nel mondo dell’arte, della cultura, dell’imprenditoria, dello sport, della scienza.


La mostra “Le Signore dell’Arte”. Storie di donne tra “500 e 600”, capaci di distinguersi nonostante le difficoltà del tempo, presenta oltre 150 opere esposte, realizzate da autrici come Artemisia Gentileschi, Sifonisba Anguissola e Lavinia Fontana.


L’esposizione “in rosa” nasce per riscoprire in particolare l’arte e le incredibili vite di 34 diverse artiste capaci di una singolare abilità creativa, in grado di esprimere la vita di donne già “moderne” per quei tempi. In mostra sia artiste più note, ma anche altre meno conosciute al grande pubblico, che sono delle vere e proprie scoperte: come la nobile romana Claudia del Bufalo, che entra a far parte di questa storia dell’arte al femminile, mentre altre opere vengono esposte per la prima volta.


Le curatrici sono Anna Maria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié mentre le opere selezionate per la mostra provengono da ben 67 prestatori e musei di tutta Europa.


La mostra presenta non solo la capacità artistica di queste pittrici, ma, più di tutto, anche il ruolo sociale che hanno rivestito nel loro tempo, alcune affermate presso le grandi corte internazionali, altre vere e proprie imprenditrici, determinate a significare nell’arte i loro ideali di vita.


Tra tutte le artiste esposte in mostra a Palazzo Reale, la più nota al grande pubblico per celebrità è Artemisia Gentileschi. Figlia del pittore Orazio, artista e imprenditrice, è artefice di quadri che la sua arte rivaleggia con quella degli stessi pittori uomini dell’epoca e il suo successo la porta allo scarto della sua categoria sociale; un esempio di lotta contro l’autorità e il potere artistico paterno, contro il confinamento riservato alle donne.


Di Sofonisba Anguissola, cremonese che visse oltre 10 anni alla corte di Filippo II a Madrid, per poi spostarsi in Sicilia dove fu visitata da Antoon van Dyck nel 1624, sono esposti tra gli altri la “Partita a scacchi” (1555), e per la prima volta la “Pala della Madonna dell’Itria” (1578). E ancora Lavinia Fontana, bolognese e figlia del pittore manierista Prospero Fontana in mostra con 14 opere tra cui l’ “Autoritratto nello studio” (1579), la “Consacrazione alla Vergine” (1599) e alcuni dipinti di soggetto mitologico.


Di grande impatto anche la pittrice bolognese Elisabetta Sirani, in mostra con tele nelle quali vengono portati sulla scena il coraggio femminile e la ribellione di fronte alla violenza maschile; Ginevra Cantofoli, con l’opera della seconda metà del XVII secolo, “Giovane donna in vesti orientali” del 1596; infine Giovanna Garzoni che visse tra Venezia, Napoli, Parigi e Roma, in mostra con rare pergamene.

M.P.F.