Teatro Povero di Monticchiello
Il Paese che manca
Autodramma della gente di Monticchiello
Fino al 15 agosto andrà in
scena Il paese che manca, 49°
autodramma del Teatro Povero di Monticchiello (Pienza- SI)): una drammaturgia
partecipata da un intero paese che si interroga su questioni cruciali per la
comunità, in cui chi guarda può di riflesso riconoscersi e ritrovarsi.
Tradizione sperimentale che ogni anno propone un nuovo testo, gli spettacoli
del Teatro Povero sono ideati, discussi e recitati dagli abitanti attori, sotto
la guida e per la regia di Andrea
Cresti. Nella cornice della
Val d’Orcia dichiarata
Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, un viaggio teatrale nell’anima espressiva
della Toscana.
È dal 1967 che ogni estate a Monticchiello si torna ‘in
piazza’ per un’esperienza teatrale seguita da migliaia di spettatori, un pubblico
affezionato cui si aggiunge l’interesse di molti addetti ai lavori, uomini di
teatro ma anche sociologi e antropologi. Un teatro, quello del borgo toscano,
nato dalla crisi del mondo mezzadrile-contadino, patrimonio culturale e umano
comune a buona parte d’Italia almeno fino alla grande trasformazione degli anni
Cinquanta e Sessanta.
Giunto alla soglia dei
cinquant’anni, che saranno festeggiati il prossimo anno, il Teatro Povero è
oggi una realtà culturale e sociale attiva 360 giorni all’anno, che affianca
alle attività culturali la gestione di servizi sociali, sostegno della
comunità, attività di inclusione, integrazione e formazione: un’esperienza
basata in gran parte sul volontariato, che cerca caparbiamente di opporsi alle
logiche di marginalizzazione dei piccoli centri.
Alle spalle di ogni
spettacolo del Teatro Povero vi è un lungo percorso partecipativo: da gennaio
iniziano le assemblee pubbliche, aperte a chiunque desideri collaborare
oltrechè ai membri della compagnia; si comincia così a raccogliere spunti e riflessioni
fino ad arrivare ai temi ritenuti urgenti per l’anno in corso. Da qui parte la
discussione collettiva che porta al soggetto e poi al copione. Un lungo percorso
di creazione condivisa da cui prende vita l’autodramma:
questa la definizione coniata da Giorgio Strehler per l’esperimento sociale
e teatrale di Monticchiello. Momento di comunione con il pubblico, ogni
spettacolo è il tentativo di questa piccola comunità di creare un senso
condiviso delle trasformazioni in corso, delle nuove sfide, riavvolgendo ogni
volta quel tenue filo rosso che riporta alle origini culturali, sociali e umane
di quest’esperienza.
Lo spettacolo del 2015 prende
avvio da una riflessione sull’andarsene: un tempo, anche qui, per fuggire da
condizioni difficili, spesso di povertà, da una storia comune di emarginazione
sociale e culturale. In cerca di riscatto. Oggi perché il paese offre poche
possibilità e il tessuto sociale sembra sgretolarsi, lasciando tra le sue
macerie confusi incubi di dismissioni e impotenza civile che inquietano e
disorientano.
Così, in un piccolo paese di
provincia, una comunità si ritrova incerta di fronte a una festa: quella dell’ultimo ventenne rimasto, Gigino. Compleanno ma
forse anche festa d’addio per un’ennesima partenza cui non sembrano darsi
alternative. I più anziani, le generazioni precedenti, non hanno neanche questa
possibilità: troppo difficile per loro andarsene. Dovranno assistere così allo
smantellamento degli ultimi baluardi sociali, di quei connettivi che ancora
testimonierebbero la presenza di una società: l’ufficio postale, la scuola, i
servizi…
Ma cosa significa davvero
partire? È una condanna o una possibilità? Una resa o una
reazione? Oppure soltanto un gioco del destino? Perché poi, mentre molti
partono, tanti altri arrivano: migrazioni da una parte all’altra, mari da
attraversare, confini incisi sulla carta e poi sulla pelle. Talvolta uscendone
feriti, offesi, costretti alla resa.
A volte, nonostante tutto,
trovando una nuova energia che permetterà poi di tornare, lottare, ricostruire.
Affrontando i propri incubi…E intanto su tutti regna il ghigno di un misterioso
Giocattolaio, un po’ matto un po’ santo, in cui ciascuno vede ciò che vuol
vedere. Paure e inquietudini, attese, speranze, la ricerca di un’identità…
Daniele ho cominciato a correre perché volevo arrivare lassù, vedere il
castello da vicino, vedere com’era dentro perché mi avevano detto che quello
che avrei visto non era vero, ma era quello che si voleva che fosse vero…
-Allora era finto?
Daniele No. Era talmente vero da sembrare finto.
Per il paese che manca e per i suoi personaggi la ricerca di
“identità”, dalle scene di vita, si rivela, anche, nel sogno. L’identità è la
coscienza di se stessi – anzitutto “sentita” e “vissuta”, ma nella quale
bisogna pur sforzarsi di acquisire razionale consapevolezza -:
pertanto della propria
specificità, di quel che distingue “noi” dagli “altri” e della gradualità,
appunto, dell’essere “noi” rispetto agli “altri”, secondo criteri di maggiori o
minori prossimità e/o affinità. Il che significa che l’identità è per sua
natura dinamica (in quanto si modifica nella storia) e imperfetta (in quanto
nessuna comunità, come del resto nessun individuo, può vantare un’identità
assoluta, metafisica e metaforica “globale”: ciascuna identità si misura su
concreti parametri storici, spaziali, genetici, linguistico-dialettali,
religiosi antropologici).
Nella scarna scenografia,
accompagnata, soprattutto, dalle luci le immagini trasmigrano progressivamente
in territori dove la “forma” è meno riconoscibile, perché interpretata.
Immagini che oltrepassano la “forma” e producono una totale rottura dal “vero”,
ricostruendosi in territori dove domina il grottesco, il gusto dell’assurdo,
l’amaro graffiante del paradosso che descrive il possibile futuro di un
presente difficile; alla ricerca di quell’ “identità” che potrà dare un senso
alla perdita del proprio mondo colmo di orpelli rassicuranti (l’ufficio
postale, la banca…), un futuro, forse, fuori da quei confini…Per Gigino è
certo, lui che con il Giocattolaio misterioso ha progettato un ‘mondo in 3D’.
Maria Paola Forlani