giovedì 16 febbraio 2017

TAMARA la regina del Déco

Tamara la regina del Déco
Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia


Dopo le grandi rassegne dedicate al Novecento (2013) e al Liberty in Italia (2014),
 i Musei  San Domenico a Forlì aggiungono un nuovo tassello alla sistematica rivisitazione che va compiendo sulla produzione artistica italiana nell’epoca segnata dalle Grandi Esposizioni internazionali e dal vitale ma problematico rapporto tra arte e industria (Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia a cura di Valerio Terraroli, fino al 18 giugno).

E dai rigonfiamenti posticci, con i capelli a caschetto e i primi abiti corti dalle frange ondeggianti. L’Expo  parigina del’ 25 dettò all’Europa e alle Americhe modelli e tipologie, tecniche e materiali, creando simboli come la fontana ghiacciata, ideata da Marc Ducluzeaud e René Lalique, le cui luminose traiettorie geometriche, declinate oltreoceano, s’ingigantiranno, forgiando la prismatica verticalità dei grattacieli Déco, dal Chrysler Building di Van Halen a Manahattan (1930), con la sua guglia elettrica e le sue protomi automobilistiche in acciaio, al Carbide G Carbon Building di Chicago (1920), con pinnacoli in marmo e granito nero, profilati in oro.

Tra il Liberty (o comunque lo si voglia chiamare, Art Nouveau, Sezession, Jugendstil, Modern Style…) e l’Art Déco che gli succede c’è un rapporto complicato e ambiguo, dei risvolti edipici. Di filiazione, perché a ben vedere già Mackintosh a Glasgw, la Wiener Sezession, l’Hoffmann di Palais Stoclet a Bruxelles e il giovane Frank Lloyd Wrigt delle Praire Houses avevano “retificato” la sviscerata passione Liberty per la linea curva; e perfino il più geniale ideatore del “colpo di frusta” Victor Horta, l’aveva ripudiata fin dai primi anni Venti.
Ma dalla filiazione al disconoscimento il passo fu breve. Al programmatico rifiuto Déco della curva, che rimaneva comunque la cifra più autentica del Liberty, corrispose un’analoga idiosincrasia per quella vitalistica irruzione della natura nel mondo artificiale della metropoli, che era anch’essa connaturata all’Art Nouveau (si pensi ai giganteschi fiori esotici in ghisa, messi da Hector Guimard a far da sentinella alle stazioni parigina del Métro.

Ad accomunare i due stili, tuttavia, fu l’aspirazione a far convivere qualità e quantità, bellezza e praticità, materiali rari e produzione seriale, nella prospettiva di una perseguita, seppur problematica, alleanza tra arte e industria.

La regina del Déco fu senza alcun dubbio Tamara de Lempicka, la pittrice scappata dalla rivoluzione bolscevica alla conquista di Parigi, portando con sé gioielli e abiti da sera vita libera e avventurosa, diventa protagonista della Ville Lumière “des annes folles”.
La bellezza di Tamara de Lempicka, l’eleganza che l’ha sempre contraddistinta, la sua vita mondana e romanzesca la rendono ancor oggi l’affascinante simbolo di un’epoca, una sorta di icona del lusso e dello charme; come pittrice Tamara è stata alunna di Maurice Denis e André Lothe – due artisti, l’uno vicino ai Nabis, l’altro di formazione cubista. Da loro la pittrice eredita l’idea di arte come stile e come ornamento, come ricerca della perfezione estetica, frutto della ragione. Le figure ritratte da Tamara sono imponenti, monumentali, icone di un preciso momento storico eppure astratte da ogni riferimento temporale, assolute e possenti come statue antiche. Soprattutto nei nudi (tutti femminili), l’artista rivela il proprio debito verso Igres e Pontormo. Fin dagli esordi il suo interesse è rivolto all’arte del ritratto, che le permette di effigiare i principali esponenti del bel mondo cittadino, creando immagini che sono diventate simbolo di un’epoca. Lo stile di Tamara trae origine dalla ricerca cubista ma risente della tradizione (in particolare del manierismo di Pontormo e Bronzino) e, in linea con le nuove tendenze dell’epoca di “ritorno all’ordine”.
Tamara, che era nata nel 1898 (forse a Varsavia, oppure a Mosca: la sua biografia, come si conviene, contiene più di un mistero), non partecipa all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes del 1925. Ma, nonostante questo, i suoi ritratti di una solennità nuova e modernissima che inquadrano personaggi belli e impossibili, lontani dalla brutalità del reale, sono diventati icone di quel mondo meraviglioso e affascinante in cui tutto, dall’automobile ai bicchieri, dai mobili ai piatti, è espressione di uno stile eclettico, internazionale seducente.

In mostra a Forlì, le “femmes fatales” dipinte da Lempicka: elegantissime e con una forte carica erotica, anche quando sono vestite, o meglio avvolte in abiti svolazzanti.
Se si guarda il Ritratto di Ira P., si può comprendere il suo modo di trattare la tela: innanzitutto lo spazio è interamente occupato dal soggetto, che sembra addirittura starci stretto, come accade in certi quadri tardomanieristi. Non c’è aria, non c’è vuoto intorno, Tamara schiaccia le sue figure in una scatola che le contiene appena.
Inoltre la pittrice utilizza pochissimi colori: qui c’è una vera e propria sinfonia di grigi e bianchi interrotti solamente dal rosso delle labbra, dalle unghie laccate e dallo scialle. Tutto sembra fatto di una stessa materia metallica: dai fiori che Ira P. tiene in mano al drappeggio della veste, fino alla fronte investita di un fascio di luce.

Ѐ costruito nello stesso modo l’Echarpe bleue: ecco la solita gamma cromatica limitata, prevalentemente fredda con l’unica eccezione del fuoco acceso sulle labbra. Il blu della sciarpa indossata dalla donna conturbante e sensuale domina la scena come fosse un cielo sereno. La stessa glacialità dei toni si trova nel volto della figura, nel suo sguardo distaccato e inafferrabile.
Questa bionda con la sciarpa blu indossa il berretto che troviamo nelle attrici del tempo da Greta Garbo e Marlene Dietrich, e dietro di lei è raffigurato un veliero, chiaro riferimento al viaggio, all’avventura, a una vita in cui il proprio ruolo è quello della protagonista. Com’era, d’altra parte, quello di Tamara.  Che si muoveva con la stessa disinvoltura nel campo della pittura e quella della cronaca mondana.

La donna che guarda in alto, protagonista di St. Moritz, pubblicata come copertina della rivista Die Dame nel 1929, racconta di giornate sulle piste in un luogo esclusivo, frequentato da chi, oltre a sapere sciare, deve soprattutto sapersi vestire.
I dipinti della Lempicka inquadrano uomini e donne del suo tempo. A volte sono due nello stesso dipinto. Quando accade, c’è una messa in scena di giochi di sguardi, enigmatici, sospesi in un realismo magico che stupisce e attrae. Succede così ne
 Les confidences, dove due donne, con i loro cappelli alla moda, si svelano segreti.
 Il rosso questa volta è il colore chiave di tutta la scena.

Nei Musei San Domenico i dipinti di Tamara gareggiano in bellezza con i ritratti cesellati di Erté, pseudonimo del designer di origine franco russo Romain de Tirtoff. La sua donna déco ha l’aria spregiudicata, porta i capelli a caschetto, à la garçonne, veste Chanel e Poiret, s’ingioiella con bellissima bigiotteria, balla il charleston facendo tintinnare lunghe collane e fuma sottili bocchini d’avorio.

Maria Paola Forlani


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