EDUCARE ALL’ARTE? DOMANDA NECESSARIA MA ATTUALMENTE VANA
Gian Luigi Zucchini
1. Che cos’è l’arte?
Innanzitutto, per affrontare la questione proposta
dal volume dell’ALI (Associazione Liberi Incisori) 2015, e cioè “Educare
all’arte”, occorre individuare l’oggetto della questione stessa. E lo si può
fare ponendosi innanzitutto una domanda: “Che cos’è l’arte?”. E subito la
risposta diventa difficile, forse impossibile. Da secoli, da millenni, l’uomo
si è interrogato su che cosa sia l’arte, e come possa in qualche modo essere
definita. Non c’è riuscito mai. A seconda dei tempi, e attraverso molteplici
ragionamenti, si sostengono varie opinioni, che poi vengono successivamente
modificate o addirittura cancellate, per lasciare il posto ad altre
convinzioni, e ad altre diverse definizioni. L’idea dell’arte è dunque un
processo che si modifica con il mutamento del pensiero umano. E allora il
bello, o meglio ancora la bellezza, che cos’è? Anche qui, risposte impossibili.
Ciò che era bello un tempo, oggi non lo è più, o viceversa. Non sempre, e non
per tutto; ma per l’arte vale il principio che la bellezza può essere assai
spesso soggettiva: non c’è una formula che possa determinare la bellezza o meno
di un prodotto. Di solito si preferisce tentare una spiegazione mediante
metafore, usando strategie lessicali o sofismi intellettuali: si dice, per
esempio, che la bellezza è equilibrio, armonia, eleganza; oppure ordine visivo,
o piacere della visione, o altro ancora. Ma sono definizioni generiche. Nel
Seicento l’ideale della bellezza artistica, secondo il Bellori, era
rappresentata dalle opere del ‘divino’ Guido, cioè Guido Reni; il quale poi
divenne, nell’Ottocento, un pittore ‘da santini’: esteticamente, si sosteneva,
valeva poco o niente: finché poi non fu rivalutato nei primi del Novecento,
insieme all’arte barocca e particolarmente a quella bolognese di quell’epoca.
Dunque, di che bellezza si trattava e/o si tratta?
E oggi, i concetti di cui si è detto, e cioè
l’eleganza, l’equilibrio, l’armonia ed altro ancora, sono rispettati dall’arte?
Neppur per sogno. Anzi, si impose nel Novecento l’art brut, cioè l’arte
selvaggia, con Dubuffet che demoliva la plurisecolare idea del bello, e con le
avanguardie che inventavano strategie diverse per demolire e riedificare
secondo nuovi principi e nuove idee; e con il futurismo, qui in Italia, che
azzerava tutto, per ricominciare dal nulla, o meglio, da ciò che in pittura non
si potrebbe rappresentare, come la velocità, l’ardimento, la spavalderia, o
anche l’effetto di alcuni sensi, come l’olfatto, o il gusto. E da qui,
invenzioni e strategie per arrivare a rappresentare ciò che pareva impossibile,
e che già l’impressionismo aveva tentato di esprimere attraverso la luce, che
però era anche movimento, vibrazioni di ombre luminose, ma sempre però nella
staticità, come anche la scultura, che invece avrebbe dovuto dare l’idea
immediata del movimento, come tentò faticosamente di fare Boccioni, ad esempio,
con un’opera che è addirittura impressa nelle monetine da 20 centesimi, per
indicare la spinta dinamica, faticosa ma irreversibile, verso il futuro. E
così, man mano che si avanza nella perlustrazione delle idee intorno all’arte,
si arriva ad eccezionali altezze di pensiero e di conseguente rappresentazione,
cioè al sublime, all’ineffabile, quasi un tentativo di rappresentazione del
divino o dell’assoluto, per poi domandarsi: ed ora, dovendo comunque avanzare
perché il tempo non concede momenti di sosta, che si fa? E poiché l’attimo,
ancorché bellissimo, è fuggente e non si arresta, ci si convince che occorra
ripensare tutto da capo e ritornare alle origini. Cioè, riprendere il pensiero
artistico nei primi momenti in cui esso è sorto nella storia umana. Ma come è
possibile ritornare a pensare, o addirittura ad essere, come l’uomo alle sue
origini, senza l’accumulo di incrostazioni ideologiche e culturali con cui la
civiltà ha rivestito l’originale intuizione umana?
Gauguin ci provò, andando a cercare nelle
lontanissime isole nel sud del mondo, una verginità lontana delle
sovrastrutture della civiltà; ci provò anche Henri Rousseau detto il Doganiere,
rifacendosi in un certo modo ai disegni infantili; e intanto Freud metteva in
luce i totem e i tabù che l’uomo si crea nell’inconscio, e che poi esprime nei
comportamenti, obbligandosi a seguirli senza che alcuno gliel’abbia imposto;
così anche l’arte si adegua, cercando di rappresentare ciò che è al di sopra,
al di là della realtà: sur le realisme,
o surrealismo. Picasso poi, ed altri artisti tra fine Ottocento e primi
Novecento, riscoprono le maschere e gli amuleti delle tribù più selvagge
dell’Africa o dell’Oceania recuperandone le forme ed elaborandole secondo
criteri corrispondenti ad una particolare visione o meglio, concezione di arte
ripensata in un diverso contesto storico e culturale. Paul Klee ed altri
studiano il grafismo dei bambini, le immagini con cui essi spontaneamente
rappresentano la realtà, addirittura lo scarabocchio tipico dei primissimi
tempi di vita, come faceva l’americano Cy Twombly, scomparso nel 2011 (si veda,
ad esempio, l’opera “Panorama 1955” ,
matita su carta) . Subentrano, in questi studi e ricerche, scienze un tempo
sconosciute, come la psicologia, la sociologia, l’antropologia culturale.
Giorgio Celli, in una mostra che realizzò a Bologna nei primi anni ’60, e che
intitolò “Alle origini dell’arte”, cercò addirittura di dimostrare che il
comportamento artistico è non solo innato nell’uomo, ma è proprio della natura;
e portava come esempio le danze diverse e meravigliose degli uccelli, varie e
suggestive a seconda delle specie, però sempre uguali, ripetute nei millenni; e
addirittura il concetto di equilibrio formale, quasi geometrico, della natura
vegetale, e quello cromatico, variabile e immutabile al tempo stesso. Quasi a
conferma, dunque, di quanto già sosteneva frà Luca Pacioli nel suo trattato del
1509, intitolato “De divina proportione”, a cui si ispirarono molti artisti,
seguendo il principio di perfezione e di equilibrio che aprì poi la via a quella che il Vasari definì ‘pittura
moderna’; principio richiamato ancor oggi, come dimostrano, ad esempio, le
opere di Marco Tirelli, Eduardo Chillida (“Elogio de la luz”, 1990), di Fausto
Melotti, ed altri.
Ma il ritorno all’origine, non potrebbe poi portare
l’uomo a ripercorrere la stessa strada che ha percorso, arrivando agli stessi
risultati a cui è giunto dopo secoli e secoli di ricerche e di prove?
L’esperienza sembra dirci di no, perché alla base di tutto ciò c’è un
comportamento umano, documentato scientificamente, che è stato definito
‘creatività’. E quindi avevano ragione gli antichi filosofi greci, che avevano
intuito come nella natura umana ci fosse una spinta a creare utilizzando la
materia disponibile secondo strutture varie e piacevoli. Idea che Giovanni
Pascoli con acutissima intelligenza elaborò in quel saggio mirabile intitolato
‘Il fanciullino’, dove nell’apparente elementarità del termine si legge un
mondo, un universo, perché ‘il fanciullino’ è tutto l’uomo, nella sua integrale
essenza: intelligenza, ragione, corpo e fisicità, emozioni, intuizioni, sensi e
trascendenza spirituale. E così si spiega anche come l’arte si sia manifestata
fin dai primissimi tempi della vita dell’uomo sul pianeta. Infatti, che bisogno
c’era di decorare con semplici fregi impressi sulla creta ancora molle i vasi
che servivano per contenere i liquidi? E perché mai industriarsi nel cercare,
forare, ordinare conchiglie fossili e no per infilarle una dietro l’altra e mettersele
al collo, fin dal tempo del paleolitico? E perché, e con quale istintivo
significato, utilizzare addirittura il proprio corpo per realizzare
drammatizzazioni senza alcun senso apparente, colorandolo in modo vario,
addirittura trafiggendolo in alcune parti, e poi ornandolo con piume, foglie,
fiori, e infine torcendolo o muovendolo in modi ripetitivi sul ritmo insistente
di percussioni primordiali? Cos’era, insomma, tutto ciò? Invenzione, intuizione, creatività… In una
parola: arte, che diversamente nel
tempo, era considerata volta a volta bellezza. Peraltro, finalizzata a
qualcosa: a fini religiosi, sacrali, celebrativi, sociali, anche politici; e
poi esclusivamente a niente, al gusto del bello, ideale o no, o secondo l’idea
di bellezza di un determinato momento storico e culturale. Da qui, anche, la
gratuità (o brutalmente, l’inutilità) dell’arte.
Torniamo ora al nostro tempo: che fanno molti
giovani oggi? Si vestono in modo stravagante, portano jeans stracciati
volutamente o a bella posta malamente rattoppati; si decorano il corpo
sottoponendosi a dolorosi tatuaggi, addirittura si procurano ferite, per poi
ricucirle e rappresentare tutto in video, che in seguito diffondono o espongono
in mostre, dando origine addirittura a filoni artistici; si esercitano per ore
in gruppo o singolarmente percuotendo strumenti esclusivamente in modo ritmico,
utilizzando il più primitivo elemento musicale, cioè il ritmo, e non
considerando le altre fondamentali componenti della musica, e cioè la melodia e
l’armonia. E deturpano i muri con fregi o scarabocchi, o lettere vagamente
strutturate: alcune orrende per uso elementarissimo del colore e della forma,
altre più eleganti, decorose, perfino ‘belle’, cioè piacevoli. Ecco dunque che
il discorso ritorna al principio: ad una specie di primitività comportamentale,
o piuttosto elementarità delle idee, e quindi della domanda iniziale: che cos’è
l’arte, che cos’è la bellezza?
Non si è data una risposta, perché credo non ci sia.
In ogni momento storico, considerando ciò che la società sente ed esige o
impone, si manifesta un fenomeno di ‘invenzione’, cioè creativo, che risponde a
istanze e sentimenti proprio di quella società e di quel determinato tempo.
Allora, non c’è differenza tra arte ed espressione grafica purchessia? Assolutamente
no; c’è differenza, anzi, le due cose non coincidono affatto. Si cadrebbe
nell’idea enfatica del neoidealismo gentiliano, che sosteneva essere il disegno
dei bambini ‘arte infantile’. Quella del bambino non è arte, è semplicemente
espressione naturale di quel particolare momento della vita. Un esempio? Alla
pinacoteca di Verona c’è un dipinto, di G.
Caroto (“Ritratto di fanciullo con pupazzetto”, 1523 ca), unico, credo,
in tutta la storia dell’arte, che rappresenta un bambinetto di circa nove anni
il quale mostra un suo disegno, in cui è rappresentato un omino. È praticamente identico a quello che i
bambini fanno oggi: una testa, un corpo a forma di rettangolo piuttosto
informale, linee orizzontali e verticali per le gambe e le braccia, e cinque
lineette a destra e a sinistra per le dita. Chi ha insegnato al bambino a
disegnare in quel modo? E perché sempre così? Studi sul disegno infantile hanno
dimostrato le ragioni di questi fenomeni, che hanno sede addirittura
nell’inconscio, quello che Freud definiva residui mnestici della memoria. Ma
l’arte, allora? L’arte è la consapevole, ragionata presa di coscienza del
fenomeno espressivo (può essere grafico, ma anche coreutico, sonoro,
manipolativo, linguistico, da cui la poesia, la musica, la scrittura, ecc,) che
l’uomo, se adeguatamente educato, riesce ad esprimere. Ed eccoci allora
all’impegnativa proposta: “Educare all’arte”
2. Pessimismo della ragione, o ottimismo
della volontà?
Come, quando, perché, a quale età, cominciare
l’opera di educazione? I latini, che erano razionalissimi e stringati al
massimo, ponevano tre rigorosi interrogativi: Cur, Quomodo, Quando, che, come
facilmente si interpreta, significano: perché, in qual modo, quando; cioè per
quale ragione imparare o fare una cosa (finalità, di ordine filosofico); in che
modo impararla e/o farla (strumentalità, di ordine didattico); quando impararla
e/o farla (tempi opportuni, di ordine parzialmente psicologico). Così, nel
tempo, si è cercato di rispondere, ma diluendo sempre più la questione in
sofismi, dibattiti, spesso in chiacchiere vane, tra posizioni contrastanti o
addirittura avverse, e scrivendo saggi,
volumi, tomi addirittura, senza mai riuscire del tutto a dare una risposta
esaustiva e soprattutto concreta. Quali le ragioni?
Innanzitutto, occorre chiarire che educare non è
insegnare. Si può insegnare anche senza educare, ma è impossibile educare senza
insegnare. Per educare a qualcosa, occorre sapere, amare ciò che si insegna e
saperlo anche porgere con strategie che potremmo definire educative (meglio,
didattiche), e che purtroppo sfuggono a qualsiasi situazione teorica ed a
qualsiasi programma di comportamento.
Oggi (da sempre tuttavia), generalmente, gli
insegnanti purtroppo non sono né educati ne informati sull’arte. La scuola non
lo fa o, se lo fa, lo fa male. Insegna soltanto, nel migliore dei casi, ma
spesso in modo tecnicamente pedantesco, libresco. Per cui i ragazzi, senza che
alcuno glielo insegni, disegnano sui muri. Solo oggi? No assolutamente. Sempre.
Solo che un tempo non c’erano le bombolette spry. C’erano però pezzi di gesso,
le pietre, i sassi, Con quelli si facevano graffi sui muri; e, da piccolissimi,
i bambini, appena hanno un oggetto che segni, scarabocchiano ovunque dove
possono. E battono ritmicamente, gioiendo e ridendo, su qualsiasi oggetto, col
cucchiaio, sui piatti, calciando con i piedi barattoli o altro che faccia
rumore. È l’istinto creativo che, per non essere lasciato allo spontaneismo più
anarchico, va guidato, corretto, alimentato.
A questo punto, il ciclo deve interrompersi, non c’è
scampo. Per educare occorre sapere e saper
insegnare. Per far questo, si è inventata una disciplina, che è la
pedagogia. Credo sempre meno alla sua importanza. Oggi sono addirittura convinto
che sia un’antimateria, che si cerca di far esistere senza che essa esista
davvero. La si è trasformata addirittura in scienza, la quale però, per essere
tale, deve utilizzare discipline, queste sì scientifiche, come la psicologia,
la sociologia, la medicina (molte situazioni comportamentali sono date anche da
disfunzioni fisiche), l’auxiologia o scienza della crescita e dello sviluppo,
la psicoanalisi, l’antropologia culturale, ecc. Un tempo queste discipline non
esistevano, e la pedagogia era un filone della filosofia: studiando l’uomo, se
ne analizzavano i vari aspetti. da quello spirituale a quello razionale a
quello infine dell’educazione. Ci si chiedeva: come dev’essere l’uomo in un
determinato momento, per quella determinata società? A seconda dell’idea
prevalente, così doveva essere, e così lo si educava. Oggi non esiste più
alcuna di queste convinzioni: e la filosofia è perduta tra pensiero forte e
pensiero debole, senza che si definisca né l’uno né l’altro in relazione
all’uomo. Per quale idea dell’uomo
dunque educare? Non si sa. È presente infatti quella che Maritain definiva, già
negli anni ’40, obsolescenza dei fini. E gli studenti che vengono avviati agli
studi pedagogici studiano la scienza del nulla; o meglio, studiano psicologia,
sociologia, antropologia culturale, ecc. ma su come intervenire in relazione al
sapere, su come proporre una materia, nulla, o piuttosto chiacchiere,
espedienti. Per l’arte poi, peggio ancora, perché oltre a non sapere come
insegnarla, non la si conosce neppure, né si sa in che modo, concretamente, far
leva su quelli che il giovane Marx, in un suo saggio piuttosto raro, definiva
“sensi capaci”. E allora? Allora il cane si morde la coda: per educare ad una
realtà occorre saperla e saperla proporre; ma chi lo fa per professione non
conosce (o conosce male e in modo libresco) la materia, né sa come né perché né
in qual modo educare a quella materia, mentre occorrerebbe almeno conoscere una
strategia metodologica, cioè uno, o anche più metodi; e infine avere esperienze
di didattica, cioè degli strumenti operativi da usare; e poi di sapere come
porgerli agli allievi; che non è pedagogia astratta (e, come a me sembra,
vana), ma esperienza, operatività diretta, attenzione ai comportamenti, alle
curiosità, ai bisogni di sapere e di scoprire (dunque urgenze psicologiche
soprattutto, da conoscere) proprie dei bambini e comunque dell’uomo. Ma nel generico vuoto ufficiale, ci sono le
eccezioni, molte eccezioni: tanti insegnanti che, a loro spese, con il loro
impegno e sacrificio, anche economico, pagati malissimo e oltretutto
considerati dei nullafacenti e dei
perdenti dalla società, si impegnano, faticano, sostenuti da nessuno, anzi
spesso ostacolati da burocrati ignoranti e supponenti o da politici
profondamente incolti, per far amare quella materia che fino ad ora è
addirittura ufficialmente assente in molti ordini di scuola, ed a cui, anche là
dove è presente, si attribuisce un interesse pressoché nullo, in compagnia di
quell’altra materia che è trattata anche peggio, e cioè la musica. Chi ha la
fortuna di avere o avere avuto uno di questi insegnanti, ecco, sì, può forse
cominciare ad apprezzare l’arte, a capirla, a sentirla viva dentro, come un
messaggio di vita diversa, di originalità emotiva che è al contempo razionale e
spirituale, cioè interiore, e di comprensione anche della storia, della
società, del costume: in una parola, dell’uomo e del suo tempo.
Dunque, in conclusione: si può educare all’arte ?
Stando così le cose, no. Se cambiano, forse tra un secolo sì. Ma
attualmente, solo se la fortuna aiuta.
Peccato che, nonostante queste cose si dicano da
decenni o forse da secoli, ancora per il momento si debba far conto sul caso e
sulla fortuna.
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