IL CAINO e ABELE
Studio di un’opera giovanile
di Giovan Francesco Barbieri detto il
Guercino
Al Castello Estense di
Ferrara è presente, nella sua magnificenza, nel percorso tra le opere di
Boldini e de Pisis, fino al 13 dicembre 2015, in anteprima assoluta,
il dipinto inedito Caino e Abele, recentemente
attribuito secondo studi condotti da storici dell’arte, tra cui Andrea Emiliani
e Claudio Strinati, al periodo giovanile di Giovan Francesco Barberini, detto Il Guercino.
Giovan Francesco Barbieri,
detto Il Guercino, nasce nel 1591 a Cento da una famiglia modesta ma in un
territorio posto al centro del triangolo fertile compreso tra Ferrara, Modena e
Bologna.
Allievo di Ludovico Carracci,
ma sensibile anche alla pittura ferrarese e, soprattutto, a quella veneta,
rivela, fin dalle opere giovanili, un’attenzione peculiare agli impasti
cromatici, anzi alla <<macchia>>, e agli effetti luministici, come
è visibile, per esempio in opere come Paesaggio
al chiaro di luna (Stoccolma, Museo Nazionale) o nel Figliol prodigo di Vienna.
Per l’importanza della luce
si sono talvolta tentanti degli accostamenti a Caravaggio; ma le somiglianze
sono solo apparenti, perché il luminismo caravaggesco blocca l’immagine dandole
evidenza drammatica, quello guercinesco invece è mobile e magico.
Nel 1621, salito al
pontificato, con nome di Gregorio XV, Alessandro Ludovisi, bolognese, il
Guercino, che già operava da alcuni anni a Bologna, viene chiamato dal nuovo
papa a Roma per affrescare il
Casino Ludovisi con L’Aurora, Il Giorno e La Notte. È uno dei
complessi pittorici più importanti del Guercino, forse il suo capolavoro in
senso assoluto.
Il tema dell’Aurora era già
stato dipinto, appena pochi anni prima (1612-1614) da Guido Reni nel Casino Respigliosi Pallavicini,
con luminoso, sereno,
ellenizzante equilibrio. Il Guercino lo affronta invece con foga. Il carro di Eos
passa velocemente al di sopra di architetture viste audacemente in
<<sottinsù>>, scattanti verso l’alto, preparazione coerente allo
scorcio e al movimento di tutte le figure, realizzate con accostamenti di
colori purissimi che toccano il loro punto culminante nella splendida pezzatura
del manto dei cavalli spinti al galoppo. In tutto questo c’è un ricordo
veronesiano a dimostrazione dell’importanza che ha avuto la conoscenza della
pittura veneziana sul pittore. Ma c’è anche un impeto barocco, un calore, che
sono esclusivi del Guercino e che ne costituiscono la dote maggiore. Tuttavia
l’ambiente romano, invece che stimolarne la fantasia, gradualmente lo frena con
la precettistica classicheggiante, dell’Agucchi e del Domenichino, finendo col
togliergli proprio quello slancio e riconducendolo, entro l’alveo della
tradizione, verso forme compassate,
L’attività giovanile del
Guercino resta dunque la più valida, tale, anzi da farlo considerare fra i
maggiori artisti del secolo; il pittore non riuscirà più a trovare un’analoga
felicità inventiva, neppure lasciando Roma poco dopo (1623) per tornare
dapprima nella piccola città natale, poi, alla morte del Reni (1642), a
Bologna, assumendo a sua volta il ruolo di indiscusso maestro della scuola
locale.
Caino e Abele, che
raffigura l’uccisione del secondogenito di Adamo ed Eva per mano del suo stesso
fratello.
La forza drammatica del corpo
seminudo di Abele, riverso diagonalmente a terra, presentato in primo piano
attraverso un’ardita soluzione prospettica e con un punto di vista molto
ribassato, contrasta con la figura di Caino, che si dà alla fuga nell’oscurità
del fondale.
L’opera, risalente al secondo
decennio del 1600, mostra evidenti caratteri stilistici della giovinezza del
Guercino, con influenze riconoscibili ai grandi veneti – Giorgione, Tiziano,
Tintoretto – ma anche alla svolta naturalistica avviata dai Carracci – Ludovico
in primis – fin
dagli anni Ottanta del secolo precedente. In particolare è facile osservare la
celebre “macchia” guercinesca – che spezza le forme per studiarne gli effetti
di luce in rapporto con i mutamenti atmosferici, e l’inconfondibile maniera di
rendere l’anatomia degli arti superiori e inferiori sovradimensionati e
rigonfi, le cui masse muscolari risultano scolpite da netti contrasti
luministici che accentuano l’effetto drammatico della scena.
Il rapporto più diretto e
convincente di Guercino con l’arte dei Carracci e da stabilirsi con un’opera
giovanile di Annibale
Cristo morto di
Stoccarda. Da sempre considerato un omaggio
all’omonimo capolavoro di
Andrea Mantenga oggi alla Pinacoteca di Brera, la tela raffigura il corpo senza
vita del Cristo appena deposto dalla croce, fortemente compresso e scorciato
così da mostrare in primo piano all’osservatore la pianta dei piedi forati dai
chiodi, dai quali si risale rapidamente alle gambe distese ed al torso
leggermente curvato verso destra. Superando le durezze formali dell’opera
quattrocentesca, Annibale enfatizza, secondo la sua vocazione poetica, il
naturalismo umanissimo di questo corpo ferito, trasfigurandolo in
un’immagine dal profondo
significato sacrificale.
del Guercino, quando si
colloca un dipinto, dello stesso autore, meno conosciuto dal grande pubblico e
tutt’oggi raramente citato dagli esperti, nonostante le sue innegabili qualità
pittoriche. Si tratta del Martirio di San
Sebastiano custodito nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, il quale
mostra il tipico naturalismo vibrante e contrastato degli anni giovanili
trascorsi nel segno poetico di Ludovico Carracci, accanto ad un nuovo interesse
per lo studio dei corpi maschili in pose dal forte scorcio prospettico.
La straordinaria qualità di Caino e Abele, confermata dalle
radiografie recentemente eseguite in occasione della sua riscoperta, fu
apprezzata anche fuori dai confini italiani, quando l’opera entrò a far parte,
nel corso dell’Ottocento, della collezione di Sir, Thomas Willias Holburne e
successivamente dell’Holburne Museum di Bath. Curiosamente all’epoca l’opera fu
erroneamente attribuita al caposcuola bolognese Guido Reni, probabilmente
proprio per gli evidenti caratteri emiliani, oltre naturalmente che per le
grandi qualità pittoriche di questo capolavoro.
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