Costruire il Novecento
Capolavori della
Collezione Giovanardi
Il collezionista riunisce ciò che è
affine;
in tal modo può riuscirgli di dare
ammaestramenti sulle cose
in virtù della loro affinità, o della
loro successione
nel tempo.
Benjamin
1986.
La raccolta
di opere di Augusto e Francesca Giovanardi ha preso forma nella Milano
dell’immediato secondo dopoguerra, grazie alla passione verso la pittura del
Novecento italiano e all’impegno sociale dell’illustre scienziato e docente di
Igiene presso l’Università di Milano.
La
collezione è una testimonianza eccellente di quello straordinario momento
storico e culturale durante il quale imprenditori e importanti personalità
della società italiana, in particolare milanese e torinese, dedicarono il loro
impegno all’arte e alla cultura, non solo per passione personale, ma con fini
sociali ed etici. Basti ricordare i nomi di Raffaele Mattioli, Riccardo Juker,
Jesi, Boschi, Vitali, il cui sentimento di responsabilità nei confronti della
comunità si è espresso attraverso importanti lasciti e comodati a musei
pubblici della parte più rappresentativa delle loro raccolte.
La mostra Costruire il Novecento. Capolavori della Collezione Giovanardi, si
è aperta a Bologna a Palazzo Fava – Palazzo delle Esposizioni fino al 25 giugno
2017 ed espone la Collezione nella sua interezza, novanta dipinti realizzati
dai migliori pittori italiani, attivi tra le due guerre mondiali. Promossa da
Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Genus Bononiae. Musei della Città,
la mostra è curata da Silvia Evangelisti (catalogo Bononia University Press).
L’esposizione
si articola in tre sezioni, ciascuna dedicata ad un tema che approfondisce le
opere di due o più artisti nel cui linguaggio artistico si possono trovare
assonanze (o dissonanze) comuni: Licini e
Morandi. Un rapporto controverso; La pittura costruttiva del Novecento
italiano: Campigli, Carrà, Sironi e Oltre la forma: il sogno e la terra.
Giorgio
Morandi e Osvaldo Licini, sono due tra i più importanti maestri del ‘900, genio
già venerato in vita il primo, meno famoso ma pittore amatissimo il secondo.
Furono amici nella giovinezza e “nemici” nella maturità, avendo instaurato un
rapporto di contiguità sfociato poi in scelte stilistiche agli antipodi.
Si conoscono
all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove studiano accanto a Mario e Severo
Pozzati, Giovanni Romagnoli, Mario Tozzi e Antonio Sant’Elia.
Condividono
in quegli anni idee e pittura, Morandi e Licini furono protagonisti della
famosa esposizione “futurista” di un sol giorno, tenutasi all’Hotel Baglioni
tra il 21 e il 22 marzo 1914.
La mostra
prende avvio da questo rapporto giovanile, da queste opere, per poi dispiegarsi
confrontando le esperienze e le scelte dei due Maestri che si fanno via via
divergenti: mentre la pittura morandiana mantiene una fondamentale unità e
misura, quella di Licini è sempre più libera dai rapporti naturalistici, fino
ad aprirsi all’astrattismo durante agli anni Trenta.
Dopo la
guerra l’abisso si fa ancora più profondo: Morandi rimane legato alla sua città
e ad una quieta vita “borghese” mentre Licini è esempio di anticonformismo,
attratto dall’Europa, soprattutto in seguito ai soggiorni parigini durante i
quali stringe amicizia con Amedeo Modigliani ed entra in contatto con
l’avanguardia internazionale.
Al contrario
Morandi vive forte il contatto con la pittura del Novecento. Dopo i primi
approcci con la metafisica e un lungo periodo all’insegna dell’inquietudine,
nel 1935 vince il premio alla Quadriennale di Roma che inaugura un decennio
felice: la perfezione è ritrovata, la sicurezza raggiunta. Torna la luce solare
e compare anche qualche colore brillante.
Nella
seconda sezione “La pittura costruttivista del Novecento italiano: Campigli,
Carrà, Sironi” viene esaltato il rapporto tra pittura ed architettura e le
reciproche influenze. Nel clima di “ritorno al mestiere” tipico di quel
periodo, il richiamo alla materia pittorica dell’affresco è elemento comune a
molti artisti all’aprirsi del nuovo decennio. In questi anni, nei grandi
cantieri favoriti dal regime fascista, si aprono nuove opportunità per la
pittura murale e il mosaico, dalla “Prima Triennale” di Milano nel ’31, alle
grandi decorazioni dei nuovi Palazzi di Giustizia, dalle stazioni alle
università agli uffici pubblici, si susseguono per tutti gli anni Trenta
commissioni di estrema rilevanza a cui partecipano artisti come De Chirico,
Severini, Campigli e Sironi.
La pittura
di Massimo Campigli, fatta di materia pittorica pastosa e tenera che si rifà
all’affresco, ha la sua struttura portante nello spazio architettonico indagato
plasticamente nell’equilibrio compositivo, nel senso tridimensionale delle sue
figure dalle sagome esatte, ispirate a un’antichità strappata al mito e
riportata alla quotidianità della vita corrente. Diversamente dai suoi compagni
di strada, Campigli rivisita l’arte etrusca, la pittura pompeiana, l’arte
bizantina non con spirito archeologico ma con la fascinazione di ritrovare
nell’antico le radici del contemporaneo.
Ad una
concezione pittorica spaziale architettonica approda anche Carlo Carrà quando
chiusa l’avventura futurista, nel 1916 pubblica su “La Voce” due famosi scritti
(Paolo Uccello costruttore e Parlata su
Giotto) e muta radicalmente il proprio linguaggio dalla scomposizione
avanguardista della forma ai nuovi valori solidi delle opere degli Anni Venti (San Giorgio Maggiore, 1926, La barca 1928, in Collezione
Giovanardi).
Sempre più,
nelle opere degli anni Trenta e Quaranta, la concezione spaziale della
composizione diviene centrale e la sintesi formale prende il sopravvento sul
puro dato emotivo ( Marina con albero, 1930,
Nuotatori, 1932 e Marina, 1940 tutte Collezione
Giovanardi).
Nella terza
sezione “Oltre la forma: il sogno e la terra” il tema fondamentale è la messa
in crisi del realismo da parte dei grandi protagonisti dell’arte italiana alla
fine degli Anni Trenta.
Nella
seconda metà di quel decennio si avverte nelle opere dei pittori e degli
scultori uno sfaldamento della plasticità formale, pur all’interno di generi
classici perfettamente codificati e ripetutamente indagati, come il ritratto,
il paesaggio o la natura morta, in favore di ricerche artistiche che si
rivolgono sempre più determinate verso un’idea diversa di forma, momento cruciale che prelude alle numerose sperimentazioni
legate all’astrattismo e all’apertura, all’inizio degli anni ’50, verso la
grande stagione informale. In questo ambito si sono rilevate due tendenze principali,
nettamente riconoscibili all’interno della Collezione Giovanardi: che i curatori hanno definito “il sogno” e
una “la terra”.
I pittori
della “Terra” mirano al superamento di
una rigorosa struttura formale tramite una pennellata fortemente terrosa,
materica, ctonia. Come Arturo Tosi, Ottone Rosai e Mario Mafai
Al
gruppo del “Sogno” attiene invece
Filippo De Pisis, fautore di una pittura eterea che sfalda la consistenza degli
oggetti fino a farla trascolorare nel nulla della tela grezza. Di segno analogo
i paesaggi e le nature morte di Pio Semeghini, circonfusi di un’atmosfera
onirica, presente anche nelle vaporose vedute di Cesare Breveglieri.
Tutte queste
esperienze costituiranno un momento d’importante riflessione sul rapporto tra
rappresentazione e realtà, lungo un percorso che sfocerà, con Mauro Ruggeri (ma
non solo), ad un’idea di astrazione che vedrà nella perfezione geometrica la
più alta aspirazione dell’uomo.
Maria Paola
Forlani