Jheronimus
Bosch
E Venezia
<<Che cosa significa, o
Hieronymus Bosch, /
Il tuo sguardo attonito, che cosa /
il pallore del
Tuo volto? Come se tu / avessi visto
svolazzare
dinanzi a te i Lemuri, / gli spettri
dell’Erebo!
Per te, io credo, si sono / aperti i
recessi / di
Dite impenetrabili / e le dimore del
Tartaro:
poiché la tua mano / ha saputo
dipingere
bene ogni segreto anfratto
dell’Averno>>
Domenicus
Lampsonius, 1572
Visioni
inquietanti, scene convulse, paesaggi allucinati con città incendiate sullo sfondo,
mostriciattoli e creature oniriche dalle forme più bizzarre: è questo
l’universo di Jeronimus Bosch affascinante ed enigmatico pittore vissuto tra il
1450 circa e il 1516 a ‘s-Hertogenbosch (Boscoducale) in Olanda, ricordato in
occasione dei 500 anni dalla morte con due grandi mostre monografiche,
rispettivamente nella città natale e al Prado di Madrid.
A questo
straordinario artista, Venezia, unica città in Italia a conservare suoi
capolavori, dedica a Palazzo Ducale fino al 4 giugno 2017 una mostra, a cura di
Bernard Aikema (catalogo Marsilio), di grande fascino per il pubblico e di
notevole rilevanza per gli studi, il cui punto focale sono proprio le grandi
opere di Bosch custodite in laguna alle Gallerie dell’Accademia – due trittici
e quattro tavole – riportate all’antico splendore grazie ad attenti e sapienti
restauri.
Fondamentale
nella ricostruzione del rapporto di Bosch e Venezia, risulta la testimonianza
precocissima di Marcantonio Michiel, conoscitore e critico d’arte, il quale nel
1521, nel descrivere la collezione “lagunare” del Cardinale Domenico Grimani,
nomina, accanto a una straordinaria serie di dipinti nord europei, tre opere di
Bosch con mostriciattoli, incendi e visioni oniriche: opere che il cardinale
alla sua morte, due anni più tardi, lascerà in eredità alla Serenissima
Repubblica, insieme ad altre pitture e sculture. Casse piene d’opere rimasero
nei sotterranei di Palazzo Ducale fino al 1615, quando un nucleo fu recuperato
ed esposto nella residenza dogale.
I restauri
effettuati mostrano come due delle tre opere conservate a Venezia – La santa Liberata e inferno e Paradiso –fossero
inizialmente destinate a committenze nordeuropee, modificate in seguito per
adeguarsi a una raffinata clientela italiana e a un nuovo destinatario: probabilmente
proprio il patrizio veneziano Domenico Grimani, cardinale e figlio di Antonio,
il 76esimo Doge di Venezia.
La mostra si
sofferma sulla figura di Domenico – effigiato in un tondo di Palma il Giovane
insieme al nipote Marino e nella bellissima medaglia realizzata dal Camelio – e
sui suoi interessi collezionistici, con opere di grande suggestione come alcune
statue greche appartenute alla raccolta del nobile veneziano e soprattutto la
placchetta argentea con la Flagellazione
di Cristo – capolavoro del Moderno commissionato dal cardinale
(Kunsthistoriches di Vienna) – e l’eccezionale Breviario Grimani con le sue 110 miniature (1515- 1520 c.),
probabilmente il più bello e il più importante tra i manoscritti miniati
prodotti nelle Fiandre durante l’estrema fioritura dell’ars illuminandi, in un tempo in cui i libri a stampa erano ormai
accessibili e le opere manoscritte una rarità.
Quindi, la
tematica del sogno, cara all’entourage di Domenico Grimani.
Personalità
di elevata statura e di svariati interessi, dalla filosofia alla teologia,
amante della scultura greca antica, di Tiziano, di Raffaello e di Leonardo da
Vinci, il cardinale era attratto infatti anche dall’arte delle Fiandre e
soprattutto interessato fortemente a quelle visioni oniriche immaginate negli
ambienti colti della Venezia dell’epoca.
Il tema del
sogno ricorre nel famoso romanzo-visione pubblicato nel 1500 a Venezia da Aldo
Manuzio Hypnerotomachia Poliphili e
nell’incisione Il Sogno (1506-1507)
di Marcantonio Raimondi – tratta forse da un perduto dipinto di Giorgione – con
due donne svestite dormienti e vari mostriciattoli.
Secondo il
curatore della mostra Bernard Aikema, le immagini oniriche di demoni e mostri
in questi casi non deriverebbero da Bosch – Riflettendo semmai il fascino esercitato
dalle stampe tedesche di Dȕrer, Martin Schongauer e Luca Cranach il Vecchio,
tutti in mostra – ma viceversa la presenze di Bosch in laguna sarebbe la
conseguenza di una precisa “moda”, di un interesse già diffuso negli ambienti
intellettuali, basti guardare ai piccoli bronzi di soggetto mostruoso e
fantastico che decoravano gli studioli del tempo come il calamaio in forma di mostro marino di Severo da Calzetta
(1510-1530), attivo nel VI secolo a Padova alla Basilica del Santo,
o come il Satiro seduto che beve di Andrea Briosco
detto il Riccio.
Così come lo
stesso Bosch e molti altri artisti d’oltralpe avrebbero attinto certi
personaggi “surreali” dalle grottesche caricature di Leonardo (in mostra anche
alcuni bellissimi fogli del corpus grafico leonardesco, realizzati
probabilmente da Francesco Melzi, dal Gabinetto dei Disegni e Stampe della
Galleria dell’Accademia).
Grimani
dunque consapevolmente ricerca opere fiamminghe; consapevolmente vuole Bosch,
con le sue panoramiche notturne da incubo e le sue creature mostruose ma anche
le sue ambiguità e stranezze; e le vuole – vero principe rinascimentale – per
ragioni estetiche, per farne il pretesto di una discussione erudita,
l’occasione di un confronto intellettuale come momento di diletto e di
formazione per il suo “cenacolo”, così come avveniva con le opere giovanili di
Lotto, Tiziano e soprattutto Giorgione.
Trova dunque
un itinerario importante con le Fiandre negli ambienti ebraici che frequentava,
vicino com’era al sincretismo di Giovanni Pico, tra speculazioni neoplatoniche
e cultura giudaica.
In
particolare, tra i principali contatti ebraici vi era il suo medico personale
Meir de Balmes che, che a sua volta, manteneva stretti rapporti con il più
importante editore di libri in ebraico, poliedrico uomo d’affari, con spiccato
interesse per le arti figurative, Daniel van Bomberghen, stabilitosi a Venezia
intorno il 1515.
Bamberghen
sarebbe stato il tramite per gli acquisti neerlandesi del cardinale, con il
nipote Cornelis De Renialme, che risulta aver gestito le trattative per le
opere rimaste in bottega di s’-Hertogenbosch dopo la morte del pittore, nel
1516.
In mostra,
un’infilata di anonimi seguaci del grande artista presenti in laguna ci dà
conto della nascita di un mito; così come la diffusione dei motivi boschiani
anche nella grafica. Con l’enorme tela di Jacob Isaacz van Swanenburgh si ha la
percezione della apoteosi seicentesca di Bosch in patria, mentre nella città
dei Dogi sarà Joseph Heintz il Giovane a far rivivere con i suoi “stregozzi”
l’universo cupo e onirico, le creature deformi e grottesche di Bosch, in
perfetta sintonia con il clima negromantico e gli interessi di molti esponenti
dell’Accademia degli Incogniti.
Ma i tempi
ormai erano cambianti. Ora questa pittura è puro estetismo, di effetto: non ci
sono più messaggi da ricercare e capire, non più retaggi religiosi o morali; la
dimensione del sogno lascia il posto al manierismo e alla meraviglia del
barocco.
Maria Paola
Forlani
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