lunedì 18 aprile 2016

SIGMAR POLKE

Sigmar Polke


Si è aperta fino al 6 novembre 2016 a Palazzo Grassi la prima esposizione retrospettiva dedicata in Italia a Sigmar Polke (1941 – 2010).
La mostra ideata da Elena Geuna e Guy Tosatto, direttore del musée de Grenoble, in stretta collaborazione con The Estate of Sigmar Polke, ripercorre tutta la carriera dell’artista, dagli anni sessanta del Novecento agli anni 2000, illustrando le diverse sfaccettature della sua pratica artistica attraverso quasi novanta opere provenienti dalla collezione Pinault e da numerose collezioni europee pubbliche e private.
La manifestazione si inscrive nella programmazione di Palazzo Grassi, che ospita alternativamente esposizioni tematiche basate sulla collezione Pinoult e monografie di grandi artisti contemporanei, e celebra nel 2016 una doppia ricorrenza: il decennale della riapertura di Palazzo Grassi a opera di François Pinault e il trentesimo anniversario della partecipazione di Sigmar Polke alla Biennale di Venezia nel 1986, per la quale ricevette il Leone d’Oro.
Sigmar Polke, figura artistica fondamentale degli ultimi quarant’anni, ha profondamente rinnovato il linguaggio pittorico della fine del XX secolo.
Ciò che l’opera dell’artista riconosceva, fuori da ogni percezione e agire della Pop Art, – e a cui di conseguenza rispondeva – era il fatto che gli spazi e le pareti del “cubo bianco” (in senso percettivo) erano di fatto che gli spazi e le pareti istituzionali e di interessi economici che erano stati rimossi dalla neutralità di uno spazio fenomenologico in cui il soggetto costituirebbe la propria libertà nei suoi atti di pura percezione. All’inizio della sua ricerca può essere parso difficile riconoscere che la radicalità enfatica dell’opera fosse rafforzata da un quasi etereo rifiuto di quelli che potevano tradizionalmente essere visti come i compiti dell’estetica. Così si poteva sostenere che Polke operava all’interno di una forma altamente contraddittoria, per non dire aporetica, di modernismo malinconico, che cercava di redimere l’utopismo radicale dell’astrattismo avanguardista, piangendo sul luogo della sua devastazione irreversibile. Ma nella stessa misura in cui la sua opera cede la propria

  organizzazione strutturale e formale nel suo complesso ai principi dominanti dell’amministrazione sociale, nell’apparenza stessa di un’affermazione della totalità di questi principi come uniche forme valide che realmente strutturano l’esperienza, l’estetica, nella sua radicale negazione, raggiunge un’imprevista trascendenza.
L’esposizione inizia presentando per la prima volta nel patio centrale di Palazzo Grassi Axial Age (2005 – 2007), ciclo monumentale di sette dipinti (fra cui un trittico) esposto nel Padiglione centrale della Biennale nel 2007. Questo capolavoro affascinante, vero  proprio testamento artistico di Polke, evoca l’intreccio originale tra visibile e invisibile e le differenze tra pensiero e percezione, facendo sempre riferimento alla teoria dell’amato filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1967) sull’età assiale.
La mostra si sviluppa poi sui due livelli del palazzo secondo un percorso cronologico a ritroso, dalla fine degli anni 2000 all’inizio degli anni sessanta, disseminato di cicli eccezionali come Strahlen Sehen (2007), serie di cinque dipinti sulla visione e i suoi ostacoli, Hermes Trismegistos (1995), magistrale evocazione in quattro parti del fondatore dell’alchimia, Magische Quadrate (1992), sette variazioni madreperlate sui quadrati magici e sui pianeti (1988-1992), composto da sei pannelli dipinti sul recto e sul verso in cui il quadro si fa vetrata o Negativwerte (1982), tre dipinti viola intenso tossico. Queste opere permettono di cogliere per intero l’ambizione della pratica di Sigmar Polke sulla tematica dell’alchimia delle forme e dei colori a partire dall’inizio degli anni ottanta.

Il suo gusto per la sperimentazione della materia pittorica si manifesta anche nei piccoli formati con la serie dei Farbprobe, summa di tutte le possibilità in termine di mescolanza di materiali eterogenei, così come emerge il suo piacere nel giocare con le immagini secondo modalità diverse: manipolandole come nelle trasparenze di Picabia (Alice in Wunderland, 1972) o frammentandole grazie all’ingrandimento della trama fotografica (Man fütter die Hühner, 2005). Un piacere del gioco che, nell’artista, è sempre sinonimo di umorismo e leggerezza.

Insieme a queste opere aperte su ciò che si trova oltre le apparenze, dove figurazione e astrazione si confondono, l’artista, fedele all’approccio critico nei confronti della società contemporanea adottato fin dagli esordi, continua a realizzare dipinti dalla forte connotazione storico-politica. Il percorso espositivo ne riunisce alcuni fra i più rappresentativi, come Polizeichwein (1986), e Amerikanich-Mexikanische Grenze (1984), incentrati rispettivamente sulle forze dell’ordine e sui campi di concentramento e Schiesskebab (1994) sulle guerre fratricide della ex Jugoslavia…

Alcune opere aventi per soggetto la Rivoluzione Francese,
 come Jeux d’enfants (1988) o Message de Marie-Antoinette
  à la Conciergerie (1989), evocano il rapporto di Sigmar Polke con la Storia.
Gli anni settanta sono rappresentati da un’importante selezione di lavori che illustrano sia la frenesia iconoclasta di Polke in questo periodo – come Cameleonardo da Willich (1979) con la sua sovrapposizione di caricatura e fumetto – sia la sua volontà di sperimentare tecniche pittoriche a 360 gradi: ne sono esempio Untitled  (1970-1971) e la sua fioritura cromatica o indianer mit Adler (1975), con i dipinti metallizzati realizzati con la vernice spray e l’utilizzo delle sostanze psicotrope più diverse cui rimandano i funghi di Alice im Wunderland, 1972.
Al termine del percorso espositivo, infine, gli anni sessanta fanno luce sulla genesi di quest’arte fuori dal comune. In Telepathische Sitzung II (William Blake – Sigmar Polke, 1968) emerge l’interesse per fenomeni paranormali già manifestato dall’artista, mentre la celebre Kartoffelhaus (1967/1990),
un capanno da giardino costellato di patate, attesta in particolare il suo gusto per l’assurdo e i suoi legami con Fluxus. La sua attenzione si focalizza sulla pittura con la messa a nudo dei meccanismi dell’immagine fotografica nei dipinti basati sulla trama di quest’ultima,
Interieur (1966) o Vase II (1965), gli ammiccamenti all’estetica del Kitsch, con Reiherbild (1968), o alle manie della modernità con Bohnen (1964) o Lampionblumen, 1966.


A completare la grande esperienza di uno dei più grandi collezionisti di arte contemporanea, François Pinault (1936), si è aperta a Punta della Dogana  


fino al 20 novembre 2016  “Accrochage”, una mostra collettiva a cura di Caroline Bourgeois.
Il titolo rispecchia la scelta di presentare una selezione di lavori appartenenti, appunto, alla Pinault Collection, includendo artisti contemporanei riconosciuti e talenti emergenti, senza imporre un punto di vista. Il visitatore è invitato a interpretare ogni opera con la propria sensibilità, scoprendo, lungo le sale espositive, i rimandi tra le opere.


Maria Paola Forlani







sabato 16 aprile 2016

BIENNALE DONNA 2016

Silencio

Vivo
Artiste dall’America Latina
Una delle forme dell’ingiustizia verso le donne è il servirsi dell’attivazione di esclusione dalla vita artistica e politica senza riguardi, e cioè riportare le donne alla loro identità di genere in un contesto artistico, filosofico, politico, dove è decisamente e direttamente in gioco, la comune appartenenza alla specie umana.
L’esclusione delle donne nei luoghi e momenti in cui sono in questione “le ultime cose” (domande sui destini del mondo e i rischi vitali, su principi metafisici, fedi religiose, ricerca artistica). C’è, però, un ultimo aspetto da considerare, lo sperimentalismo metafisico fa dell’arte (al di là delle sue vicende istituzionali) il luogo ideale per precisare ulteriormente i contenuti di quella struttura regolativa o idealtipica che è il predicato “essere una donna”. Se è vero che si diventa donne in situazioni in cui sono in gioco (in positivo o in negativo) la differenza sessuale e/o quella culturale, resta ancora da vedere quale sia lo specifico contenuto di questa attivazione. Che cosa sono le donne quando cercano di fare arte, filosofia, politica, letteratura, musica, sapendo di doversi misurare con le specifiche difficoltà (pregiudiziali o effettive) che riguardano ogni donna, appunto, nell’arte, in filosofia, in politica…?
Credo che la risposta sia fondamentalmente una sola: una donna è quel che sarebbe in un mondo in cui le donne non sarebbero discriminate, assoggettate, offese.
Il “femminile” si realizza nel momento in cui cerchiamo di immaginare un mondo in cui le donne, in ogni campo e luogo, avrebbero il normale diritto di essere ascoltate. Solo in relazione a questo mondo possibile esistono politicamente soggetti femminili; solo questo mondo, che l’arte può già costruire immaginativamente, e che ha già in parte iniziato a costruire, è il termine di confronto ideale.

Fino al 12 giugno 2016, è tornato al Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara la
Biennale Donna, con la presentazione della collettiva Silencio Vivo. Artiste dell’America Latina, curata da Lola Bonora e Silvia Cirelli.
Organizzata dall’UDI – Unione Donne in Italia di Ferrara e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, la rassegna si conferma come uno degli appuntamenti più attesi del calendario artistico e dopo la forzata interruzione del 2014, a causa del terremoto che ha colpito Ferrara e i suoi spazi espositivi, può ora riprendere il percorso di ricerca ed esplorazione della creatività femminile internazionale.
Da sempre attenta al rapporto fra arte e la società contemporanea, la Biennale Donna vuole concentrarsi sulle questioni socioculturali, identitarie e geopolitiche che influenzano i contributi estetici dell’odierno panorama delle donne artiste. In tale direzione, la rassegna di quest’anno ha scelto di spostare il proprio baricentro sulla multiforme creatività latinoamericana, portando a Ferrara alcune delle voci che meglio rappresentano questo eccezionale pluralità espressiva: Anna Maria Molino
(italia-Brasile, 1942), Teresa Margolles (Messico, 1963), Anna Mendieta (Cuba 1948 – Stati Uniti 1985) e Amalia Pica (Argentina, 1978).

Silencio Vivo riscopre le contaminazioni nell’arte di temi di grande attualità, interrogandosi sulla realtà latinoamericana e individuandone le tematiche ricorrenti, come l’esperienza dell’emigrazione, le dinamiche conseguenti alle dittature militari, la censura, la criminalità, gli equilibri sociali fra individuo e collettività, il valore dell’identità o la fragilità delle relazioni umane.


L’esposizione si apre con l’eclettico contributo di Ana Mendieta, una delle più incisive figure di questo vasto panorama artistico. Nonostante il suo breve percorso (muore prematuramente a 36 anni, cadendo dal 34simo piano del suo appartamento di New York), Ana Medieta si conferma ancora oggi, a 30 anni dalla sua scomparsa, come un’indiscussa fonte di ispirazione della scena internazionale. La Biennale Donna le rende omaggio con un nucleo di opere che ne esaltano l’inconfondibile impronta sperimentale, dalle note Siluetas alla documentazione fotografica delle potenti azioni performative risalenti agli anni’70 e primi ’80. Al centro, l’intreccio di temi a lei sempre cari, quali la costante ricerca del contatto e il dialogo con la natura, il rimando a pratiche rituali cubane, l’utilizzo del sangue – al contempo denuncia della violenza, ma anche allegoria del perenne binomio vita/morte – o l’utilizzo del corpo come contenitore dell’energia universale.

Il corpo come veicolo espressivo è una caratteristica riconducibile anche ai primi lavori della poliedrica Anna Maria Maiolino, di origine italiana ma trasferitasi in Brasile nel 1960, agli albori della dittatura. L’esperienza del regime dittatoriale in Brasile e la conseguente situazione di tensione l’hanno influenzata profondamente, spingendola a riflettere su concetti quali la percezione di pericolo, il senso di alienazione, l’identità di emigrante e l’immaginario quotidiano femminile.


In mostra è presente una selezione di lavori che ne confermano la grande versatilità, dalle sue celebri opere degli anni ’70 e ’80 – documentazioni fotografiche che lei definisce “photopoemaction”, di chiara matrice performativa – alle recenti sculture e installazioni in ceramica, dove emerge la stretta connessione con il quotidiano, in aggiunta, però, all’esplorazione dei processi di creazione e distruzione ai quali l’individuo è inevitabilmente legato.

Di simile potenza suggestiva, ma con una particolare attitudine al crudo realismo, la poetica di Teresa Margolles testimonia le complessità della società messicana, ormai sgretolata dalle allarmanti proporzioni di un crimine organizzato che sta lacerando l’intero paese e soprattutto Ciudad Juàrez, considerata uno dei luoghi più pericolosi al



mondo. Con una grammatica stilistica minimalista, ma d’impatto quasi prepotente sul piano concettuale, i lavori della Margolles affrontano i tabù della morte e della violenza, indagati anche in relazione alle disuguaglianze sociali ed economiche presenti attualmente in Messico. Le installazioni che l’artista propone alla rassegna ferrarese – fra cui Pesquisas, realizzata appositamente per la Biennale Donna – svelano un evidente potere immersivo, che forza lo spettatore ad assorbire e partecipare al dolore di una situazione ormai fuori controllo, troppo spesso taciuta e negata dalle autorità locali.


Il percorso della mostra si chiude poi con la ricerca di Amalia Pica, grande protagonista dell’emergente scena argentina. Utilizzando un ampio spettro di media – il disegno, la scultura, la performance, la fotografia e il video – l’artista si sofferma sui limiti e le varie declinazioni del linguaggio, esaltando il valore della comunicazione, come fondamentale esperienza collettiva. Le sue opere si fanno metafora visiva di una società segnata dall’ipertrofia della comunicazione, un fenomeno diffuso che sempre più di frequente conduce all’equivoco e all’alienazione, invece che alla condivisione.


Maria Paola Forlani

venerdì 8 aprile 2016

La " Rivoluzione del Museo" Tra Eclissi e Rinascita della Cultura?

RESTAURO

2016
La “Rivoluzione del Museo” Tra Eclissi e Rinascita della Cultura?

La religione dell’arte ha i suoi proseliti e i suoi luoghi di culto: i musei. Destinati a ospitare la bellezza, essi stessi divengono spesso belli ancor più delle opere che ospitano, non solo per l’insieme delle collezioni, ma per il connubio delle stesse con l’architettura, la luce, lo spazio, la decorazione e l’atmosfera dell’ambiente.
Questa capacità dominante dell’architettura o comunque del luogo è stata particolarmente percepita nell’epoca contemporanea, dando luogo alla costruzione di edifici nei quali il progetto architettonico prevale sulle opere che contiene.
L’esempio culminante tra molti è il Museo Guggenhem di Bilbao di Frank Gehry.

Ma tra i musei del passato (la cui qualità architettonica peraltro è sempre rilevante)
Ve ne sono alcuni, non pochi, il cui fascino non proviene solo dall’architettura o solo dalle opere, bensì dal felice rapporto del contenitore e del contenuto. L’importanza delle modalità espositive è sempre stata sentita e lo è sempre di più.

Sta anzi divenendo una disciplina a sé stante e nel visitare una esposizione non si giudica più soltanto le opere esposte, ma anche, talvolta soprattutto, il modo in cui sono esposte. Autore (o autori), regia (o sceneggiatura) e scenografia assumono quindi pesi quasi equivalenti, in una esposizione o un museo come in uno spettacolo teatrale.
Luoghi di contemplazione, i musei risentono dell’aura mistica di luoghi in qualche modo sacri: cattedrali dell’arte, monasteri di bellezza.
E nei casi frequenti in cui essi furono dapprima abitazioni di collezionisti o di artisti riescono a documentarci anche una condizione di vita perduta, assumendo uno straordinario significato storico ed
evocativo che sarebbe pressochè impossibile ricostruire. Il museo spesso, è stato detto, è l’orfanotrofio delle opere d’arte, nate per altre destinazioni, ed esse sopravvissute e quindi <<ricoverate>> per la loro protezione e visibilità. Malgrado questo traumatico cambiamento di vita, talora esse riescono a ristabilire nel nuovo ambiente collettivo e onnivalente un armonioso quanto miracoloso rapporto e a ricostruire l’aura del luogo d’origine palazzo, chiesa, casa, atelier e così via. Non a caso, spesso erano e sono edifici storici a venire adibiti a musei.

Il convegno, nell’ambito del progetto internazionale “La città dei musei” (a cura di Letizia Caselli). Pone il problema come il museo dinamico possa essere proteso alla ricerca.

La città della ricerca presentato nel 2015, si propone di affrontare in modo costruttivo e propositivo l’argomento della ricerca nei musei con alcuni puntuali riflessioni. Il recente decreto dei musei ha riorganizzato il sistema museale italiano dal punto di vista amministrativo e giuridico con la costituzione di venti musei autonomi e di una rete di diciassette Poli regionali che dovrà favorire il dialogo continuo fra le diverse realtà museali pubbliche e private del territorio, ma ha affondato le radici in problemi complessi e di lunga data.

Una riforma che ha suscitato non poche reazioni di perplessità, quando non di aperta contrarietà sia da parte di esperti della cultura italiana sia di alcune componenti degli stessi apparati ministeriali.
Le “antiche” e diverse questioni riguardano innanzitutto il ruolo, la funzione e lo status effettivo dell’istituto museale, la sua autonomia scientifica e formativa, in un momento di debolezza e cambiamento del concetto tradizionale di cultura e delle categorie culturali. Nonché in un contesto di risorse drasticamente ridotte, personale scientifico insufficiente, terziarizzazione spinta non solo dei servizi ma anche della produzione culturale.

Ѐ necessaria una nuova visione. Visione in cui istituzioni, università e musei dovranno innanzi tutto formarsi e formare per poter affrontare una realtà in cui sono richieste figure diversamente formate da quelle di oggi, in cui vanno declinati e focalizzati modi specifici di ricerca poi condivisi tra Paesi diversi, in allineamento con le tendenze che si stanno affermando nelle principali città europee anche in funzione di finanziamenti e progetti concreti.

Ma il convegno di “La città dei musei. Le città della ricerca” ha risentito, nel dibattito e nelle relazioni, di tutte le ambiguità della nuova riforma e della pesante alleanza con il privato per il recupero di nuove risorse, auspicate dal ministro come ‘unica salvezza’ del patrimonio artistico. In realtà le sedicenti verità sui privati, spesso privi di finalità umane e di vera crescita, si scontrano con il metro della Costituzione. Visto l’articolo 9, e i suoi nessi con gli altri principi sui quali è stata fondata la Repubblica, ha spaccato in due la storia dell’arte, rivoluzionando il senso del patrimonio culturale.
La Repubblica tutela il patrimonio per promuovere lo sviluppo della cultura attraverso la ricerca (art.9): e questo serve al pieno sviluppo della persona umana, e alla realizzazione di una uguaglianza sostanziale (art.3).

Oltre al significato universale del patrimonio, questo sistema di valori ne ha creato uno tipicamente nostro: il patrimonio appartiene a ogni cittadino – di oggi e di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed esercitabile.  Il patrimonio ci fa nazione non per via di sangue, ma per via di cultura e, per così dire, iure soli: cioè attraverso l’appartenenza reciproca tra cittadini e territorio antropizzato. Perché questo altissimo progetto si attui è necessario, però, che il patrimonio culturale rimanga un luogo terzo, cioè un luogo sottratto alle leggi del mercato.  Il patrimonio culturale non può essere messo al servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi.
La conoscenza è l’unica medicina capace di curare, fermare, forse vincere questa epidemia di disumanizzazione. Nella nuova riforma Franceschini, il dominio dei privati è destabilizzante, i nuovi direttori come reali ‘dittatori’ senza nessun approccio reale con le sovrintendenze (ormai sparite), creano fantasmi nei collaboratori silenziosi, il più  giovani privi di possibilità di entrare come veri protagonisti di una vera collaborazione o  “ricerca” retribuita, ma restano sudditi senza possibilità di uno spiraglio di un lavoro in prospettiva.

I privati hanno creato, spesso, vere dispersioni di capitali e oltraggi architettonici ormai incurabili. Mi riferisco alle violenze strutturali della dimora del conte Vittorio Cini, in via Santo Stefano a Ferrara, che ha perduto i suoi contorni medioevali per la bramosia di ‘ipotetici’ acquirenti della diocesi che hanno trasformato un luogo di cultura e d’arte in un ambiguo ‘condominio’, mentre le biblioteche  e la collezione d’arte sono scomparse…. 


Maria Paola Forlani


 


sabato 2 aprile 2016

Peggy Guggenheim

Una “segreta” Peggy Guggenheim in mostra a Firenze

Fino al 24 luglio a Palazzo Strozzi (Fi) è in scena la mostra “La Grande Arte dei Guggenheim Da Kandinsky a Pollock”.



Peggy Guggenheim nasce a New York il 26 agosto del 1898, da Benjamin Guggenheim e Florette Seligman. Benjamin Guggenheim (che nell’aprile del 1912 muore nell’affondamento del Titanic), contribuisce a creare, alla fine del XIX secolo, insieme al padre Meyer (di origine svizzera) e ai sette fratelli, un impero finanziario fondato sullo sfruttamento minerario, in particolare del rame. I Seligman sono invece un’importante famiglia di banchieri.


Peggy cresce a New York e nel 1921 comincia a viaggiare in Europa. Grazie a
Laurence Vail (suo primo marito e padre dei due figli Sindbad e Pegeen, futura pittrice), Peggy si ritrova ben presto nel cuore della vita bohémienne parigina, insieme a parte della società americana espatriata e molti degli artisti conosciuti allora, quali Costatin Brancusi, Djuna Barnes e Marchel Duchamp, che sarebbero poi divenuti suoi amici. Nel 1938, consigliata dall’amica Peggy Waldman, Peggy apre una galleria d’arte a Londra che inaugura con una mostra di opere di Jean Cocteau, cui segue la prima personale di Vasily Kandinsky in Inghilterra.
Nel 1939, stanca della galleria, Peggy decide di “aprire un museo d’arte contemporanea a Londra” con l’amico Herbert Read come direttore. Il museo dovrebbe seguire un percorso storico e la collezione dovrebbe basarsi su una lista di artisti stilata da Read e successivamente rivista da Duchamp e Nellie van Doesburg. Tra il 1939 e il 1940, Peggy è impegnata ad acquistare opere per il futuro museo, con il proposito di “comprare un quadro al giorno”. Ѐ allora che vengono acquistati alcuni dei capolavori della collezione, quali le opere di Francis Picabia, Georges Braque, Salvator Dalì e Piet Mondrian. Peggy sorprende Fernan Léger comprando il suo

Uomini in città nel giorno in cui Hitler invade la Norvegia, e acquista Uccello nello spazio di Brancusi quando i tedeschi arrivano a Parigi. Nel luglio del 1941 Peggy abbandona la Francia occupata dai nazisti e torna negli Stati Uniti insieme a Marx Ernest che, pochi mesi più tardi, diventa il suo secondo marito (i due si separano nel 1943). Mentre continua ad acquistare opere per la sua collezione, Peggy cerca un nuovo spazio per il museo.
Nell’ottobre del 1942 apre il museo-galleria Art of This Century sulla 57 ͣ  strada, a New York. Progettata dall’architetto austriaco Frederick Kiesler, la galleria è costituita da sale espositive estremamente originali e ben presto diviene il centro d’arte contemporanea più interessante di New York. Ricordando la serata d’apertura Peggy scrive: <<indossai un orecchino di Tanguy e uno di Calder,
per dimostrare la mia imparzialità tra Surrealismo e Astrattismo>>.
La galleria presenta la sua collezione d’arte cubista, astratta e surrealista, quella che oggi vediamo sostanzialmente esposta a Venezia. Organizza anche mostre temporanee dei più importanti artisti americani, allora sconosciuti, quali Robert Motherwell, William Baziotes, Mark Rothko, David Hare, Richard Pousette-Dart, Roberto De Niro Sr.,


Clyfford Still, e Jackson Pollock a cui è dedicata la prima personale nel 1943.
Pollock e gli altri artisti sono gli iniziatori dell’Espressionismo astratto americano ed è proprio ad Art of This Century che entrano in contatto con il Surrealismo, loro principale fonte d’ispirazione. Fondamentali rimangono comunque la spinta e il supporto dati a Peggy e da Howard Putzel, suo consulente nella galleria, ai membri
di questa nascente avanguardia newyorkese, che rappresenterà il primo movimento
Artistico americano di portata internazionale. Nel 1947 Peggy ritorna in Europa.
Nel 1948 la sua collezione viene esposta alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra.

Proprio a Venezia acquista Palazzo Venier dei Leoni, sul canal Grande, dove si trasferisce e apre la sua collezione al pubblico, cominciando nel 1949 con la mostra di sculture esposte nel giardino. Nel 1950 organizza la prima personale di Pollock
in Europa, nell’Ala Napoleonica di Museo Correr, a Venezia.
Nel 1969 il Museo Solomon R. Guggenheim di New York la invita ad esporre lì la propria collezione, nella sede della celebre struttura a spirale progettata da Frank Lloyd Wright sulla Fifth Avenue. Peggy muore il 23 dicembre del 1979, all’età di ottant’un anni. Le sue ceneri sono sepolte in un angolo del giardino di Palazzo Venier dei Leoni, accanto al luogo in cui era solita seppellire i suoi adorati cani. Alla morte di Peggy, la Fondazione Solomon R. Guggenheim ha ampliato la sua casa, trasformandola in uno dei più affascinanti musei d’arte moderna del mondo.


<<Come tutte le scelte umane importanti>>, nota la critica, <<le ragioni del suo trasferimento a Venezia probabilmente sono troppo complesse e contraddittorie per essere chiarite cercando prove documentabili>>.

Eppure nelle sue memorie, Peggy Guggenheim con grande semplicità racconta: <<Così come amavo Art of This Century  [ la sua galleria di New York] amavo l’Europa ben più dell’America e quando la guerra finì sentii che dovevo tornare per forza, inoltre ero esausta per tutto il lavoro alla galleria, della quale ero diventata una specie di schiava […] andai a Parigi e poi a Venezia dove Mary McCarthy e suo marito, Bowden Broadwater, insistettero perché li accompagnassi. In viaggio decisi che Venezia sarebbe stata la mia patria futura: l’avevo sempre amata più di ogni altro posto su questa terra e sentii che lì da sola sarei stata felice>>.




Maria Paola Forlani