Tamara la regina del Déco
Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia
Dopo le grandi rassegne dedicate al Novecento (2013)
e al Liberty in Italia (2014),
i Musei
San Domenico a Forlì aggiungono un nuovo tassello alla sistematica
rivisitazione che va compiendo sulla produzione artistica italiana nell’epoca
segnata dalle Grandi Esposizioni internazionali e dal vitale ma problematico
rapporto tra arte e industria (Art Déco.
Gli anni ruggenti in Italia a cura di Valerio Terraroli, fino al 18
giugno).
E dai
rigonfiamenti posticci, con i capelli a caschetto e i primi abiti corti dalle
frange ondeggianti. L’Expo parigina del’
25 dettò all’Europa e alle Americhe modelli e tipologie, tecniche e materiali,
creando simboli come la fontana ghiacciata, ideata da Marc Ducluzeaud e René
Lalique, le cui luminose traiettorie geometriche, declinate oltreoceano,
s’ingigantiranno, forgiando la prismatica verticalità dei grattacieli Déco, dal
Chrysler Building di Van Halen a Manahattan (1930), con la sua guglia elettrica
e le sue protomi automobilistiche in acciaio, al Carbide G Carbon Building di
Chicago (1920), con pinnacoli in marmo e granito nero, profilati in oro.
Tra il Liberty
(o comunque lo si voglia chiamare, Art Nouveau, Sezession, Jugendstil, Modern
Style…) e l’Art Déco che gli succede c’è un rapporto complicato e ambiguo, dei
risvolti edipici. Di filiazione, perché a ben vedere già Mackintosh a Glasgw,
la Wiener Sezession, l’Hoffmann di Palais Stoclet a Bruxelles e il giovane
Frank Lloyd Wrigt delle Praire Houses avevano “retificato” la sviscerata
passione Liberty per la linea curva; e perfino il più geniale ideatore del
“colpo di frusta” Victor Horta, l’aveva ripudiata fin dai primi anni Venti.
Ma dalla
filiazione al disconoscimento il passo fu breve. Al programmatico rifiuto Déco
della curva, che rimaneva comunque la cifra più autentica del Liberty,
corrispose un’analoga idiosincrasia per quella vitalistica irruzione della
natura nel mondo artificiale della metropoli, che era anch’essa connaturata
all’Art Nouveau (si pensi ai giganteschi fiori esotici in ghisa, messi da
Hector Guimard a far da sentinella alle stazioni parigina del Métro.
Ad
accomunare i due stili, tuttavia, fu l’aspirazione a far convivere qualità e
quantità, bellezza e praticità, materiali rari e produzione seriale, nella
prospettiva di una perseguita, seppur problematica, alleanza tra arte e
industria.
La regina
del Déco fu senza alcun dubbio Tamara de Lempicka, la pittrice scappata dalla
rivoluzione bolscevica alla conquista di Parigi, portando con sé gioielli e
abiti da sera vita libera e avventurosa, diventa protagonista della Ville
Lumière “des annes folles”.
La bellezza
di Tamara de Lempicka, l’eleganza che l’ha sempre contraddistinta, la sua vita
mondana e romanzesca la rendono ancor oggi l’affascinante simbolo di un’epoca,
una sorta di icona del lusso e dello charme; come pittrice Tamara è stata
alunna di Maurice Denis e André Lothe – due artisti, l’uno vicino ai Nabis,
l’altro di formazione cubista. Da loro la pittrice eredita l’idea di arte come
stile e come ornamento, come ricerca della perfezione estetica, frutto della
ragione. Le figure ritratte da Tamara sono imponenti, monumentali, icone di un
preciso momento storico eppure astratte da ogni riferimento temporale, assolute
e possenti come statue antiche. Soprattutto nei nudi (tutti femminili),
l’artista rivela il proprio debito verso Igres e Pontormo. Fin dagli esordi il
suo interesse è rivolto all’arte del ritratto, che le permette di effigiare i
principali esponenti del bel mondo cittadino, creando immagini che sono
diventate simbolo di un’epoca. Lo stile di Tamara trae origine dalla ricerca
cubista ma risente della tradizione (in particolare del manierismo di Pontormo
e Bronzino) e, in linea con le nuove tendenze dell’epoca di “ritorno
all’ordine”.
Tamara, che
era nata nel 1898 (forse a Varsavia, oppure a Mosca: la sua biografia, come si
conviene, contiene più di un mistero), non partecipa all’Exposition
Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes del 1925. Ma,
nonostante questo, i suoi ritratti di una solennità nuova e modernissima che
inquadrano personaggi belli e impossibili, lontani dalla brutalità del reale,
sono diventati icone di quel mondo meraviglioso e affascinante in cui tutto,
dall’automobile ai bicchieri, dai mobili ai piatti, è espressione di uno stile
eclettico, internazionale seducente.
In mostra a
Forlì, le “femmes fatales” dipinte da Lempicka: elegantissime e con una forte
carica erotica, anche quando sono vestite, o meglio avvolte in abiti
svolazzanti.
Se si guarda
il Ritratto di Ira P., si può
comprendere il suo modo di trattare la tela: innanzitutto lo spazio è
interamente occupato dal soggetto, che sembra addirittura starci stretto, come
accade in certi quadri tardomanieristi. Non c’è aria, non c’è vuoto intorno,
Tamara schiaccia le sue figure in una scatola che le contiene appena.
Inoltre la
pittrice utilizza pochissimi colori: qui c’è una vera e propria sinfonia di
grigi e bianchi interrotti solamente dal rosso delle labbra, dalle unghie
laccate e dallo scialle. Tutto sembra fatto di una stessa materia metallica:
dai fiori che Ira P. tiene in mano al drappeggio della veste, fino alla fronte
investita di un fascio di luce.
Ѐ costruito nello stesso modo l’Echarpe
bleue: ecco la solita gamma cromatica limitata, prevalentemente fredda con
l’unica eccezione del fuoco acceso sulle labbra. Il blu della sciarpa indossata
dalla donna conturbante e sensuale domina la scena come fosse un cielo sereno.
La stessa glacialità dei toni si trova nel volto della figura, nel suo sguardo
distaccato e inafferrabile.
Questa
bionda con la sciarpa blu indossa il berretto che troviamo nelle attrici del
tempo da Greta Garbo e Marlene Dietrich, e dietro di lei è raffigurato un
veliero, chiaro riferimento al viaggio, all’avventura, a una vita in cui il
proprio ruolo è quello della protagonista. Com’era, d’altra parte, quello di
Tamara. Che si muoveva con la stessa
disinvoltura nel campo della pittura e quella della cronaca mondana.
La donna che
guarda in alto, protagonista di St. Moritz, pubblicata come copertina della
rivista Die Dame nel 1929, racconta
di giornate sulle piste in un luogo esclusivo, frequentato da chi, oltre a
sapere sciare, deve soprattutto sapersi vestire.
I dipinti
della Lempicka inquadrano uomini e donne del suo tempo. A volte sono due nello
stesso dipinto. Quando accade, c’è una messa in scena di giochi di sguardi,
enigmatici, sospesi in un realismo magico che stupisce e attrae. Succede così
ne
Les
confidences, dove due donne, con i loro cappelli alla moda, si svelano
segreti.
Il rosso questa volta è il colore chiave di
tutta la scena.
Nei Musei
San Domenico i dipinti di Tamara gareggiano in bellezza con i ritratti
cesellati di Erté, pseudonimo del designer di origine franco russo Romain de
Tirtoff. La sua donna déco ha l’aria spregiudicata, porta i capelli a
caschetto, à la garçonne, veste Chanel e Poiret, s’ingioiella con bellissima
bigiotteria, balla il charleston facendo tintinnare lunghe collane e fuma
sottili bocchini d’avorio.
Maria Paola
Forlani
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